Fly Mode: Gabbia azzurrina

La prospettiva del libro Fly Mode di Bernardo Pacini è assai singolare – non appartiene a un essere che definiremmo vivente nel senso più classico. A rivolgersi a noi è infatti un drone, che ha il vantaggio di poter ampliare la registrazione delle immagini, e lo svantaggio apparente di una mancata comprensione empatica della materia. L’occhio del drone allarga l’orizzonte, spaziando fra luoghi lontani ed esperienze private, riprese a distanza ravvicinata. Il suo abbraccio è cosmico e freddo, capace di portare conflitto, farsi strumento e osservatore di guerre come di restituire un evento intimo. Proprio la disumanità cognitiva del drone è la cifra più umana di questa poesia, come dimostra il poemetto scelto qui di seguito. Lo sguardo è pulito da ogni sentimentalismo, attraversa la nostra impossibilità a tradurci definitivamente in parole, ci rende gli autentici paradossi da cui siamo abitati: l’inconoscibile prossimità del tutto, il potere estraniante del dolore – duro, chiuso e integro nella sua presenza (FM).

di Bernardo Pacini

(in memoria di Ignazio Pacini)

and read her in a mother’s farewell gaze.
(H. Crane)

I

Se (quando) riuscirà ad andarsene da quella gabbia azzurrina
verranno subito dal paese a sincerarsi che stia bene.
Precisamente addestrato, potrà solo mostrare
con la stessa padronanza della guida museale
quanto il taglio sia stato netto, geometrico.

Quando stavo lì, dirà, mia madre mi chiedeva sempre
di soffiare / qualche nota nell’oboe.
Io obbedivo. Spalpebravo appena, e obbedivo…

II

Accadeva nel mese di agosto, quando a valle
sbraitavano fisarmoniche alla sagra del paese.
La madre gli imponeva di scendere nella notte.

Aveva precisa indicazione: far alzare “δραστηρ” i volumi
cosicché lei potesse sentire meglio
e dall’alto del colle, danzare.

Rincasava con sbreghi sui polpacci
e buchi sui calcagni  / per darle un dispiacere
le diceva «Sono felice di essere rimasto
per poco tempo
nello sguardo scomposto del tasso
che con me risaliva la macchia
di erica e lentisco.»

III

Non sa più contare le volte che è salita sul tetto
per vedere sognante la via delle martore in fuga.

Quando sente i passi della figlia sulla testa
il rumore delle tegole che cedono
si ferma qualsiasi cosa / stia facendo e osserva
vetrosa come una lampada spenta
lo spazio circostante.
Consulta l’oracolo di ciò che le capita davanti
sia esso un vaso o una testa d’alce
ancora integra nella sua custodia
di infelicità greca.

Non ha senso il suo impassibile disagio
ma è questo che ha insegnato a sua figlia
a osservare dall’alto ogni posto di gioia
a diffidare della morte, anche se sta
precisa in una scatola da scarpe.

IV

Dalle persiane socchiuse del finestrone
ricorda, intravvede la corte marcita della casa di sua madre
il fiocco azzurro scolorito
garrotato alla maniglia, la radio d’anteguerra
che trasmette per starnuti l’Erlkönig.
Er fasst ihn sicher, er hält ihn warm…

Ecco l’armadio, il piano verticale, indifferente
il tedio dell’Hanon mandato a memoria
acciaccatura
mancata per errore
terrore del-
la madre che urla da
dietro / la porta del bagno
invocazione inutile del nome:

morte del corpo / nel suo proprio corpo.
In seinen Armen das Kind war tot…
E bianca era la porta come / bianca era la morte.

V

Ecco, arriva il rombo quotidiano dei caccia
che spiana la valle
la fa traboccare.

Il maschio minore, per tutta risposta
chiude la faccia
immagina un fiume, ora che irrompe
bestiale la strage / sa bene che passa
se fissa in un punto lo sguardo
se lascia la mente si avvinca al cancello
le ossa degli occhi tritate e seccate nel muro.

Allenta la presa, è finita: riemerge.
C’è un fischio che sbosca il sentiero
il latrato dei cani si annida nel cavo uditivo
il vento si lancia demente sui lecci rachitici.

Ai tuoi occhi, mille anni sono come / il giorno di ieri che è passato…

Nel gelo, il mio ronzio
recide di netto
la salma inodore del cielo.

VI

Questa era la registrazione
della rinascita della rovina
di una donna
(dei suoi figli)
dei doppi vetri di una casa
sul fiume.

Che parlava del più
o parlava del meno, sapendo bene
che non era lo stesso. Ne parlava
spesso col muro, diceva che almeno
parlava con uno, al più
con nessuno. E se parlava del tempo
ne parlava col tempo
per non rinunciare
a un parere più esperto.

Quando si accorgeva di essere ripresa
parlava alla tenda
diceva / stai chiusa.

Testi tratti da: Bernardo Pacini, Fly Mode (Amos Edizioni, Collana A27, 2020)

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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