Intervista a Italo Testa su “Teoria delle rotonde”

di Laura Pugno e Italo Testa

[Questa dialogo è stato pubblicato sul n. 75, febbraio 2021, de il Verri, dedicato al tema “Ma quale valore?”] 

Laura Pugno: Vuole una tesi forte che molta della migliore poesia italiana contemporanea – Antonella Anedda, Stefano Dal Bianco, Guido Mazzoni – cerchi le proprie ragioni d’essere andando a sconfinare nei territori della saggistica. Di recente, scrivevo in una nota sul saggio Apparizioni di Andrea Gentile (Nottetempo), sembra invece, a contrario, che sia proprio la saggistica ad andare a cercarsi nei territori della poesia. Nel tuo caso, Italo, in questo tuo nuovo libro, Teoria delle rotonde (Valigierosse), l’analogia, la ricerca, il percorso circolare – altrimenti evocato nelle serie Giro del mondo e Vicolo corto – tra poesia e saggistica sono espliciti, e il territorio diventa paesaggio, alias territorio pensato – o non del tutto pensato?

Non a caso, il libro si conclude con un verso del poeta cileno Nicanor Parra, Creemos ser país y somos apenas paisaje. Ed è, il tuo, un libro sostanzialmente di poesia, ma porta come sottotitolo “paesaggi e prose”. Qual è per te la relazione tra poesia e paesaggio? Riprendiamo, in questo modo, il dialogo che abbiamo avviato su Le parole e le cose 2, con la mia rubrica Poesia, terzo paesaggio? di cui tu sei stato il primo interlocutore…

 

Italo Testa: Teoria delle rotonde si svolge come una serie di incursioni, iscrizioni nel paesaggio. La forma saggistica del discorso è in un certo senso richiamata nell’esordio del testo, per essere sottoposta a un processo di ironizzazione, spostamento – dove la dimensione rappresentativa, spettatoriale, ordinata, della teoria, convocata ironicamente dal titolo, si tramuta in una sequenza spaziale e temporale di rotonde, spiagge, cancelli, e altre configurazioni eterogenee del paesaggio urbano, naturale, linguistico. In gioco non è tanto il “territorio pensato”, fatto oggetto del discorso, traslato nei limiti di intelligibilità posti dalla forma del pensiero, quanto, come giustamente noti, “il non del tutto” o non ancora “pensato” – l’elemento impensato che non si lascia afferrare dalla forma canonica del saggio teorico, così come della prosa e della narrazione lineare. Si tratta di dare espressione a ciò che sfugge alla forma argomentativa, centralizzata, del discorso, e all’architettonica classica della prosa, e della trama, attraverso strategie di decentramento, destrutturazione, decoerenza. Per questo a interessarmi qui del saggio, quasi parodisticamente, è soprattutto l’aspetto di tentativo, prova, la dimensione inconclusa, e inconcludente, fatta di inizi, appunti, annotazioni, schegge riflessive o narrative che prendono una direzione, si arrestano, tornano indietro, riprendono, procedono a casaccio, non vanno a finire da nessuna parte. Ma proprio il fallimento, lo scacco di questa forma, disegna le traiettorie, le figure balistiche, di una strategia affermativa, iscrive una gamma di tracce, di legami emergenti in un paesaggio di frammenti. Teoria delle rotonde è anche un pluriverso di tentativi di formalizzazione, intesi non come forme rigide, statiche, ma piuttosto come processi formativi che operano all’interno di un campo di forze, un ecosistema fatto da elementi eterogenei – frammenti di una frammentazione più grande, rispetto a cui queste tracce fungono da attrattori, operando una sorta di sincronizzazione di eventi e processi, in cui “tutto accade ovunque” e “simultaneamente”, per riprendere i leitmotiv di un mio precedente lavoro. Questi “paesaggi e prose” sono saggi iscritti dinamicamente nel paesaggio, tentativi emergenti, estrazioni di campioni, calchi di forme, sviluppi per contiguità morfologica, decomposizioni – si pensi a Giro del mondo, dove sottopongo un mio testo a una sorta di decomposizione organica, generata dagli algoritmi che mediano la riproduzione dell’ambiente web. E’ una serie di dinamiche esplorate, nella land art negli anni settanta, da artisti come Robert Smithson, ma che mi sembrano illuminanti per comprendere come possa svolgersi un’ecologia della scrittura che non si ponga quale figura su uno sfondo, ma piuttosto si sviluppi come escrescenza dei luoghi, loro figurazione espressiva, immersa in essi ed emergente da un paesaggio, che a sua volta sia non mero sfondo, ma figura attiva, soggetto di una scrittura in situ. In questo senso i gender troubles che il lettore, e l’autore, si trovano ad affrontare con questo testo – si tratta di finti saggi, saggi ibridi, scherzi, forme brevi deformate, prose mutanti, poesie transgender? – non riguardano solo la performatività sociale della soggettivazione – secondo il costruzionismo radicale con cui si guarda di solito alla questione sia nel campo letterario che in quello dei gender e cultural studies –  quanto piuttosto lo spostamento del clivage tra natura e cultura, che è la posta in gioco quando parliamo del rapporto tra letteratura e paesaggio. In questo paesaggio ibrido e poroso in cui siamo immersi, i confini tra interno ed esterno sono mobili, si spostano di volta in volta. La “mente paesaggio”, per richiamare il titolo illuminante di un tuo libro, è un aspetto materiale del mondo che è già esistito, è sedimentata, situata, nei luoghi, possiamo incontrarla qui fuori. L’io privatizzato, recluso, sono i giardini recintati, le enclosures dei nostri litorali, i nostri abiti mentali e sociali sono estesi nel paesaggio sfigurato in cui stentiamo a camminare, che percorriamo nelle rotatorie. La mente, per parafrasare Rebecca Solnit, è un paesaggio di generi, e la scrittura un modo per attraversare l’erosione costante dei confini tra mente e mondo, esplorarne i bordi, estrarne, esporne i pattern, prolungarne, deviarne le configurazioni. Dove si nasconde la poesia in tutto questo, perché alla fine Teoria delle rotonde, il cui genere è abbastanza indecidibile, può sembrarti un libro di poesia? La poesia, in questo ambiente, non è nulla di sostanziale, ma piuttosto il vettore dell’attraversamento, l’attrattore verso cui evolve il sistema dinamico del libro con le sue traiettorie. Non intendevo fare un libro di poesia, ma non ho problemi ad ammettere che in questo ecosistema ci potrebbe essere un agente, una poesia “sotto copertura” – secondo il titolo di un testo della sesta sezione. Le strategie di occultamento, depistaggio, camouflage, il mimetismo vegetale ed animale con cui questa pratica, questa forma di vita è stata capace di sopravvivere nel tempo, adattarsi a condizioni mutate, sopravvivere ad un mondo ostile. Le tattiche di incursione, di spoofing, come negli attacchi informatici – e virali – dove falsificando la propria identità, impersonando qualcun altro, si riesce ad entrare in una rete, un organismo, modificandone, corrompendone i codici. In questo senso la riflessione sulla scrittura poetica, oggi, non può più limitarsi ad indagarne la forma storica, il genere, ma dovrebbe estendersi nella forma di una ecologia della poesia che ne indaghi le formazioni, le iscrizioni dinamiche nel paesaggio.

 

Laura Pugno: Sempre il percorso circolare – che però non necessariamente si avvita a spirale, può anche rivelarsi semplice loop, dispersione – si rivela come elemento dominante di un nuovo paesaggio, sempre più antropizzato, dove le rotatorie sono viste come presenza infestante che modificando le strade muta l’assetto delle città. In questa analogia, sembra che per te la rotonda, la rotatoria, sia l’anti-agorà, l’anti-piazza. La negazione dell’elemento civile e politico. Tutto questo accade, scrivi, a partire dagli Anni Zero. In una già citata sezione del libro, Vicolo corto, dedicata al paese in cui sei nato, Castell’Arquato, evochi un festival di poesia che proprio negli anni Zero è stato importante e ha propiziato molti incontri, e che ora non esiste più, come “piazza” della poesia. Vorrei chiederti, che cosa è accaduto per te a partire dagli Anni Zero – nello stesso modo nel paesaggio, in poesia, in politica?

 

Italo Testa: Le rotatorie che, dagli anni zero, hanno cominciato a diffondersi sulle nostre strade secondo una logica epidemica, con una proliferazione vegetale incontrollata, sono anche l’epitome di un processo di trasformazione di lungo corso del nostro paesaggio, il segno del modo in cui i confini tra privato e pubblico, naturale e sociale, si stanno spostando. C’è un effetto di deformazione, che sfigura l’esperienza, ed emerge soprattutto nella prima sezione del libro (Il paese guasto) nella fenomenologia dei cancelli che segmentano le abitazioni, degli stabilimenti balneari che frazionano il litorale, delle rotonde che ridisegnano la viabilità ad uso del trasporto privato, e più di recente del distanziamento sociale che trasforma lo spazio pubblico in un aggregato di isole. Qualcosa che tende verso una privatizzazione dell’esperienza, del mondo, della natura umana e non umana, attraverso la diffusione di dispositivi architettonici, elettronici e securitari di recinzione fisica, e mentale, che intervengono sullo spazio del vivente e ne modificano l’evoluzione. Il Loop, come figura che cresce, si alimenta di sé stessa, è elemento dominante di questo paesaggio contemporaneo, e del modo in cui tendiamo a viverlo, ed interpretarlo, quale circuito chiuso, espressione di una socialità autoreferenziale. Ma questa sarebbe una lettura unilaterale dell’attualità, le cui figure circolari sono profondamente ambivalenti, indecidibili, oscillando tra loop regressivi ed espansioni a spirale. Io stesso mi sono accorto che  una più vasta gamma di configurazioni circolari e cicliche, sia a livello tematico che compositivo e formale, struttura Teorie della rotonde: le rotatorie del titolo, il reset degli anni zero, le ciambelle di Busslan # 1 e 2, il ciclo vitale della medusa immortale di Geografia temporanea – l’idrozoo (turritopsis nutricula) che raggiunta la fase di medusa adulta regredisce allo stadio totipotente di polipo; e i ‘translation loops’ di Giro del mondo, in cui un frammento testuale in italiano transita attraverso le traduzioni interlinguistiche di google translator e torna quindi alla nostra lingua in forma mutata, incorporando nel suo stadio finale l’alterità, le variazioni casuali accumulate nel tragitto. L’antropizzazione crescente, la densificazione degli spazi urbani, la periferizzazione diffusa del territorio, stanno dando luogo anche a forme inedite di riconfigurazione degli spazi, che tendono a una vasta periferia suburbana, in cui si incontrano, quasi senza soluzione di continuità, elementi eterogenei, frammenti costruiti, aree verdi, porzioni dismesse, interstizi rivegetalizzati. Un processo non semplicemente autoreferenziale, dispersivo, ma che, su altri piani, avvia una dinamica produttiva, eccedente, difficile da inquadrare con le categorie interpretative che abbiamo ricevuto. Se è vero che, nell’antropocene, l’umanità diviene alla lettera una forza geologica, che modifica il pianeta (e, ndr, che a sua volta ne è modificata), allora i confini tra natura, artificio, storia, si spostano. Le rotatorie vegetano, si diffondono secondo una logica epidemica, e manifestano un’eterogenesi che si intreccia con quella delle piante infestanti. Le piante pioniere, di cui scriveva Richard Mabey in Elogio delle erbacce, si concentrano negli spazi urbani, si diffondono tramite i nostri sistemi di trasporto, riempiono gli incolti, la waste land, i residui dei processi di antropizzazione, avvalendosi degli equilibri ecologici prodotti da ciò che Andreas Malm chiama ‘capitalocene’, il sistema produttivo globalizzato alimentato dal capitale fossile. E le rotonde per eterogenesi dei fini, nella stagione dei gilet jaunes, sono state riappropriate a sorpresa quali spazi di aggregazione e contestazione, matrici sorgive di un pubblico a venire. Nel capitalocene sono in gioco anche effetti di sincronizzazione, e totalizzazione, magari, come nota Nicolas Bourriaud, nei termini di una sintonia disastrosa – dalla crisi climatica all’epidemia globale – ma, nonostante tutto, finendo per connettere differenti culture, forme di vita, ecosistemi, frammenti naturali e storici. In queste zone di transizione tra vari regni, forme dell’essere, regimi di discorso, si manifestano ordini emergenti, ancora da decifrare, che mettono in discussione e ridefiniscono la scala con cui guardare ai fenomeni, che non è più fissa, tarata sul senso comune umano, soggettivo, né meramente oggettiva – a dispetto di tutte le contrapposizioni di retroguardia tra sostenitori dell’io e dell’oggettività in poesia – ma può variare e spostarsi di volta in volta. Così anche in Teoria delle rotonde  l’inquadratura e la scala si spostano di volta in volta dall’iconografia (trans-)nazionale di  Italia[n] aila[n]ti, alla narrazione locale della provincia di Vicolo corto, degli algoritmi impersonali e globali di google, alla biologia privata di Terra gemella (il cortocircuito di Google heart, la terza sezione del libro),  dai calanchi e le spiagge di cetacei del Piacenziano, all’infanzia in un borgo medievale, dalla forma di vita di una medusa, alla memoria biografica e collettiva di Non luogo a procedere, le cui tracce fisiche si sedimentano nel paesaggio come una materia vivente, una bava luminosa, un’impronta tra le altre. “Macchine della poesia”, il titolo del festival degli anni zero cui ti riferisci, esprimeva tutto sommato in forma icastica questa ibridazione tra aspetti organici e meccanici, naturali e artificiali, espressivi e seriali, anonimi e personali, che è l’ambiente in cui ci troviamo, volenti o nolenti, immersi.

 

Laura Pugno: Il tuo libro, come tanti libri di poesia oggi, dialoga con le immagini e le include nel testo, e le immagini sono sempre in retroazione – ancora spirale o loop – con la tua poesia. Sono tue foto di ailanti, la pianta invasiva naturalizzata in Europa che è entrata nella tua scrittura dieci anni fa con Luce d’ailanto, la silloge che hai pubblicato nel X Quaderno italiano di poesia contemporanea (2010), e che torna nella tua ultima raccolta prima di questa, L’indifferenza naturale (Marcos y Marcos 2018). (La rielaborazione delle foto è di Riccardo Bargellini). Perché l’immagine? Per il valore testimoniale della fotografia, che però, come sappiamo, “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” è piuttosto sfumato? Per fare della tua poesia Expanded Poetry, per riprendere il titolo di una rubrica di poesia e immagini con cui Andrea Cortellessa interroga poete e poeti sul sito Antinomie? Che necessità aggiunge l’immagine alla tua poesia? Per altro, come scrivi nelle Note, il titolo, Italia[n] Aila[n]ti, è “un’interpolazione del titolo di una serie fotografica di Luigi Ghirri sul paesaggio italiano. Le immagini diffuse e infestanti che compongono la sezione fanno parte di un archivio personale di ailanti nel paesaggio europeo”. Il cerchio si chiude?

 

Italo Testa: L’uso dell’immagine nel testo non è testimoniale, non riguarda la necessità di attestare, provare, verificare un’esperienza. Mi interessa invece l’aspetto infestante dell’immagine, come forma viva, traccia dinamica che, propagandosi in diversi contesti, attiva connessioni, fertilizza altri media, manifesta energia espressiva. Non ricordo esattamente la cronologia, ma credo, dopo la composizione del poemetto Luce d’ailanto, di aver iniziato a raccogliere, senza un metodo preciso, una serie di scatti, che nel tempo hanno costruito una sorta di archivio personale di immagini di queste piante e della loro diffusione nel paesaggio contemporaneo. Non mi era chiaro cosa stessi facendo, ma senz’altro avevo la percezione che il discorso con gli ailanti non fosse terminato, si stesse evolvendo in una direzione che non mi era chiara ma che valeva la pena assecondare. Non si trattava né di un lavoro fotografico autonomo, né della documentazione del making of di un testo, né della mera prosecuzione in un altro medium del poemetto Luce d’ailanto. Quando queste piante hanno invaso Teoria delle rotonde, ho capito che la sequenza degli ailanti si stava distribuendo su vari elementi, come se le immagini fossero tessere di una poesia che si materializza in una molteplicità di forme, pratiche, e media, e di cui questo libro è una prima, parziale manifestazione. Al centro di Teoria delle rotonde sta una sezione iconografica vuota, Italia[n] aila[n]ti, il cui contenuto, sfuggito dal recinto, si è andato ad annidare nell’ecosistema del libro, nel suo macrotesto. In questo senso hai colto bene il legame di retroazione, di sviluppo a spirale, tra testo e immagini, tra le diverse forme e generi la cui costellazione compone Teoria delle rotonde – narrazioni, aforismi, foto, paesaggi, rotonde, ailanti, prose brevi, meduse, elenchi – generando per metamorfosi una sintassi visiva, e una disposizione tipografica, plurale e ramificata. Le immagini, quali formule di pathos, sono per Aby Warburg dialettiche in movimento, unità dinamiche la cui dispersione resiste all’entropia, genera un’energia espressiva che sfugge al medium e prolifera diffusamente altrove. Le tracce visuali presenti nel libro sono uno degli elementi che, come scrivo in Sotto copertura, fa sì che “al culmine il progetto si rovescia, entra nella faglia. Incontra un’energia altrettanto intensa. È attratto”. In questo senso mi piace pensare che, se Teoria delle rotonde, in cui non ci sono poesie, ha qualcosa a che fare con la poesia, ciò riguardi piuttosto una dimensione transcategoriale, l’apprensione di un legame che si materializza in forma molteplice, transita tra le categorie e generi che di volta in volta sono convocati e tolti, secondo una relazione di negazione determinata, una dissoluzione attiva, affermativa del loro contenuto dato. In questo senso, più che di expanded poetry, parlerei di poesia transcategoriale, come anello di congiunzione, momento di passaggio, spazio di tensione tra ordini differenti dell’essere e del discorso.

 

Laura Pugno: Questo libro ha una natura composita, raccoglie testi che vanno dal 2007 al 2019 – dagli Anni Zero, again, alla soglia degli Anni Venti –, mi fa pensare a una resa dei conti, a un animale che si raccoglie e raccoglie le forze prima di spiccare un balzo. Verso la fine, quando la tensione e torsione saggistica si fa più evidente, in Non luogo a procedere, scrivi: “Considera l’ipotesi che le poesie a volte non siano altro che siti di stoccaggio di rifiuti verbali ultratossici. A che cosa varrebbe? A disinfestare la mente? A liberare questi luoghi dai detriti, e lasciare che le cose si mostrino? Considera l’ipotesi che le poesie siano luoghi eventuali. In questo spazio qualcosa deve poter accadere, fare irruzione, sovrastare”. Di cosa attendi l’irruzione, cosa sta per accadere?

Hai ragione, Teoria delle rotonde è un compost, un misto di diverse materie e forme, residui e scarti coinvolti in un processo di trasformazione che li ossida e decompone. Non so se a condurre questo processo sia un microrganismo, un animale singolare, o la forma di vita eventuale, con un solo portatore, di cui si parla in Sotto copertura. In ogni caso, l’intuizione che le poesie siano fatte di rifiuti verbali ultratossici, revenants,  refrattari alla logica dominante, che ritornano come materiali socialmente rimossi, e sono compostati nei siti di stoccaggio espressivi, ha a che fare con ciò che chiamo luogo eventuale, irruzione, prepararsi all’invasione. Mi interessa sempre di più il modo in cui processi prima facie entropici, di mera dispersione, disgregazione, nullificazione, caduta irreversibili nel disordine, possano riconfigurarsi plasticamente, in forma anche estatica – la decreazione di Simone Weil. Si pensi ai fenomeni biologici reversibili – il ciclo vitale di turritopsis nutricula, i processi di transdifferenziazione – in cui le cellule regrediscono ad uno stadio totipotente, rigenerando i tessuti, ripristinando potenziali di differenziazione ulteriore. Ma si pensi anche all’antropologia durkheimiana della partecipazione a cerimonie e pratiche rituali quale forma di dedifferenziazione sociale rispetto a ruoli, gerarchie, strutture consolidate della personalità, che regredendo a fasi precedenti dell’esperienza collettiva, rivitalizza la vita comune, avvia una sorta di rigenerazione del tessuto sociale. O al ritorno nel presente di certe immagini di movimento del passato, le Pathosformeln di Warburg, che connettendosi a contesti mutati, installandosi nei siti del presente, si manifestano quali tracce attive, dinamiche, alimentando e rinnovando la possibilità attuale di produrre energia espressiva. A proposito di queste oscillazioni tra entropia e riconfigurazione produttiva, differenziazione e dedifferenziazione oceanica, Robert Smithson parlava di ‘ritmo della dedifferenziazione’, una dialettica che ha intimamente a che fare con la pratica artistica. Non solo la poesia ha sempre avuto a che fare a mio avviso con la reversibilità temporale,  la resistenza all’entropia, la possibilità controfattuale di contrastare la linearità dell’esperienza, far rivivere l’energia delle immagini di movimento del passato nel presente, trasportare quest’ultimo indietro nel tempo; anche la nostra vita comune deve esplorare le possibilità dischiuse dai processi di dedifferenziazione epocale, di sincronizzazione di spazi e tempi disomogenei cui la nostra epoca ci espone, che mentre ci sottopongono a forme di regressione ambivalenti, per altro verso possono aprire ad un reset dell’esperienza, ad altre vie di sviluppo, a inedite alleanze.

 

*

Immagine: foto di Italo Testa, elaborazione di Riccardo Bargellini.

 

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