Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh # 2

di R. Umamaheshwari 

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima. Quella che segue è la seconda.

18 marzo, un morso di cane, il vaccino antirabbico e qualche consapevolezza.

Quella sera, in un villaggio particolarmente bello, dentro una casa nei pressi di un ruscello gorgogliante, il cane addomesticato della famiglia mi morse il dito del pollice all’improvviso. Il tranquillo villaggio dell’Himachal Pradesh ha bellezze in abbondanza, ma in situazioni di emergenza, non c’è nessun medico, ad eccezione di un RMP, ovverosia un Registered medical practitioner, iscritto all’albo dei medici, che gestisce anche una farmacia, a sei chilometri di distanza. Anche lui non aveva il vaccino antirabbico. Mi informò che il vaccino scarseggiava da mesi. Beninteso, tutti i centri sanitari pubblici dovrebbero tenere scorte di questo vaccino, specialmente in uno Stato famoso per i molti casi di morsi di scimmia (e anche di cane, una volta ogni tanto…). Persino il più vicino ospedale governativo (Theog), qualche chilometro più lontano, non aveva scorte.

Frattanto si cominciava a riferire di uno o due casi sospetti di Coronavirus a Himachal, negli ultimi giorni. Il coronavirus era ancora un evento lontano. Eppure lo Stato aveva allestito due reparti di isolamento per i malati affetti da Coronavirus, a Shimla (presso l’ospedale IGMC) e a Tanda. Ho fatto un’antitetanica dal farmacista, e dopo cena la famiglia mi ha accompagnato fino a Shimla, all’IGMC, a oltre due ore di macchina.

Anche quando arrivammo, alle dieci e mezza di sera, l’ospedale era affollato, e ci è voluto un bel po’ prima che il molto loquace dottore, un medico dell’esercito in pensione, che ora, ci disse, lavorava part-time qui, prescrivesse le iniezioni; la registrazione e l’iniezione sono state gratuite. E finalmente alle 23.30 la vaccinazione era giunta a termine.

Mi sono resa conto di cosa significhi per le persone che provengono da villaggi lontani venire a Shimla (con i mezzi pubblici, o, in situazioni di emergenza, in mancanza di ambulanze, noleggiando mezzi privati) e cosa significava per il personale sanitario qui presente gestire (molto bene) quel numero esorbitante di malati e feriti che arrivano in continuazione, cosicché alcuni devono aspettare nei lunghi corridoi fino a quando non è possibile predisporre alla bell’e meglio, con risorse e spazio limitati, un letto per il paziente. Una sezione separata di isolamento era stata rapidamente preparata in questo ospedale (lontano dai reparti destinati agli infortuni, dagli ambulatori e dal Pronto Soccorso), ma la gente sembrava ansiosa, e alcuni indossavano delle mascherine. Anche a me questo ha fatto paura.

Ma anche in mezzo a tutto quel caos, a notte fonda, trovai l’infermiera più gentile che avessi incontrato da molto tempo; una donna che si premurò di scusarsi con me per il dolore straziante che mi aveva provocato, facendomi piangere, quando aveva iniettato il siero nella ferita. Avrei completato le restanti iniezioni in un altro ospedale governativo, nei successivi cinque giorni. Gratis. Questo è l’ospedale pubblico, dove la maggioranza della gente riceve un trattamento gratuito o comunque sovvenzionato, ma che è trattato come un cugino povero degli ospedali privati super specialistici dell’India.

Prima di poter trovare una casa in cui vivere, l’isolamento è sceso sulla nazione. A volte sono grata a quel cane, Tukki, perché adesso ho l’occasione di vedere e osservare il mondo da questo mio punto di vista, relativamente vulnerabile, che altrimenti non sarebbe esistito per me, benché ancora mi rammarichi della punizione piuttosto dura che gli fu inferta per la sua bravata. Invano quella notte avevo chiesto che lo perdonassero. Ma in futuro, in tempi “normali”, spero di incontrare di nuovo il suo un po’ più calmo…

22 marzo 2020. Prime riflessioni su un virus.

Un profondo silenzio mi avvolge qui a Shimla. Le orde invasate dei soliti chiassosi turisti – alla ricerca del consumo a tutti i costi di ciò che deve essere consumato, secondo le indicazioni delle guide turistiche o dei blog di viaggio – non sono più la “normalità”, in quest’inizio della bella stagione. Alcune delle nazioni che vantavano una storia di successo fondata sull’economia di mercato, la privatizzazione dell’assistenza medica e il “turismo sanitario”, sembrano ora fare un passo indietro, e dichiarano, pur con scarsi risultati, di voler mettere in atto un piano di intervento medico statale. Un presidente come Donald Trump parla del sussidio di disoccupazione, e ad alcuni questo fa venire in mente le imminenti elezioni negli Stati Uniti alla fine di quest’anno.

Il mondo oggi sembra comprendere che un’equa assistenza sanitaria statale è una necessità inevitabile. Il mondo, o la maggior parte di esso, sta combattendo una guerra senza armi di distruzione, ma al contrario con strumenti che salvano vite umane. In un contesto di rigida religiosità e di religioni strutturate, che in tutto il mondo ha avuto una tradizione storica secolare, oggi troviamo quasi tutti i luoghi di culto chiusi e i rituali comunitari abbandonati, in un consenso mondiale senza precedenti. Chiusi anche i supermercati e i centri commerciali, per la maggior parte del tempo. Invece delle folli corse per raggiungere qualche posto o ritornarne, ventiquattr’ore su ventiquattro, con la polvere e la sporcizia che hanno avviluppato le nostre città metropolitane, ora sperimentiamo i silenzi e il minimalismo e la qualità di un’aria più pulita. Per molti oggi lo spazio più sicuro sembra essere ‘casa’: non importa quanti non possano ancora assaporare ciò che la ‘casa’ veramente è o dovrebbe significare, o che ‘casa’ dovrebbe significare qualcosa di diverso dalle immagini stereotipate di ‘famiglia’ (quasi sempre sorridente, felice) dentro mura di mattoni, isolata dal resto delle cose che ci circondano. In alcuni casi, come è stato più volte rilevato, le case non sono davvero quegli spazi sicuri e felici per donne, anziani e bambini.

Il “distanziamento sociale” – non uno dei momenti più gravi della storia indiana, a paragone del concetto di casta (ma si potrebbe dire lo stesso per il concetto di razza, e per altri tipi di discriminazione) – è diventato un comportamento “normale” e virtuoso: la cosa da fare, anzi.

Le proteste e il dissenso si sono quasi fermati: un vantaggio per tutti i governi del mondo, che in passato hanno dovuto affrontarli, affrontare le proteste divampate contro l’ingiustizia e l’oppressione, nei rispettivi Paesi, fino a questo momento storico. Per la prima volta dopo tanto tempo, le zone di crisi non sono la Siria o il Libano o la Palestina, o qualsiasi altra area di frizione geopolitica, ma territori usurpati da un virus. Di ritorno a casa, non sentiamo più parlare del CAA (Citizenship Amendment Act), di questioni di casta o di genere, di discorsi sulle migrazioni; persino i problemi economici non sembrano al momento così gravi o visibili. Gli Stati liberi stanno cercando di mantenere il controllo in molti modi. Si può dire che questo ha posto fine ai nazionalismi insulari a favore di un’alleanza globale, che combatte unita una malattia che colpisce la “specie” umana? Oppure l’epidemia ha aumentato gli ultranazionalismi, come se ad ognuno andasse bene anche che solo la propria nazione fosse risparmiata dalla malattia? E questo anche se i viaggi internazionali sono stati parte integrante del nostro mondo, e l’economia è multinazionale e globale, e non soltanto locale?

 

Un virus, la cui origine opinabile e discutibile si presta a disquisizioni di geopolitica e multinazionalismo, e a illazioni sulla guerra biologica; un virus che ha fatto di tutto: ha mosso nazioni grandi e piccole, simultaneamente. Eppure…

 

Il nazionalismo culturale e il razzismo non sono scomparsi, anzi, sono apparsi più frequentemente sui social media, come mai prima d’ora. Questo virus ha avuto il potere di costruire cameratismo e abbattere muri di rigidi nazionalismi, ma lo ha fatto davvero? Questo virus ha avuto il potere di ribadire i principi basilari del concetto di “specie” (in senso puramente scientifico), invitandoci a ripensare l’uomo come Homo sapiens, al di fuori del paradigma Stato-nazione. E ha ribadito come questa specie, in conseguenza della sua stessa intelligenza o del suo agire, continua a rendersi di tempo in tempo vulnerabile agli agenti patogeni. In un senso sociologico, il virus ci fa considerare la possibilità di guardare alle società umane nel loro insieme (naturalmente, in contesti culturali diversi, eppure, all’interno di quei contesti culturali molto diversi, con un’uguale insicurezza di fronte al virus, forse?), e di metterle a confronto nel loro complesso con altre società non umane. Eppure, sarà importante guardare al contesto sociale, culturale e politico in rapporto a questo virus: chiedersi chi è più vulnerabile, perché, e chi soccombe. O forse chi muore soccombe da solo, o a causa di altre variabili di cui non ci stiamo ancora occupando. Benché “co-morbilità” sia un termine che si sta diffondendo, negli ultimi giorni.

Oltre che per indicare cause mediche di morte tra loro concorrenti, infatti, mi chiedo se il termine “comorbilità” non possa essere visto anche in relazione a un contesto sociale o economico, in riferimento a persone che sono morte apparentemente a causa di questo virus. Per esempio, una concausa di morte, per alcuni, potrebbe essere la difficoltà di un accesso tempestivo ai servizi medici.

 

C’è anche una certa connotazione morale nel riferirsi al virus: il “demone”, il “cattivo”. Alla radio (All India Radio), nei giorni precedenti al primo lockdown, si parlava di un coprifuoco Janata (un coprifuoco della popolazione, anche se imposto dallo Stato), e abbiamo sentito messaggi che invitavano la gente a suonare le conchiglie, e le campane, ecc. alle 17.00 (il 22 marzo), in modo che le vibrazioni delle conchiglie e l’energia positiva cacciassero il virus demoniaco dal nostro paese. Messaggi che, naturalmente, non si sono più sentiti in seguito.

 

Un’altra caratteristica fondamentale di questo virus è associata ai viaggi, o al movimento: interregionale, internazionale, ecc. Le società umane e le idee hanno sempre viaggiato ‘attraverso’, ‘a’, ‘da’, ‘per’, ‘avanti’ e ‘indietro’. Attraverso il viaggio, culture, idee, e persino cucine, hanno viaggiato. E quel viaggio è stata una parte accettata della storia umana. Anche gli uccelli viaggiano, e senza polizia, e finora, per fortuna, sono stati accettati come visitatori graditi in luoghi dove costruiscono temporaneamente i loro nidi. Anche le creature nei mari e negli oceani viaggiano, ignari dell’idea di acque territoriali e controlli di polizia. Ma in questo momento, tornando all’ “umano” (culturale, o politico, o scientifico), come si presentano le conseguenze di questo virus? Ci costringeranno a porre confini e frontiere dove prima non esistevano (se e dove non esistevano già…)? Metteranno fine alla possibilità di una visita casuale di un amico a un altro amico, che non susciti domande o sospetti?

 

Per inciso, alla ricerca di una casa, l’anno scorso, in alcune “colonie recintate” di Hyderabad, ho trovato dei residenti costretti dai gestori dei complessi abitativi a scaricare un’applicazione sui loro telefoni e ad invitare a farlo anche i loro visitatori (che ovviamente dovrebbero essere quelli abituali, e non un amico che non si sente da tempo, o un parente che arriva improvvisamente a casa tua), per non parlare del giornalaio, del postino, ecc., al fine di un tracciamento all’ingresso di queste sacre colonie. Queste applicazioni diventeranno la nuova normalità? La vita sembrerà piuttosto pericolosa se ciò succederà davvero. La Cina, come riferito da un canale televisivo internazionale, è stata la prima a sviluppare un’applicazione che decideva, sulla base di alcuni algoritmi, se una persona era positiva al Coronavirus o no, e solo se il segnale era verde (indizio di negatività) si aveva il permesso di entrare in casa sua. A quanto pare, ci sono stati dei malfunzionamenti e presto l’applicazione è stata sospesa. Quanto è pericolosa la possibilità di esclusione basata su meri algoritmi progettati da uomini in laboratori tecnologici? Ci sarà un nuovo quadro legislativo per dirimere le questioni e sanare le ingiustizie derivanti da questi dispositivi e dal loro possibile malfunzionamento? Un’azienda potrebbe ad esempio essere citata in giudizio per aver causato un trauma fisico e mentale a causa del cattivo funzionamento della sua applicazione? E queste applicazioni non potrebbero essere state progettate anche per secondi fini? Perché accettarle tout court senza distinguo o domande?

Il potere di gran lunga più pericoloso di questo virus è questo: accettare come “assoluto” o “vero” ciò che vediamo e sentiamo sui vari media o i numeri delle statistiche governative, senza alcuna possibilità di accedere ad indicatori alternativi o strumenti di verifica di queste verità, o per lo meno strumenti di ricerca e di analisi della loro veridicità, sia che si tratti di ‘verità’ su un particolare tipo di test, su un dispositivo, o semplicemente sul numero di casi in ogni stato o distretto.

 

Da un lato, il virus può confinare, e creare confinamenti; ma allo stesso tempo può far sì che il confinamento stesso sembri di per sé “sano” e “sicuro”, mentre la natura di tale “sicurezza” finisce in realtà per distanziare le comunità umane tra loro (al loro interno, fra regione e regione, tra Stato e Stato e nei rapporti internazionali) e, quindi, rendere più semplice e in un modo più insidioso di prima, la nascita di nuovi totalitarismi.

 

Nel frattempo, questo virus ha il potere di imbrigliare il profitto sfrenato tanto nel campo delle multinazionali farmaceutiche quanto in quello delle prestazioni mediche, così da rendere le une e le altre più umane, e regolate da una sorta di patto internazionale fondato su un uguale accesso, per tutti e in tutto il mondo, a strutture mediche sofisticate per salvare vite umane?

 

Solo il tempo lo dirà. In India, alcuni laboratori e ospedali privati sono già stati autorizzati a procedere con i test e le terapie anti Covid. Ma ancora una volta, sapremo nei prossimi giorni quanto siano stati accessibili questi enti privati per i poveri e le persone svantaggiate, e quanto “corretti” (e quindi trasparenti e regolamentati) siano i loro parametri di prova e i loro indicatori di trattamento.

 

Per ora, molte cose sono state messe insieme in grande fretta per contenere il contagio, ed ecco perché ci occorrerà, nel prossimo futuro, un saldo quadro giuridico utile a prevenire eventuali pratiche illecite cui, anche in tempi normali, è risaputo che il settore medico privato ha già ampiamente fatto ricorso, almeno a giudicare dal gran numero di cause legali intentate dai pazienti e dalle loro famiglie agli ospedali privati in India. Inoltre, ci sono voluti anni di indagini per svelare la politica delle case farmaceutiche in tutto il mondo e la natura dei loro affari legati ai prezzi di farmaci salvavita essenziali nelle cosiddette economie in via di sviluppo. Nel caso si trovasse, com’è possibile, un nuovo vaccino per il Coronavirus, o, a seconda dei casi, un farmaco, stiamo pensando a nuovi e rigorosi quadri giuridici multilaterali che garantiscano un accesso equo e sovvenzionato al nuovo vaccino o al nuovo farmaco, quando sarà svelato? Questo virus cambierà la natura del commercio farmaceutico internazionale (rendendolo più equo) o lo renderà più competitivo e segreto?

 

Cos’altro ha fatto questo virus? Ci ha mostrato, o ci ha fatto vedere, più chiaramente, alcune verità fondamentali: le cose che possiamo o non possiamo controllare; il tempo in cui realizzare ciò che ancora non possediamo. Questa conoscenza non può essere ciò che già conosciamo: verità che apparentemente non cambieranno per secoli. Non esistono sistemi e verità antiche che funzioneranno per sempre. Dobbiamo accettare il nuovo (anche se ciò significa accettare nuovi modi di affrontare una pandemia); e il nuovo richiede, se necessario, modifiche e aggiustamenti del vecchio che possano includere nuove idee politiche, religiose o economiche. Può il modello economico, finora considerato come il modello da emulare (un modello iniquo, basato sul consumo, e pericoloso per l’ambiente), avere contribuito alle modalità di diffusione di questo virus? Dobbiamo almeno provare a capirlo. Non è un caso che il maggior numero di positivi al Coronavirus, in India, provenga dalle grandi aree urbane che si sono sviluppate in modo disordinato e dalle zone industriali, e da quei luoghi che hanno un indice globale di viaggi e spostamenti piuttosto importante, almeno in base a quanto indicato dalle statistiche attuali.

 

Resta da vedere se il nuovo virus aprirà nuove idee di umanità ed umanesimo, o creerà muri e spazi di autosegregazione intorno a ciascuno di noi. Un aspetto che il virus ha reso più evidente è l’iconografia dei nostri tempi: medici, infermieri e addetti alle pulizie completamente avviluppati in protezioni e mascherine, in particolare quelli che lavorano per il governo, o in aziende statali e strutture sanitarie. Nel contesto indiano, sappiamo già quanto questa gente si sia ammazzata di lavoro, e in condizioni di certo non invidiabili. Il numero di persone povere che affollano gli ospedali pubblici in India è davvero ingestibile.

 

Molti di questi operatori affrontano anche la brutalità e la violenza della gente, in caso di diagnosi errata o di morte del paziente. Eppure, in un tempo come questo, sono questi ospedali che diventano gli spazi più affidabili per le cure e l’assistenza, anche rispetto agli ospedali privati. Ci si rende conto, adesso, della necessità e dell’importanza della gestione pubblica dei sistemi sanitari (e di quanto sia importante non privatizzarli, anche parzialmente, anche se in alcuni Stati dell’India sono stati compiuti passi significativi in tal senso), e persino dell’utilità di espandere queste strutture, di fornire loro infrastrutture che funzionino bene durante le crisi, in modo da essere preparati con largo anticipo, piuttosto che apportare modifiche ad hoc incalzati dall’emergenza. Solo il tempo ci dirà se, quando un antidoto al nuovo virus arriverà, saranno gli ospedali privati che se ne impadroniranno, o la sua somministrazione sarà strettamente regolamentata e gestita solo tramite gli ospedali pubblici, in ambienti consoni e nel rispetto della dignità di tutti i pazienti. Il caso dell’Italia deve essere uno dei più difficili da affrontare per gli operatori sanitari, nel momento in cui, nonostante tutto, la morte sembra vincere ogni volta, e i cadaveri devono essere accatastati. Ciò che all’inizio deve essere iniziato come un normale esercizio di somministrazione quotidiana di farmaci e di calcolo di dosaggi, deve essere presto diventato un incubo in cui la monotona routine degli ospedali ha lasciato il posto ad una situazione drammatica, in cui i medici sembravano guardare impotenti ciò che accadeva sotto i loro occhi, e sono diventati, quasi, gentili amministratori della morte stessa. In effetti è stato solo quando l’Italia ha attraversato questo disastro che il mondo ha cominciato a prendere una maggiore consapevolezza di ciò che stava per accadere. Ci si chiedeva del trauma emotivo, affrontato dagli operatori sanitari in momenti come questi. Cosa dire dei Paesi con un numero limitato di operatori sanitari, ed in cui viene loro fornito un sostegno economico o politico inadeguato?

 

Cos’altro ha fatto questo virus? Per la prima volta nella storia indiana post-indipendenza, ha portato ad un brusco arresto dei treni passeggeri. Questa era la rete ferroviaria che, a fine marzo 2017, aveva trasportato più di 8 milioni di passeggeri, percorrendo un totale di 141,7 milioni di chilometri. Le ferrovie indiane, per inciso, hanno 7.349 stazioni ferroviarie, sparse per tutto il paese.

 

Stranamente, i servizi che il governo indiano in carica ha cercato di privatizzare (parzialmente o totalmente) – le ferrovie e la compagnia aerea nazionale, Air India – si sono rivelati i più utili in una crisi come quella attuale. I servizi ferroviari hanno continuato a trasportare merci essenziali, e la compagnia aerea nazionale ha lavorato anch’essa senza sosta per il trasporto di beni di prima necessità, comprese le forniture mediche, e ha persino riportato indietro diversi Indiani bloccati negli aeroporti di altri paesi del mondo.

 

Dal punto di vista economico, questa pandemia sta colpendo e colpirà per un lungo periodo la maggior parte della forza lavoro non organizzata e indipendente o freelance in India. Mentre quelli che svolgono lavori governativi – e questo include anche gli accademici che lavorano nelle università pubbliche federali o statali, oltre che nei college e nelle scuole pubbliche in tutto il paese – non sono altrettanto duramente colpiti, perché i loro stipendi sono protetti, e attualmente la maggior parte di loro è a casa. Sicuramente il virus ha colpito molto duramente coloro che non entrano nelle statistiche del governo. Un numero che comprende, fra gli altri, oltre ai lavoratori freelance (tra cui forse molti che fanno lavori ad hoc basati su contratti e consulenze, così come giornalisti non accreditati o stranieri, nei villaggi), artisti non ‘all’avanguardia’, i proprietari di quei minuscoli locali di cibo da strada, i venditori ambulanti di ogni tipo di merce, che di solito si vedono per le vie, in vari quartieri delle città.

 

Mentre in questo momento molti hanno perso il lavoro o non si aspettano di trovarlo, e altri hanno dovuto chiudere i negozi, nessuno può dire se e quando il periodo di isolamento finirà. E fino ad oggi non esiste un pacchetto di aiuti pubblici a lungo termine, ben pensato, né alcun meccanismo di facilitazione per una così grande forza lavoro informale.

 

Forse dovrei aggiungere qui come mi vedo in questa situazione. Perché la mia situazione, allo stesso modo, è intrinsecamente legata alla natura dell’economia che mi riguarda sia come donna single, e che vive da sola, sia come donna che non ha un lavoro regolare, regolarmente retribuito. E rivado ai tempi in cui si correva costantemente come un topo su un tapis roulant, per pagare la rata mensile di un mutuo per la casa. Non c’è mai stato un periodo di tregua. Durante la crisi economica le persone perdono la loro casa o finiscono per avere un rating di credito negativo. In tutto il mondo, questo ricorda la recessione economica globale del 2008.

Adesso la Reserve Bank of India sembra aver annunciato alcune misure, abbassando i tassi di interesse e riducendo così l’onere per la classe media nel rimborso dei mutui per la casa. Ma si sa che l’industria del debito non cancella mai i prestiti della gente comune, e questo significa anche un aumento della durata del mutuo per la casa. Inoltre significa che, ad un certo punto, quando le cose torneranno ad un nuovo tipo di “normalità”, i mutui per la casa diventeranno più cari e saranno di fatto aumentati di quel tanto necessario a salvare le banche, e non certo la classe media, la gente comune.

 

Il virus ha viaggiato in lungo e in largo sulle spalle di viaggiatori compulsivi: celebri oratori, uomini d’affari, artisti giramondo, vacanzieri di routine e altri (non invece sulle spalle degli strati economici inferiori della società, dato che il virus viaggiava essenzialmente sugli aerei), e ognuno aggiungeva le sue impronte di carbonio. Almeno qualcuna di queste persone oggi può fregiarsi di nuovi ‘distintivi’: essere positivo al Coronavirus o, almeno fino al blocco dei viaggi in aereo e di quelli in treno, di essere stato un potenziale portatore del virus.

Alcuni di loro, purtroppo, hanno dovuto affrontare il peso del pregiudizio, come anche l’intoccabilità. In quel momento i loro progetti di business, le loro idee, o semplicemente i viaggi di piacere (a meno che, naturalmente, alcuni di loro non abbiano viaggiato per partecipare a emergenze), non contavano tanto quanto l’essere portatori di un contagio di cui sono stati a volte accusati. Il pregiudizio sarebbe stata l’ultima cosa che si sarebbero aspettati di meritare all’arrivo in questo paese, mentre, al contrario, la gente ha cominciato a guardarli con sospetto e a dare la colpa di tutti i mali (come si fa regolarmente qui) alla persona che è tornata da fuori, o allo straniero: insomma, l’altro che “entrava” (altrimenti detto, ‘il turista’), e che fino ad oggi era di solito blandito e accolto a braccia aperte, a causa del denaro che lei o lui o il gruppo portava con sé; il virus, che viaggiava in lungo e in largo, senza alcuna distinzione di razza o cultura e senza alcun pregiudizio proprio, invece di riunire l’umanità contro le malattie, ha ribadito in alcuni paesi l’opposizione del “locale” versus lo “straniero”, l’ “altro”. Un virus ha fatto tutto! Ci vorrà un po’ di tempo, tuttavia, prima di ottenere un quadro completo, da fonti varie e affidabili, dell’esatta distribuzione sociale, demografica e geografica della popolazione colpita in tutto il mondo, e delle sue ragioni. L’ultima parola sul virus non è ancora stata detta.

Il vantaggio (che può anche essere uno svantaggio) di questo servizio della radio nazionale è ottenere l’accesso ai dati ufficiali sulla situazione quotidiana, e alle comunicazioni del governo sugli interventi medici e le strategie di contenimento. In assenza di canali televisivi di informazione, si tratta di un pacchetto di dati fondamentale per dare un senso alle cose, nel modo in cui si desidera; e tenendo presente che, dopo tutto, in fin dei conti, si tratta dello Stato, che ti fornisce le informazioni che ritiene necessario condividere. Per la maggior parte dell’India rurale, le notizie della radio sono l’unico modo per avere il polso della situazione del Paese, oltre che il mezzo cui affidarsi per le previsioni del tempo e, di solito per le comunità di pescatori, per gli allarmi di tempeste, cicloni e così via.

 (traduzione di Rosario G. Scalia, foto di R. Umamaheshwari)

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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