Manuel Maria Perrone: “To Ben Lerner”

To Ben Lerner

di Manuel Maria Perrone

Vorrei che tutte le poesie difficili fossero profonde.

Suonate il clacson se anche voi vorreste che tutte le poesie difficili fossero profonde.

Ben Lerner

 

Caro Ben,

Da dove iniziare?

Forse dovrei iniziare dal fatto che questa è una vera lettera anche se ha meno valore di una finta?

Forse dovrei iniziare dall’assurdità di scrivere a una delle promesse della letteratura americana senza neanche parlare inglese? (mi farò tradurre, forse dal fruttivendolo indiano, all’angolo).

Potrei iniziare scrivendoti in modo allegorico, citando un episodio in cui si mischiano in modo trovo perfetto realtà e finzione, episodio che forse conosci, tra Cortazar (che lo cita nel suo Sentimiento de lo fantastico) e John Howell: Cortazar scrive un racconto, anche molto bello, in cui un personaggio, l’immaginario John Howell, si scopre protagonista di uno spettacolo che era andato a vedere annoiato; anni dopo uno studente della Columbia, che si chiama anche lui John Howell e che è un fervido ammiratore di Cortazar, vola a Parigi, lo vuole contattare, poi desiste, scrive un racconto con Cortazar protagonista, in omaggio alla Parigi che ha scoperto, senza però sapere che anche l’autore l’ha già trasformato, tempo prima, in personaggio.

Forse anch’io, che sono rimasto sconvolto per la sincronicità tra i tuoi scritti ed episodi della mia biografia, dovrei solo vendicarmi creando un fittizio Ben Lerner, a cui far vivere cose mie che diventino sue, magari le più scabrose e imbarazzanti.

Forse l’inizio di questa lettera dovrebbe invece cercare radici biografiche, appunto, per dare il giusto Pathos alle mie parole. Mio padre è morto a 33 anni – Eh si aveva barba e capelli lunghi– 3 anni prima, quando gli hanno dato la sentenza di pochi mesi da vivere, ha avuto voglia di viaggiare con noi, ma avevamo pochi soldi. Ha scritto a molti autori che gli piacevano: Ivan Illich, Eduardo Galeano, Jean Paul Sartre. Alcuni hanno risposto. Non era sorpreso perché in cuor suo sapeva che gli autori, anche affermati, vivono e lavorano nella solitudine delle proprie parole. Abbiamo approfittato della risposta entusiasta di Illich per viaggiare in Messico tutta la famiglia e istallarci a Cuernavaca. Non ti sto chiedendo un posto sul tuo divano, non preoccuparti, ma anche adesso, che sono ormai più vecchio di mio padre, mi è rimasto il vizio di osare lettere improbabili. Ho scritto a David Lynch e Jean Luc Godard per proporgli un ruolo (non lo stesso, né per lo stesso film), mi sono presentato in un bar a far vedere un mio cortometraggio a Jean Claude Carrière, lo sceneggiatore tra gli altri di Bunuel.

E proprio Jean Claude Carrière, intrigato, mi ha risposto di fargli vedere il lavoro finito e fargli leggere le mie sceneggiature. Cosa che ho fatto, arrivando, purtroppo, con una mail il giorno dopo un’operazione a cuore aperto che gli aveva tolto la definitiva voglia di scrivere e pensare cinema. Più o meno come se fossi riuscito ad avere un appuntamento privato con Kennedy per i primi di dicembre del ’63. E ammetto che a lungo ho rigirato quella mail tra le mani pensando di mettere per iscritto quello che aveva solo detto a parole, soprattutto da quando è morto ed entra nella biblioteca degli antenati, con cui invece non ho nessun problema a dialogare.

Potrei iniziare questa lettera dicendoti giusto che l’estate scorsa, in piena pandemia, dopo una dura rottura di cuore, mia madre ha trovato un rimedio offrendomi Topeka school.

Potrei dirti che i libri sono il feticcio rituale della mia famiglia, a metà strada tra una cura e una malattia: sono cresciuto condividendo la stanza con mio fratello maggiore perché ce n’era un’altra in cui le pile di libri salivano fino al soffitto, mio fratello nelle sue prime emancipazioni onanistiche si è trasferito li in mezzo, sfidando la polvere, ricavandone un problema alle adenoidi che durano fino ad oggi; 4 anni fa ci siamo ritrovati all’aeroporto di Napoli, con mia mamma dalla svizzera, mio fratello dalla spagna e io dalla Francia , per riportare a casa mio padre sotto forma liofilizzata in un’urna, e il nostro primo gesto rituale è stato entrare insieme nella libreria dell’aeroporto (lo scambio bilanciato tra peso dell’urna all’andata e peso dei libri al ritorno mi è apparso più evidente quando ho visto poi mia madre richiudere la valigia, prima di ripartire ) .Potrei anche dirti che quest’estate mio fratello mi ha rubato il mio libro (cioè il tuo, non fraintendermi) e se l’è letto ridendomi in faccia, quando in diretta in quei giorni mi è venuta a trovare la donna che mi aveva fatto piangere a vent’anni e cambiare continente, Nathalie, e che non rivedevo da quindici anni.

Potrei dirti che ho capito molto di più sulla mia emicrania (che mi ha bloccato a lungo e mi ha fatto scampare l’esercito) con te più che con Oliver Sacks.

Potrei dirti che forse non c’è nulla di strano e a questo servono i grandi autori, che riassumono meglio di altri tutto quello che viviamo.

Forse giusto un po’ di affetto in più, perché il tuo Kansas (con i suoi provincialismi di bulli e intellighenzia al riposo) sta alla mia Svizzera, come Buenos Aires alla tua New York.

Potrei parlarti del polipo, filo rosso in diversi miei lavori, raccontarti anch’io una storia divertente che mi è appena successa sul lavarmi le mani, chiederti se anche tu pensi che Caroline – anche se l’ho chiamata Giselle in un racconto – ha finto un tumore per farmi affezionare, oppure sottolineare punto per punto le nostre similitudini e attaccarti in tribunale.

Ma le tue storie non sono né tue né mie, sono forse solo la testimonianza acuta di una generazione che è confusa perché il manuale di istruzioni che gli avevano consegnato gli è subito scivolato via di mano e lo inseguono come un Buster Keaton impassibile lungo cascate e incroci ferroviari.

O forse potrei scriverti come si scrive a un Panda o a un Koala, stupito che esistano ancora i poeti, anche li, in mezzo ai grattacieli… .

 

Con affetto

Manuel Maria Perrone

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