La città nera

di Shi Heng Wu

La città nera, la città spettrale scorreva tra le maglie della rete corazzata che proteggeva i vetri dell’auto n. 31 della Polizia Metropolitana di Roma.
Il sergente Antonio Draghi osservava distrattamente le torri di cristallo annerite da strati di fuliggine solidificata, i profili frastagliati dai viticci dell’edera gigante, la pianta infestante dalle foglie nere, spuntata chissà quando e perché, forse per effetto di una mutazione genetica. Per la verità aveva un lungo nome latino, ma tutti la chiamavano così perché le foglie ricordavano quelle dell’edera, benché grandi circa il doppio. Alcuni palazzi avevano i vetri rotti, altri erano tamponati con fogli di plastica o tavole di legno. Qualche rivolo di fumo fuoriusciva da feritoie senza luce, come buchi neri di denti mancanti in vecchie bocche ghignanti. Probabilmente qualche vagabondo che si era accampato in uno dei palazzi abbandonati. Nei palazzi abbandonati, visto che gli unici abitati erano nei Settori 1 e 2, i quartieri residenziali con le poche banche in attività, gli edifici governativi e gli alberghi e i ristoranti ancora aperti. Il resto era terra di nessuno, deserto di acciaio e cristallo e cemento armato ammuffito.
L’auto procedeva lentamente sull’asfalto sbrecciato, crivellato di buche, schivando ostacoli, cumuli di spazzatura, oggetti sparsi, carcasse di auto abbandonate in mezzo alla strada. Ogni tanto l’agente Ridolfi, l’autista, detto Rudolf, bestemmiando appoggiava il muso dell’auto a una carcassa e accelerava per spostarla. L’auto n. 31, come tutte le vetture di servizio, aveva paraurti rinforzati con lamiere in acciaio, gomme a ottantaquattro tele con reticolato di rame in grado di resistere a tutti i tipi di chiodi o vetri, portiere e rottami.
“Ehi guarda” disse Rudolf, rallentando. “Vado a vedere se c’è qualcosa di buono.”
L’auto si fermò e Rudolf scese stancamente, stirandosi. Erano in auto da quattro ore, di pattuglia. Rudolf piegò i possenti bicipiti coperti di tatuaggi, ruotò il collo taurino, fece un paio di flessioni sul cofano. Antonio lo fissava, ammirato per la sua prestanza fisica, malinconico per la sua forma andata al diavolo. D’altro canto la forma bisognava coltivarla con la ginnastica, il nuoto, mentre lui negli ultimi anni si era lasciato andare. Inutile lamentarsi. Se voleva recuperare l’antica potenza, l’agilità del lottatore che era stato, doveva darsi da fare.
Rudolf si incamminò verso il piccolo mercato. Antonio non ricordava la presenza di un mercato in quel quartiere. Era uno dei tanti assembramenti di bancarelle improvvisate che si spostavano per la città. I poveri contadini dell’esterno che entravano aggirando i posti di blocco per vendere i pochi prodotti che la terra morente riusciva ancora a offrire.
Lo osservò gesticolare, assestare una pacca sulla schiena a un uomo alto e magro, con un grande cappello che lo faceva sembrare un gigantesco fungo. Accanto alla bancarella due bambini seduti a terra giocavano con un oggetto di forma allungata, forse un ramo d’albero secco. Rudolf tornò camminando a grandi falcate. Reggeva due sacchetti, uno per mano, come trofei.
“Guarda un po’, uva! Ti rendi conto? Da quanto non ne mangiavi, eh?”
Antonio prese il sacchetto e l’aprì. Dentro c’erano due piccoli grappoli con gli acini scuri, duri, asprigni, eppure l’inconfondibile aroma gli riempì piacevolmente la gola.
“Mah, saranno tre, quattro, cinque anni, chissà” disse, sputando un seme dal finestrino abbassato. “Li hai pagati?”
“Eh?” fece Rudolf, infilando una mano nel sacchetto.
“Ho detto, li hai pagati?.”
“Ma sì, gli ho dato un po’ di soldi dai.”
“Quanto? Quanto li hai pagati?”
“Cosa? Ma che vuoi dire?”
“Dico, sei sordo? Quanto-li-hai-pagati?”
“Ma che ti prende? Gli ho dato cinque euro.”
“E quanti te ne aveva chiesti?”
Rudolf restò un attimo in silenzio con la mano nel sacchetto. “Dico, ma che hai, si può sapere? Voleva quindici euro, voleva. Ma ti pare, quindici euro a quel tipo.”
Antonio tirò fuori il portafogli e contò dieci euro. “Adesso torni là e gli dai il resto.”
Rudolf girò la testa di scatto e lo fissò duramente. I grossi orecchini che pendevano dai lobi oscillarono. Poi lo sguardo si addolcì, si abbassò. “Dai Antonio, sei impazzito? Gli è anche andata grassa, se c’erano i neri gli mollavano due sberle, oppure spaccavano tutto, dopo avergli sequestrato la merce. Lo sai che i mercati sono illegali.”
“Noi non siamo la Guardia Pretoriana, ricordalo. E poi in questa città tutto è illegale. E tutto è permesso.”
La Guardia Pretoriana, le guardie nere, il corpo speciale fondato dal Sindaco Fioravanti trent’anni prima come guardia personale, pensò Antonio, un esercito di razziatori che prendevano tutto gratis, merce, soldi, ingressi nei locali, e chi non voleva pagare si ritrovava con la testa rotta, o bucata da una pallottola nella nuca.
“Rudolf, fila a portargli i soldi e non discutere.”
Rudolf sbuffò. Appoggiò il sacchetto sul cruscotto, prese i soldi e scese stancamente dalla macchina. Antonio lo osservò camminare a gambe larghe fino alla bancarella, voltarsi indietro, porgere i soldi all’uomo, che li accettò con un profondo inchino. Tornò a testa bassa, come un toro arrabbiato.
“Andiamo ora. C’è un omicidio, e noi ci fermiamo a comprare l’uva.”
“Un omicidio!” esclamò Rudolf ridendo.
Già, un omicidio. C’erano omicidi ogni giorno, la maggior parte dei quali non venivano denunciati. La città era piena di gente senza nome, senza identità, a chi importava se qualcuno spariva?
“E accendi la sirena, siamo un’auto della polizia” disse Antonio con tono piatto.
“Uh” fece Rudolf, spingendo il pulsante. La sirena partì mentre l’auto imboccava il ponte sul Tevere. Il fiume, ormai secco, a parte un rigagnolo di acqua melmosa che scorreva sul fondo, era invaso da una fitta vegetazione, boscaglia, grovigli di edera, mucchi di rifiuti e di macerie.
Imboccarono una strada senza nome, perché nessuna strada a Roma aveva un nome, fiancheggiata da file di negozi abbandonati, con le vetrine sfondate, le serrande strappate. Un colpo secco, che fece vibrare l’auto, segnalava che qualcuno aveva lanciato una pietra, o un pezzo di metallo.
“Merda” sibilò Rudolf. “Se li becco gli sparo in bocca.”
Dovresti sparare in bocca a decine di persone, pensò Antonio. Ed erano fortunati che ancora non avevano lanciato un razzo. Ma quello era un periodo tranquillo. Recenti retate delle guardie nere, che avevano fatto sparire centinaia di persone, avevano svuotato gli arsenali delle armi clandestine, quelli dove si riforniva anche la Resistenza. Sempre che fossero combattenti quelli che lanciavano le cose o sparavano alle auto della polizia. Molto più probabilmente erano cani sciolti, sbandati.
“Laggiù!” esclamò Rudolf rallentando, e indicò il marciapiede sul lato opposto. Due tipi stavano pestando un uomo appoggiato al muro, che si copriva la testa con le mani. Usavano i pugni, i calci, uno aveva un bastone.
“Che facciamo?” disse Rudolf fermando l’auto. Già, che fare? Se avessero dovuto intervenire ad ogni rissa, rischiando di beccarsi una pallottola dum-dum di .22 che passava i giubbotti antiproiettile, la loro carriera avrebbe avuto breve durata. Eppure era proprio quella la loro attività principale di poliziotti di strada: sedare risse.
Antonio aprì la portiera, scese dall’auto col mitragliatore D-16, col lanciagranate, e sparò una raffica in aria. Intanto Rudolf azionava l’altoparlante e urlava: “Circolare! Circolare!” I due tipi, vestiti di vecchi giacconi impolverati, uno senza calzoni, con le gambe nude che finivano in un paio di scarponi neri, guardarono l’auto. Facce annerite, barbe ispide. Antonio puntò il mitragliatore. “Circolare!” urlò Rudolf. I due se la diedero a gambe. L’uomo appoggiato al muro si riprese, guardò a sua volta verso di loro e fuggì nella direzione opposta. Antonio risalì in auto e ripose il D-16 sul sedile posteriore.
L’auto ripartì, svoltò a destra e imboccò la rotonda di una piazza, quasi interamente occupata da rottami di auto e camion. C’era addirittura una grossa barca, una specie di yacht con la chiglia sfondata appoggiato in cima a una montagna di auto bruciate.
“È qui che c’era il Colosseo, no?” chiese Rudolf.
“Boh” disse Antonio. “Così dicono.”
Sì, quella era stata la piazza del Colosseo. Antonio aveva visto le vecchie foto del monumento della Roma antica, quando la piazza era grande il triplo, e le auto circolavano. E anche i pedoni, e c’erano negozi, uffici, i carretti coi cavalli per i turisti. E i vigili urbani col cappello bianco. Ora la piazza era di forma quadrata, circondata da palazzi che formavano gigantesche palizzate di acciaio e vetri, priva di traffico, come tutte le piazze e le strade della città, dove circolavano unicamente le auto della polizia, della Guardia Pretoriana, le limousine corazzate dei ministri e degli alti funzionari, qualche taxi. Un ragazzino stava seduto su un vecchio carretto trainato da due donne, una anziana, e un uomo. Sopra si vedevano dei sacchi di juta, pieni di chissà cosa. Qualche figura camminava furtiva, ombre che si tenevano ai margini dei palazzi, pronte a eclissarsi nelle strade laterali. Un uomo conduceva tre capre, piccole, scheletriche. Aveva un fucile da caccia a tracolla, per proteggere quel bene prezioso. Poco lontano un gruppo di persone bivaccava sul marciapiede, con un fuoco acceso. Ora il Colosseo, si diceva, era nel parco dell’immensa villa del Sindaco Fioravanti, sulla costa. Tutti i monumenti antichi del resto erano spariti, smontati e rimontati nelle ville dei gerarchi, o venduti all’estero. Per fare pulizia, si era detto. Per togliere di mezzo quei mucchi di pietre inutili e fare posto al progresso e allo sviluppo.
“Direi che siamo arrivati” disse Rudolf.

NdR: questo testo è il primo capitolo de “La citta nera”, di Shi Heng Wu, pubblicato recentemente da Fanucci (che ringraziamo)

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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