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Radio Days: Guido Zen aka Abul Mogard

IL NOMADE PROLETARIO

In conversazione con Guido Zen un tempo Abul Mogard

di Mirco Salvadori

Esistono terre protette di suono sconfinato. Sono apparentemente poco frequentate, chi lì si avventura lo fa perché abituato al viaggio, alla ricerca non solo musicale ma anche interiore. Sono custodite da onde di materia sonica e di rara potenza, guardiane pronte a quietarsi e permettere il passaggio solo a chi non ha la mente devastata dai  narcotici iniettati via mainstream, pesanti e insidiosi.
Un rappresentante del proletariato serbo, da molto tempo le frequenta. Tutti lo conoscevamo come Abul Mogard ma Abul Mogard non esiste, non è mai esistito.
Ciò che leggerete potrà sembrare un racconto di formazione anzi, decisamente lo è. Una bella storia immersa nel fluire di milioni di altre belle storie che nascono, si sviluppano, respirano e creano a loro volta altre narrazioni magari fondamentali a cui dare un nome.
È a questo nome e a chi lo porta che mi sento di dedicare questa conversazione: Clarice.

*

Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Savinio, Stendhal, Pessoa e potrei continuare. Molti sono gli scrittori che usavano e usano pseudonimi, quei nomi inventati assai diffusi nel campo della ricerca sonora elettronica, dove vengono definiti moniker. Il tuo caso però assume toni romanzeschi. Abul, ex operaio serbo, raggiunta finalmente la pensione, si  interessa al mondo dei synth analogici e da autodidatta impara a suonarli, tanto da iniziare a stampare preziose release che lasciano a bocca aperta. Ascoltare Abul Mogard è appagante anche socialmente e politicamente: un ex operaio che riesce a liberarsi dal giogo della fabbrica e entra come un ciclone in un mondo decisamente lontano, avulso dal vissuto di un settantenne pensionato serbo. Una sorta di rivincita della classe operaia a cui si dava credito ben sapendo che la cosa appariva realmente improbabile. Come è nata questa idea e quali i motivi che l’hanno resa una scelta reale e direi vincente.

Intanto grazie mille per le belle parole riguardo il progetto. Abul Mogard è iniziato nel 2010. Stavo passando un periodo difficile, mia madre stava molto male, la mia relazione con la mia ex-compagna non stava andando bene e anche nella musica, la mia collaborazione con il mio vecchio partner musicale nei Gamers In Exile, il mio progetto principale all’epoca, era difficile. Ho sentito il bisogno di provare a fare delle cose nuove in studio, da solo e in poco tempo, intuitivamente. Questo non era facile, dato che da parecchi anni lavoravo solo in progetti collaborativi. Erano quasi 15 anni che non completavo più brani da solo e avevo perso un po’ la fiducia in me stesso.

Lavorare su questi brani, abbastanza rumorosi, pieni di armoniche e a volumi alti in studio era terapeutico per la mia situazione personale e mi dava conforto. Decisi che, avendo bisogno di ricominciare vari aspetti della mia vita, sarebbe stato bello usare un alias, un altro nome e un’altra faccia; qualcosa che sentivo che mi avrebbe dato anche molta libertà nella direzione musicale. Volevo avere un riscontro sincero sul nuovo progetto e non influenzato dalla mia precedente storia musicale.

Pensai che sarebbe stato bello immaginare che questa musica fosse stata prodotta da un uomo di una certa età, quindi creai questo personaggio. A suo tempo gli diedi solo un nome e una provenienza, Belgrado. Non ricordo il perché ma essendo un posto dove non ero mai stato forse mi affascinava. Creai un profilo Facebook e Soundcloud e iniziai a caricare i brani giorno per giorno, subito dopo averli registrati. Ricevetti subito molti commenti positivi e questa reazione, del tutto inaspettata, mi diede la forza per continuare.

Una volta andai a trovare mia madre in ospedale e le raccontai entusiasta di questo personaggio che avevo inventato e ricordo che lei scherzò dicendo che ero matto. Purtroppo, non molto tempo dopo, lei venne a mancare. Alcuni mesi dopo iniziai a frequentarmi con Marja de Sanctis, che è tuttora la mia compagna. Lei, che in realtà è un artista visiva, ha poi creato tutte le copertine degli album, i visuals per i concerti e i videoclips.

Nel 2012, quando stava per uscire il primo album su cassetta pensai che una biografia lo avrebbe reso più interessante. La storia della fabbrica fu creata da Marja. Le era rimasto impresso un passaggio di un libro sul movimento artistico del Simbolismo, di Michael Gibson, che parlava degli effetti della Rivoluzione Industriale sulle singole vite umane dell’epoca. Cito qui sotto il passaggio per intero: “Soltanto nel mezzo secolo tra 1850 e il 1900 sessanta milioni di persone lasciarono l’Europa. Quelle che, ancora più numerose, sciamarono verso le città e i loro sobborghi, si ritrovarono sradicate dall’ambiente quotidiano che fino ad allora ne aveva definito l’identità e il ruolo all’interno della comunità, assegnando valore e senso alla loro esistenza”. Lei, avendo dovuto lasciare il suo paese di origine in adolescenza, trovava che quei fatti risuonavano con la sua storia personale.

L’operaio in pensione che ricrea il suo habitat facendosi aiutare della musica rappresenterebbe chi cerca la propria identità perduta.  Le sonorità che usa, gli ricordano vagamente la fabbrica e lo aiutano ricreare quella memoria e senso di appartenenza. Trovai questa storia molto poetica e la mandai a Steve Moore e Anthony Paterra di VCO Recordings. Ne furono entusiasti e addirittura la arricchirono dicendo nel comunicato che Abul Mogard aveva scritto loro raccontando la sua storia insieme all’invio del demo.

Di pari effetto ma contrario, la decisione di togliere la maschera, meglio sarebbe dire la tuta, e presentarsi dopo una decina e oltre di produzioni discografiche, con il proprio nome. Come mai questa scelta, che ci priva dell’eroico gesto proletario ma ci rende il reale Guido Zen, musicista e sound artist finalmente riconoscibile.

Il motivo principale è che la mia vita e stato d’animo è adesso molto diversa rispetto a quando ho creato il progetto. Rimanere nascosto dietro la figura di Abul iniziava ad avere meno senso. È stato un processo graduale, iniziato tre anni fa, con i primi concerti dove ho suonato senza nascondermi dietro muri di video e fumo, per poi arrivare a dire il mio vero nome recentemente. Per molto tempo pensavo ad Abul mentre lavoravo sulla musica, cercando di capire se quello che stavo producendo lo stesse rispecchiando. La sua figura mi accompagnava sempre nel mio lavoro. Mentre all’inizio la sua persona mi aveva dato una grande spinta verso strade nuove, adesso mi sentivo limitato da essa. A livello di esplorazione e sperimentazione musicale iniziavo a sentirmi condizionato a dover riproporre sonorità che avevano caratterizzato il suono del personaggio di Abul Mogard.

Credo che alcuni eventi personali come la nascita di mia figlia, il rientro in Italia dopo anni in Inghilterra e aver ricevuto in dono un pianoforte di fine ‘800 abbiano influenzato e dato forza a questo processo. Avevo sempre desiderato un pianoforte acustico ma inizialmente ero in conflitto con l’idea di usarlo avendo un colore cosi lontano dall’idea del suono originale di Abul. Ho realizzato che tutto ciò era pur sempre una mia creazione e io Guido avevo tutto il diritto di esplorare nuovi territori. Abul era parte di me e non io una parte di lui a cui dover quasi rendere conto. Lavorando sull’album “In Immobile Air” è stato come se lui mi avesse passato il testimone per poter andare avanti da solo.

Personalmente, fin dal tuo primo lavoro risalente a dieci anni or sono, ti considero tra i maggiori artefici e costruttori di innovativa miscela ambient presenti nel panorama internazionale. Come mai questa scelta, cosa ti lega alle imponenti cattedrali soniche dentro le quali ti chiudi mentre trasmetti il tuo maestoso messaggio modulare.

Non è stata vera e propria scelta. Ho semplicemente ho iniziato a lavorare nel modo più istintivo e naturale possibile e la musica che ne è uscita è quella di Abul Mogard. Ho sempre amato la musica ambient e credo di aver usato elementi ambient in tutti gli altri progetti musicali su cui ho lavorato. Essendo un progetto solista, sono andato nella direzione che ho trovato più spontanea. In generale, credo che questo tipo di sonorità mi rilassi molto e riesco a lavorarci a lungo.

Affrontiamo l’aspetto tecnico della tua produzione e lo facciamo con tre vocaboli: elettronica analogico modulare. Cosa nasconde il suo affascinante mondo e perché la scelta di frequentarlo?

Per la mia musica uso un insieme di strumenti, alcuni dei quali analogici, altri digitali, come il computer per esempio. Mi piace la parte analogica modulare per la qualità del suono, che trovo più organico del digitale e più piacevole all’ascolto, e per l’immediatezza con cui si riescono ad ottenere suoni semplici ed essenziali. Quando si collega un’uscita audio di un oscillatore direttamente al mixer, si ottiene un tipo di suono puro che difficilmente riesco a trovare in uno strumento più completo come per esempio un classico sintetizzatore, che ha già una configurazione predefinita e più complessa. Mi piace molto lavorare con suoni primari e senza fronzoli. Amo i piccoli dettagli del suono e le variazioni minime nei timbri con le quali lavoro molto. Mi piace anche usare il computer, soprattutto per manipolare i suoni e spesso per “comandare” le macchine analogiche con precisione.

Aggiungo che una parte della biografia di Abul Mogard rispecchia la realtà. Ho costruito molti degli strumenti che uso. Non sono un progettista, ma al giorno d’oggi si trovano facilmente molti progetti di macchine particolari, per esempio cloni di vecchi strumenti ormai molto costosi.  Per necessità, essendo molto più economico farseli da soli, anni fa iniziai a costruire le prime cose, compressori, filtri, preamplificatori per poi arrivare al sintetizzatore modulare. Questo sicuramente ha influenzato il mio suono. In particolare l’album “Circular Forms” è fatto in gran parte con un unico sintetizzatore che costruii nel 2013.

Un altro strumento che è stato importante è l’organo, che mi ha accompagnato fin da quando ero adolescente. Per un breve periodo andavo a lezioni di musica da un maestro che aveva un vecchio organo Farfisa sul quale iniziavo a strimpellare. Anni dopo, quando vivevo a Londra, degli amici mi regalarono un vecchio Farfisa comprato a un charity shop, che ho usato poi in molti brani.

Il suono sostenuto dell’organo mi porta molto verso quel tipo di sonorità ipnotiche, a volte meditative, fatte di note lunghe e cambi lenti. In molti casi ho usato anche il sintetizzatore modulare per ricreare mondi sonori simili all’organo.

In realtà il tuo non è solo un percorso dentro la materia ambient, è anche un viaggio attraverso la percezione sensoriale. Ricordo tracce come Drooping OFF, tratta dalla cassetta che prende il tuo nome del 2012. È una cavalcata lisergica che itera per dieci minuti lo stesso tema e realmente riesce a spedirti lontano dal reale grazie alla sua indubbia componente psichedelica. Cosa intendi trasmettere a chi ascolta la tua produzione artistica carica di gran visionarietà e furente poetica?

Sono felice che tu abbia menzionato questo brano, al quale sono molto affezionato.È stato uno dei primi brani in cui ho cercato di concentrarmi su un piccolo frammento musicale preso da una composizione più lunga. Mi piaceva l’idea di espandere questo frammento solo dando luce lentamente ai dettagli già presenti in esso, senza aggiungere altro. In realtà non cerco di tramettere un messaggio preciso all’ascoltatore. Per me fare musica è una mia necessità. Non sono mai stato molto bravo ad esprimere i miei sentimenti a parole e credo che la musica mi aiuti ad essere in contatto con le mie emozioni. Ho riletto recentemente le note di copertina di un album del compianto Klaus Schulze, dove raccontava che la sua musica, pur essendo legata alla sua creatività, lasciava spazio all’interpretazione dell’ascoltatore che gli avrebbe dato un significato. Klaus Schulze è stato di sicuro una forte fonte di ispirazione e trovo il mio intento in parte sia simile al suo.Spero che la mia musica risuoni nell’ascoltatore e che possa trasmettere a ognuno qualcosa di diverso a seconda del proprio stato d’animo.

Il versante live. Ti si vede spessissimo all’estero, ai tempi dietro un paravento che nascondeva la tua reale appartenenza al nostro mondo. Come prepari un live e cosa inserisci per renderlo ancor più dirompente.

Prendo diverso tempo per preparare uno spettacolo. In genere cerco di avere a disposizione più elementi possibile per costruire e decostruire i brani durante il concerto.  Alcuni elementi sono parti originali che vengono manipolate dal vivo e che ritengo essenziali per la composizione, altri sono temi o suoni generati da sintetizzatori ed effetti in tempo reale. Mi piace poter avere un concerto dinamico e seconda del posto e dell’atmosfera, mi faccio guidare dall’energia in sala per modulare questi elementi.

In molti concerti poi ci sono i visuals di Marja de Sanctis, che secondo me arrichiscono e aggiungono un’ulteriore stratificazione all’esperienza.

Uno spettacolo molto diverso sarà quello per il festival Organ Reframed, che si svolgerà alla Union Chapel a Londra, a settembre. Per questo mi è stata commissionata una composizione originale per organo a canne, electronics e un piccolo ensemble. In questo caso suonerò l’organo accompagnato da alcuni elementi della London Contemporary Orchestra. Doveva accadere a Marzo 2020, ma a causa della pandemia è stato rimandato più volte. A questo punto, non vedo l’ora.

Hai iniziato pubblicando con una label americana che stampa solo materiale su nastro: la VCO, sei passato all’inglese Ecstatic con qualche altro passaggio ma sempre inglese, l’ultimo tuo lavoro è autoprodotto. Cosa ne pensa Guido Zen della ricerca elettronica in Italia e delle sue label, se confrontate con quanto avviene all’estero e, la tua è una scelta voluta o una casualità?

Ho passato diversi anni della mia vita a Londra e probabilmente ho più contatti lì che qui in Italia. Credo che sia stato naturale trovarmi a lavorare con etichette che hanno legami con l’Inghilterra. C’è anche da dire che per mia esperienza personale, mi sembra che siano più propensi a dare spazio ed opportunità a nuove voci. Ci sono molti artisti italiani elettronici che stimo, alcuni dei quali conosco personalmente. Mi vengono in mente Alessandro Cortini, Caterina Barbieri, Giulio Aldinucci, Carlo Maria, Grand River, Saffronkeira, ma ce ne sono molti altri. Ti dico la verità, non sono molto ferrato sulle etichette italiane. Per quanto riguarda il mio ultimo album, sentivo la necessità di fare uscire questa musica ora. L’immediatezza di una release digitale mi ha consentito di non dover passare per il calendario di un’etichetta e i tempi molto lunghi per produrre un disco su vinile al momento.

Hai contatti con musicisti e sound artist italiani? So di uno split con Maurizio Bianchi risalente al 2017 ma vere e proprie collaborazioni non mi sembra esistano.

Sono in contatto con diversi musicisti italiani e ci sono state alcune collaborazioni come il remix fatto per Becoming Animals, di Massimo Pupillo e Cyndytalk. Ci sono gli album di Potter Natalizia Zen, usciti con il mio vero nome e in collaborazione con Alessio Natalizia e Colin Potter dei Nurse with Wound. Tengo particolarmente al lavoro fatto insieme a Kyle Martin per il nostro duo Vactrol Park. Una musica più ritmica in questo caso, a volte quasi tribale e molto elettronica, prodotta spesso in lunghe sessioni notturne. Al momento sto lavorando su altre collaborazioni anche con musicisti italiani.

Mi ha molto incuriosito la tua figura di compositore di colonne sonore. Parlacene.

Di tanto in tanto mi sono state proposte delle colonne sonore. È un lavoro molto stimolante, che trovo allo stesso tempo piuttosto impegnativo e a volte difficile. Trovare la musica giusta per un film richiede tempo e ricerca ed è molto importante la collaborazione con l’autore dell’opera. Più le indicazioni sull’intento del film sono precise e più è semplice avventurarsi nel trovare i suoni e le note giuste. Come Abul Mogard, ho composto la musica di due film dell’artista Duncan Whitley, l’ultimo dei quali intitolato “Phoenix City 2021” è stato commissionato dalla biennale di Coventry, in Inghilterra nel 2021.

La colonna  sonora è partita dall’idea di usare alcuni brani del Requiem di Mozart che abbiamo riadattato usando elettronica, una band di fiati, un coro e un violoncello. Partendo da li e usando alcune delle registrazioni fatte per il Requiem ho composto il resto della colonna sonora. Mi piace molto il fatto che tutta la musica di questo film si riconduce ai temi originali di Mozart, anche se totalmente frammentata e decostruita. In genere la musica per Duncan, viene fuori dopo lunghe conversazioni ed alcune immagini di riferimento, molto prima delle sequenze definitive.

Recentemente ho scritto la musica per un lungometraggio di un mio vecchio amico, Alessio Pizzicannella intitolato “Dawn Chorus”, che è appena uscito. Per questo film ho scelto di usare il mio vero nome, dato che dalle indicazioni di Alessio, la musica richiedeva una direzione sonora estremamente diversa da quella di Abul Mogard. In verità ci sono alcuni pezzi più atmosferici che non sono poi così lontani.

La prima colonna sonora fu una scrittura a quattro mani per il film Biutiful Cauntri, un documentario sulle ecomafie di cui si parlò parecchio nel 2007. Riascoltando questa colonna mi rendo conto che i primi semi del suono originale di Abul Mogard risalgono proprio a questo lavoro. Alcuni dei brani di Abul Mogard sono stati anche utilizzati per film, trailers e pubblicità. Fa piacere che la mia musica, composta precedentemente, venga usata per delle immagini alle quali non avevo pensato. A volte questo connubio funziona veramente bene e l’aspetto economico delle licenze può aiutare.

Esiste un testo poetico, letterario o un autore che più si avvicina o rappresenta la dilatata e poderosa materia sonora prodotta da Guido Zen?

Un autore che sicuramente mi viene in mente e che più volte ho usato come fonte di ispirazione, soprattutto per i titoli di alcuni brani, è Calvino. Mi sono piaciuti molto “Le Città Invisibili” e “Collezioni di Sabbia”. Le sue descrizioni dei luoghi e delle situazioni, immaginarie o meno che siano, mi rimangono spesso impresse nella mente e a volte trovo connessioni con l’atmosfera dei miei brani. Con sorpresa, abbiamo notato solo dopo aver scelto il nome di nostra figlia che una delle città invisibili aveva il suo nome, Clarice. È una connessione casuale a che abbiamo trovato divertente, visto che non ci sembrava un nome molto usato in Italia. Lei è la bambina che appare nella copertina del mio ultimo lavoro “In A Few Places Along The River”.

 

 

 

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2 Commenti

  1. Nei momenti critici della vita, l’arte e la creatività si confermano un’opportunità di ripartenza con un’immensa forza terapeutico che ci porta alla conoscenza di aspetti del nostro essere che neppure immaginavamo minimamente.

  2. Concordo in pieno, Fernando Bassoli.
    La creativitá artistica è serbatoio che ma andrebbe prosciugato.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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