Una ragazza interessata

di Andrea Guano

 

Speriamo che stasera la Roberta ci sia, al corso. Questo e solo questo pensai mentre spingevo la porta scalcinata del club alpino italiano, dove, due volte la settimana, un vecchio ma ancora gagliardo maestro ci impartiva lezioni sulla tecnica dello sci di fondo. Non che me ne fregasse granché dello sci di fondo, ma il mio amico Giulio, vedendomi giù di corda più del solito, me lo aveva raccomandato caldamente, dicendomi che mi avrebbe aiutato a trovare un po’ di energia. Credimi, Thomas, ti gioverà, durante il giorno ti muovi troppo poco. Avevo cercato di replicare dicendo che quasi ogni giorno facevo una passeggiata, che in casa avevo due pesi di 3 chili ciascuno e che li usavo di solito un paio di volte la settimana per circa dieci minuti. Ma Giulio disse convintamente no, Thomas, non basta il movimento che fai. Dammi retta, vieni al corso di sci di fondo, ogni inverno facciamo almeno sei uscite sulle migliori piste che abbiamo, a volte ne facciamo anche otto, di gite, stiamo fuori tutto il giorno, lì vedrai cosa significa muoversi, ti ossigenerai, la sera sarai stanco e dormirai come si deve, senza dover prendere le tue maledette pastiglie, capirai cos’è il vero sonno. Dammi retta una volta tanto, Cristo! Era stato convincente, Giulio. E se anche non riuscivo mai ad arrivare a fine mese, avevo deciso di investire trenta euro al mese e mi ero iscritto al club alpino italiano, anche se mi ero detto: questo investimento sono soldi buttati, Thomas, non caverai un ragno dal buco, anzi ti deprimerai di più, con gli altri non hai mai legato molto, finirà che non parlerai con nessuno e, durante le lezioni, ti isolerai in fondo alla sala e ti distrarrai come al solito, pensando alle partite della prossima schedina, o a tre buoni numeri da giocare al lotto. Ma soprattutto al tuo Genoa, penserai, agli allenatori che, in questi anni, si sono avvicendati inesorabilmente sulla panchina, ai giocatori che si dimostreranno come al solito dei brocchi, deludendo le tue aspettative di inizio stagione, in fase di calciomercato. Invece, alla fin fine mi ero iscritto e ricordo che le prime lezioni erano state agghiaccianti. Non ero per nulla a mio agio, come non ero mai stato a mio agio in nessun posto. Tu non sei fatto per stare in mezzo alla gente, Thomas, non facevo altro che dirmi, maledicendo il fatto di essermi lasciato convincere dal mio amico Giulio. Sei troppo influenzabile, pensai, mentre ero inchiodato sulla sedia, nell’ultima fila. Le prime due o tre volte non riuscivo neppure a guardare in faccia gli iscritti che, come scopersi in seguito, erano ventisei. Ventisei lavoratori, appassionati della montagna, che provavano una grande soddisfazione nel partecipare a quel corso per migliorare la propria conoscenza dello sci di fondo e migliorare il proprio stile. Io invece non desideravo migliorarmi in niente, né tantomeno nello sci di fondo. Eppure ero lì, incomprensibilmente ero in quella sala fatiscente, piena di sedie spaiate, con una scrivania altrettanto fatiscente dietro alla quale due volte la settimana, il martedì e il giovedì, sedeva il maestro di sci, il signor Mauro Callegaris, che ci istruiva riguardo alla tecnica dello sci di fondo, e altre baggianate di cui non mi importava un accidente di niente. Le prime due lezioni ricordo che ebbi più volte – direi costantemente – la voglia irrefrenabile di andarmene. Adesso mi alzo e me ne vado e non mi farò più vedere, così pensavo e sentivo che le gambe erano pronte a scattare in modo che mi alzassi in piedi e uscissi. Ma poi qualcosa avvenne in me, e presi la decisione folle di restare, anche perché notai Gisella. Avrei dovuto notarla prima, fin dal primo giorno, ma la notai alla terza lezione. Mi colpirono gli occhi, di un azzurro intenso, e le gambe, la riservatezza che dimostrava e il modo con cui si aggiustava i capelli dietro le orecchie. Quel momento fu come una folgorazione: era davvero una ragazza carina, Gisella, non come le ragazze che abitavano nel mio scalcinato palazzo, non come Mariella o Gina, che incontro per le scale quasi ogni giorno e che faccio fatica a guardare negli occhi tanto sono brutte. Mio malgrado, senza che me ne accorgessi, sentii il mio cuore – di solito in uno stato di stasi – aumentare i battiti e provai persino una lieve eccitazione. Fu in quel momento, ripeto, che decisi di restare e frequentare il corso. E stasera, siamo ormai all’ottava lezione, percorro il breve corridoio e raggiungo la sala fatiscente in cui si tengono le lezioni, entro e provo un forte moto di disappunto a non vedere Gisella. Di solito, lei è una delle prime ad arrivare e a sedersi nella prima o seconda fila, mentre io dall’ultima fila, mi sono spostato un paio di file avanti, per guardarla meglio. Saluto i presenti – non più di otto, i coniugi Gennaro, entrambi giovani e sempre ridenti, Paolo, un bancario isolato, tranquillo, e poi Arturo, la Roberta, un’infermiera del San Martino che non so perché mi dà l’impressione di essere qui più per cercare marito che per migliorare il suo sci di fondo. Vado a sedermi nella terza fila – è la prima volta che lo faccio – e aspetto e, sebbene la cosa mi disturbi, non posso fare a meno di pensare insistentemente a Gisella. Un pensiero ossessivo, direi paragonabile a quello che mi pervade per il mio Genoa, che è la mia vera ragione di vita. Dal famoso giorno in cui la notai confesso che ogni volta che la vedevo tutti i martedì e i giovedì ero sempre piuttosto turbato e sebbene desiderassi salutarla e anche parlarle le rivolgevo delle fuggevoli occhiate e, se per caso lei si girava e i nostri sguardi si incrociavano, cercavo di imbastire un sorriso e subito mi ficcavo le mani in tasca e stornavo lo sguardo, fissandolo perlopiù sulla foto di un maestro di sci, che ormai non frequentava più il circolo, mentre percorreva un tratto di pista con bello stile. È inutile negarlo con te stesso, Thomas, mi dicevo ogni volta che vedevo Gisella, lei è una ragazza che ti piace, e anche parecchio, ma penso che contrariamente a te, stia economicamente piuttosto bene, è sempre elegante, con dei vestitini che le stanno a meraviglia, che denotano gusto e stile. Forse, per la prima volta nella tua vita vorresti conoscerla, e magari uscire con lei, ma credo che voi due siete incompatibili, per via della situazione miserrima in cui ti trovi. Cerca di non pensarci a Gisella, Thomas, così mi dicevo durante le lezioni e anche quando uscivo e ero a casa, ma spesso mi accorgevo che, anche a casa, o per strada, la sua immagine si sovrapponeva, nei miei pensieri, a quella del Genoa, squadra per la quale tifo fin da quando avevo i calzoni corti, il suo corpo e il suo sguardo prendevano il posto del volto e delle gambe di Badely, o di Destro, e questo mi disturbava, ma anche mi faceva piacere, mai ho pensato insistentemente a qualcosa o a qualcuno per più di uno o due minuti, se si eccettua appunto le questioni, sempre preoccupanti, che riguardano il mio Genoa, squadra da me amata in modo profondo. Più volte, mentre ero sull’autobus o sul lavoro, o anche mentre cenavo, pensavo all’evoluzione o involuzione che riguarda il mio Genoa, ma da quando avevo iniziato il corso, se si eccettuano le prime due lezioni durante le quali il mio cervello era terribilmente confuso, al Genoa, alla società, e a Ballardini che ci stava salvando, si intrufolava nei miei pensieri la deliziosa figura di Gisella. Di solito, i miei pensieri, le mie ansie le tengo per me, non ne parlo con nessuno, è del tutto inutile, ho sempre pensato, parlare con qualcuno dei propri problemi, se accenni a un tuo problema la gente non sta ad ascoltarti ma fugge a gambe levate, neppure mia zia Lina, che si butterebbe nel fuoco per me mi capirebbe, né mi capirebbe Giuseppe col quale parlo solo e soltanto delle problematiche del Genoa, né con Giulio, che pure, di mestiere, deve risolvere problemi dalla mattina alla sera, facendo l’ingegnere. Ma dopo la sesta o settima volta che la vedevo, Gisella, dopo che le avevo anche rivolto brevemente la parola e di nuovo, insistentemente, avevo sentito il mio cuore uscire dalla sua abulia e cominciare a battere direi insensatamente, avevo deciso di parlarne con il mio amico Giulio, non appena usciti dal club alpino. Gli spiegai tutto per filo e per segno, per quanto possano essere lucidi i miei pensieri, che in genere sono quanto mai nebulosi e confusi. Ma bravo il nostro Thomas, disse il mio amico, mettendomi una mano sulla spalla e stringendomela. Gisella la conosco, è una brava ragazza, si è sposata ma si è subito separata. Con ragione, direi. Sì, Gisella potrebbe essere la ragazza che fa per te. Frequentala e parlale, chissà che la cosa non vada in porto. Tanto ottimismo da parte del mio amico mi parve eccessivo, e glielo dissi anche, a chiare lettere. Ma no, ma no, disse lui, piuttosto sei tu che sei troppo pessimista, Thomas. Sarebbe l’ora che ti dessi una svegliata e ti facessi una ragazza, mica puoi sempre star solo come un cane. Un cane, già. Senza volerlo, Giulio aveva colto nel segno. Così mi sento spesso io: un cane malconcio, spelacchiato, con le ossa rotte e la testa bassa, che vagabonda per le strade senza scopo e senza meta. Può un cane avere una ragazza? Certo che sì: come padroncina. Ma io odiavo i padroni, e non mi sentivo cane fino in fondo. Ma Giulio aveva un tono incoraggiante, persuasivo. E io pensai che le cose, una volta tanto, potessero andare diversamente. Credi? Riuscii soltanto a dire, Ma certo, Thomas, sforzati, esci dal tuo guscio, tenta. Vedrai che ti andrà bene. Quella sera tornai a casa non dico di buonumore, ma con il morale leggermente più sollevato. Ciononostante, ogni volta che entravo nella sede fatiscente del club alpino italiano non riuscivo ad avvicinarmi a Gisella. Mi sentivo strattonato da due forze opposte. A volte mi alzavo dalla mia sedia sgangherata e muovevo un passo verso Gisella, e subito mi alzavo o andavo nella direzione opposta. Ogni sera uscivo dalla sede del CAI con la fronte e le mani sudate per la tensione accumulata durante la serata. Ero contratto, nervoso come e, quel che è peggio, più di quando steccava il mio Genoa. Tornando a casa mi ripetevo il solito mantra: toglietela dalla testa finché sei in tempo, Thomas, scardinala dai tuoi neuroni, cancellala dalla tua memoria, fai una brace dei ricordi di lei finché sei in tempo e non ti faccia più male di quanto te ne abbia già fatto. Ma il giorno dopo, oltre la domenica, che era il giorno più bello, quello che aspettavo con maggior ansia, perché giocava la squadra del mio cuore, aspettavo con ansia il martedì, senza poi riuscire a cavare un ragno da un buco. Poi arrivò la prima gita sulla neve, gita alla quale non volevo assolutamente partecipare. È del tutto inutile che vada, mi dissi, se anche vado non riuscirò a scambiare una sillaba con Gisella. Lei è un’ottima sciatrice di fondo, mi dissi, mentre io sono un pessimo, per non dire orrido, sciatore di fondo. Perché diavolo devo andare, non facevo che dirmi ossessivamente, ma l’insistenza del mio amico Giulio e il desiderio di poter conoscere meglio Gisella, o addirittura sedermi accanto a lei, mi indussero a tentare l’avventura. È giusto che una volta tanto io dia retta al mio amico Giulio, mi dissi, non ho voglia ma andrò, pur non essendo lo sci congeniale alle mie capacità. Trovai un paio di pantaloni elastici e una giacca a vento che misi su un maglione pesante e mi recai all’appuntamento, che era fissato alle cinque del mattino in piazza della Vittoria.  Non mi piacciono le gite, tantomeno quelle in montagna, ma quella mattina ero lì, a ficcare nel bagagliaio centrale gli sci che mi aveva gentilmente prestato Giulio: salii sul pullman ma non ebbi il coraggio di sedermi accanto a Gisella, anche perché il posto era occupato da un tipo tozzo, con la barba, all’incirca della mia età. Mi sedetti accanto a Giulio, non smettendola un istante di adocchiare Gisella. La vidi ridere e scherzare col tipo tozzo e barbuto, e questo mi procurò un sentimento di gelosia del tutto ingiustificata. Avrei dovuto non venire, mi dissi, è stato uno sbaglio imperdonabile farmi convincere da Giulio. Noi due siamo diversi, abbiamo diverse mentalità, la mia non è certo migliore, anzi, ma il nostro modo di vedere la vita è diverso, inconciliabile, lui si è sposato e io no, lui ha un vero lavoro, pagato profumatamente, e io non ho né un lavoro né il becco di un quattrino, e quei pochi che attraversano le mie tasche subito me li gioco, lui è un eccellente sciatore come Gisella, io non ho mai sciato. Peccato che oggi non giocasse il Genoa, altrimenti non avrei avuto alcuna esitazione. Solo la prospettiva di una giornata estremamente vuota mi spinse ad accettare questa gita, che sarebbe stata densa di conseguenze, in quanto Gisella avrebbe finito per entrarmi nella testa ancora più di quanto ci fosse già entrata. Lungo l’intero tragitto non feci altro che ripetermi queste parole, aggiungendo ad esse insulti, improperi rivolti a me, alla mia dabbenaggine, e a Giulio o a Gisella, che cominciavo a odiare. Quando arrivammo a Entracque, così pensai mentre guardavo l’entrata della sala nella quale si tenevano le lezioni, vedendo entrare altri membri del club ma non lei. Dove diavolo sarà Gisella, mi chiedevo guardando solo e soltanto l’entrata, provando un dolore fisico. A Entracque l’esperienza è stata un autentico disastro, così pensai. Gisella sparì subito e la persi di vista, ed io rimasi col mio amico Giulio, ma non nel senso che Giulio rimase accanto a me, no, sbaglio, non dico la verità, per circa un quarto d’ora Giulio rimase accanto a me, mi aiutò a infilare gli sci, mi dette alcune raccomandazioni per eseguire correttamente lo skating, poi mi lasciò e lo vidi sciare come un dannato, mentre io rimasi da solo, su una pista del tutto sconosciuta, a cercare maldestramente di eseguire un passo alternato, cosa che non riuscii a fare, anche perché non riuscivo a concentrarmi sugli sci: pensavo sempre a Gisella e al tipo tozzo con la barba con il quale l’avevo vista sparire. Facevo un passo, due passi, muovevo forsennatamente le braccia che non ho mai avuto molto forti, anzi, a pensarci sono sempre stato parecchio debole, specie dopo che avevo lasciato il mio sport prediletto, ossia il nuoto. Spingevo e spingevo, col solo risultato di rendermi ridicolo. Sarebbe meglio, molto meglio che te ne fossi rimasto a casa, Thomas, mi dissi, così ricordo pensai, oggi non ci sono le partite, d’accordo, ma un altro modo per passare la giornata l’avresti trovato, magari saresti andato a farti due passi alla Foce, benché la Foce, la domenica, sia piena di gente, affollata fino all’inverosimile, e io non amo la folla, ma meglio la folla che questa gita a Entracque, meglio la folla, il brusio, meglio mille persone che camminano con l’aria beatamente idiota che questo posto, questa neve che odio, ricordo pensai mentre tenevo gli occhi fissi alla porta d’entrata. Tutt’a un tratto ebbi un sussulto: eccola, Gisella. Finalmente. Mi agitai sulla sedia, ma ebbi un momento di pura felicità. Il signor Calligaris aspettava giusto Gisella prima di cominciare la lezione. Lei si sedette in prima fila. Mi sembrò più carina del solito. Ci siamo? Chiese il maestro Calligaris. Molti risposero di sì. E lui cominciò la lezione che, sebbene mi sforzassi, non riuscivo a seguire. Pensavo di nuova a quella gita a Entracque, solo venti giorni fa, all’amarezza che avevo addosso quando, verso sera, salimmo sul pullman per tornarcene a casa. Non sopportavo l’allegria di Gisella, il suo continuo ridere nonostante la fatica. Non mi lanciò nemmeno una fuggevole occhiata. Si sedette e continuò a parlare col tipo tozzo, barbuto, il quale aveva stampata in faccia un’aria assolutamente estasiata. Mi lasciai cadere sul mio posto, e non badai nemmeno alle parole di Giulio che mi chiedeva come era andata. Avevo il cervello come una lavagna bianca, e divenne nera quando seppi che il Genoa aveva perduto malamente con la Lazio, cosa che mi depresse oltre ogni limite. Cosa speravi, Thomas, mi dissi, sii sincero con te stesso, ti aspettavi forse una giornata diversa? Se era questo che ti aspettavi ti sei sbagliato di grosso. Era del tutto naturale che la giornata andasse così. Dovevi fare una passeggiata alla Foce, nella bella e spaziosa corso Italia, anziché essere qui, a cercare di esercitarti in uno sport a te contrario. Non hai mai amato lo sci, che consideri come l’ippica, come il golf. Solo il calcio ho sempre amato, e il nuoto, quindi è stato da sconsiderati dar retta al tuo amico Giulio. Feci l’intero viaggio di ritorno bestemmiando me stesso e tutto il pullman, e ovviamente Gisella. Adesso, invece, che mancavano tre lezioni alla fine del corso, e io cercai di fissare la mia attenzione sul professor Calligaris, guardai la sua faccia di cinquantacinquenne pacifico, buon lavoratore, buon padre di famiglia, guardai i suoi capelli radi, il mento sfuggente, le labbra sottili, il suo sorriso perenne che doveva aver avuto stampato sulla faccia già dalla tenera età, e cercai di capire meglio le sue parole con le quali cercava di spiegarci accuratamente le tecniche dei due stili di sci di fondo, e in parte, tanta era ferma la mia volontà capii qualcosa di quel che diceva, anche se sapevo benissimo che, se mai fossi tornato su una pista di sci di fondo, mai e poi mai avrei saputo mettere in pratica quelle sue parole espresse con passione e estrema bonomia, mai, neppure dopo anni avrei saputo compiere dieci o venti metri da perfetto sciatore. Tu sei rimasto qui questi due mesi, in questo dannato corso, solo e soltanto per Gisella, che neppure si volta e mi saluta o soltanto mi degna di uno sguardo. Alzati e vattene, Thomas, congedati senza dare spiegazioni e non farti mai più vedere, esci da quella porta e non farti più vedere, non dare più notizie di te. Ma non ebbi la forza di alzarmi, rimasi inchiodato alla mia sedia in preda alla disperazione più nera, finché vidi tutti alzarsi e solo in quel momento pensai che ci fosse la solita pausa durante la quale si prendeva un caffè alla solita macchinetta finché, una bella sera, circa quindici giorni fa, si era rotta e non era ancora stata aggiustata. Invece, con sorpresa mi accorsi che la lezione era finita. Raccolsi il mio giubbotto, mi accodai agli altri compagni di corso che, chiacchierando e ridendo e scambiandosi impressioni, si apprestavano ad uscire. Mi consolai vedendo che il tipo tozzo e barbuto non si avvicinò a Gisella, ma rimase a parlare con Lorella, l’infermiera del San Martino, la quale era visibilmente soddisfatta. Uscimmo e mi resi conto che pioveva, maledizione, pioveva che dio la mandava, ed io ero senza ombrello e senza macchina. Giulio mi disse che quella sera avrebbe potuto accompagnarmi solo per un pezzetto di strada ma non a casa. Fu in quel momento che mi si avvicinò Gisella e mi disse, sei senza macchina, Thomas, se vuoi ti accompagno. Non credetti alle mie orecchie, mi dissi che quelle parole non erano reali ma solo il frutto della mia immaginazione. Finché Gisella mi ripeté, vuoi che ti dia un passaggio, Thomas. Farfugliai un sì, in preda a una gioia incontenibile. Vieni, è qui vicino, mi disse Gisella, aprendo l’ombrello. Mi accostai a lei, con la vaga impressione di vivere in un film. Sfioravo il suo braccio, i suoi fianchi, e ciò mi inebriava. Dovresti scostarti, Thomas, magari bagnarti ma non starle così vicino. Ero terribilmente confuso e eccitato. Non mi è mai capitato di parlare con molte ragazze, e le volte che l’ho fatto erano ragazze bruttine, con le quali, tuttavia, non mi trovavo comunque a mio agio. Raggiungemmo la macchina e ci imbucammo rapidamente nell’abitacolo. Lei accese il motore, avviò il tergi cristalli e si avviò. Mi chiese dove abitavo ed io risposi a Marassi, in via Bertuccioni. Sentivo il suo meraviglioso profumo, non so se fosse Dior o Givenchy o vattelapesca, non ho mai avuto dimestichezza con i profumi, ho sempre conosciuto i cattivi odori, gli afrori stordenti, ma mai i profumi. La mia non era una vita profumata, la mia vita era pestilenziale. In quel particolare momento ero persino convinto di puzzare, convinzione, questa, che mi porto spesso appresso, visto che sudo alla minima occasione, specie quando mi emoziono. Speriamo che il mio odore non si senta, mi dissi, ma poi mi rasserenai perché era talmente buono e deciso il profumo di Gisella che il mio odore non si poteva sentire. Mentre percorrevamo il tragitto che portava a casa mia parlammo, o meglio parlò lei, gli argomenti non erano alti: lo sci, anzitutto, uno sport grazie al quale riusciva a sentirsi viva, allegra, libera.  Poi di shopping generalizzato, da effettuarsi in negozi di scarpa o presso svariati Grandi Magazzini o, quando le finanze lo permettevano, presso i più lussuosi negozi di Genova, come i fratelli Rossetti o Bagnara Sport, dove tra l’altro aveva acquistato una magnifica tuta, gli sci e gli scarponi. Quando mi chiese che sci avessi mi vergognai, come può solo vergognarsi un cane, perché gli sci non li possiedo, ogni volta me li presta il mio amico Giulio, come non possiedo tuta e scarponi. E perciò feci finta di non aver sentito, ma lei non insistette e mi chiese come mai fossi venuto senza macchina. Questa domanda mi mise proprio ko, nel senso che neppure uno straccio di macchina possiedo, non possiedo niente di niente: né una casa né una macchina né uno scooter. Se devo uscire di casa, o passeggio o prendo il bus, ma il bus lo prendo il meno possibile, di solito preferisco camminare, respirare a pieni polmoni l’aria fetida della città, comunque sgranchirmi le gambe. Mentii dicendo che preferivo non averla una macchina, che preferivo tenermi in forma camminando. Camminare, muovere le gambe è l’unica risorsa economica di cui dispone l’uomo per mantenersi in forma. Le palestre sono nocive, pensai, mentre la strada no. Gisella disse che facevo bene a camminare, ma a lei non piaceva tanto, preferiva la palestra, nella quale andava tre volte la settimana, altrimenti non sarebbe riuscita a percorrere la bellezza di quindici chilometri sulle piste di sci di fondo sparse nel Nord Italia. Senza allenarmi in palestra non ce la farei, Thomas, credimi. Dissi che la capivo anche se non era vero. Tenni poi per me ciò che pensavo dello sci di fondo, che era uno sport da me odiato quanti altri miei, più dell’ippica, più del golf, più della lotta libera. Rispondevo solo con i si e dei no, mentre lei parlava a ruota libera, allegra, gioviale, spensierata, tanto che pensai di nuovo, no Thomas, questa ragazza non fa per te, è troppo poco problematica, troppo allegra, e poi guarda com’è vestita, è di una eleganza che tu non hai e non avrai mai, sempre con i tuoi jeans addosso, per giunta sdruciti e sporchi, così com’è sdrucito e sporco il tuo giubbotto. Guardavo la strada che stavamo percorrendo a discreta velocità e pensavo se era il caso di invitare Gisella a bere un caffè in un bar, ma l’acqua veniva che Dio la mandava, scrosci da far paura che si riversavano con violenza inaudita sui vetri e che i tergicristalli facevano una fatica improba a creare piccoli squarci attraverso i quali poter vedere la strada, per cui scartai l’idea, accogliendone un’altra che mi sembrava del tutto irrealizzabile: invitarla a salire in casa mia, che ormai, trovandoci in quel momento in corso De Stefanis, era vicina un paio di minuti al massimo. Gisella affrontò con perizia la curva che immette in via Bertuccioni, quella proprio di fronte ai Distinti del Ferraris, lo stadio in cui gioca il mio Genoa. Venti secondi dopo fummo davanti al numero cinque di via Bertuccioni. Gisella accostò e subito ebbi la netta impressione che non fosse affatto intenzionata a liquidarmi, ma anzi desiderasse ancora parlare. Io non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie. Quasi tremavo. Guardandomi di sotto in su Gisella mi chiese se lo sci di fondo mi piaceva, mettendomi così in seria difficoltà. Non posso mentirle, ma neppure dirle la verità, ossia che detesto lo sci di fondo. Se le dico la verità si irriterà, e rischierò di far buon viso a cattivo gioco, mi dirà che deve andare a casa, e dovrò uscire alla svelta, d’altro canto mentirle non mi va. Siccome non potevo star zitto, dissi che era uno sport che dovevo ancora sperimentare, lo sci di fondo. Non ero certo che mi piacesse, ma neppure mi dispiaceva. Lei mi parlò invece dell’euforia che le trasmetteva, e del fatto che, grazie allo sci, e alle lezioni di sci tenute magistralmente dal signor Calligaris, aveva ritrovato il suo equilibrio e la vita aveva cominciato di nuovo a sorriderle. Sì, Thomas, mi disse Gisella, adesso posso dire che la vita mi sorride. Io chiesi perché la vita fosse tornata a sorriderle, e lei mi guardò di nuovo di sotto in su, uno sguardo dolcissimo e nello stesso tempo conturbante, e mi disse perché, non lo sai? Io mentii dicendo che no, non sapevo nulla, al che lei disse che si era separata, e che la cosa le aveva procurato un forte periodo di depressione, un periodo nero, anzi nerissimo, che era durato due anni, ma dal quale adesso era definitivamente uscita non grazie all’aiuto di uno psichiatra né di uno psicologo, sebbene per un certo periodo fosse stato necessario ricorrere agli psicofarmaci, e qui toccò un punto dolente perché anch’io, da anni, ricorro agli psicofarmaci. Naturalmente non dissi nulla sugli psicofarmaci, non volevo che Gisella mi considerasse uno squilibrato o un depresso cronico. Sì, posso dire di essere uscita dal periodo nero, adesso farmaci non ne prendo più disse guardandomi apertamente negli occhi. In quel momento provai l’irresistibile tentazione di attrarla a me e baciarla, ma non sapevo come sarebbe andata a finire, se lei si fosse ritratta, assestandomi addirittura uno schiaffo, o se invece avrebbe corrisposto il bacio. La trovavo più bella e affascinante di quanto l’avessi mai trovata. Sta’ attento, Thomas, mi dissi, con questa ragazza potresti bruciarti in modo irrimediabile, dal quale non so se riusciresti a tirarti fuori. Con Barbara, diversi anni fa, sebbene non ti piacesse come Gisella, per il fatto che ti aveva lasciato quando tu eri deciso a metter su famiglia, avevi passato mesi d’inferno, che solo dosi massicce di psicofarmaci ti avevano aiutato a superare, ma in questo caso non so se i farmaci ti basterebbero, anzi, di sicuro gli psicofarmaci sarebbero insufficienti, non è ancora stata inventata la formula che consenta di superare i momenti terribili, quelli che gettano una persona in uno stato di assoluta prostrazione. Le piccole e anche grandi depressioni trovano un minimo conforto con gli psicofarmaci, a caro prezzo, ovviamente, al prezzo di una sonnolenza e intontimento perenne, e altri effetti collaterali che non voglio star qui a descrivere, ma i grandi dolori, le morti delle persone care, gli abbandoni trovano un blandissimo conforto con le pastiglie, non esiste al mondo uno psicofarmaco che ridia in effetti un po’ di serenità, pensai, Gisella potrebbe ridonarti una vita piena e soddisfacente, ma potrebbe anche gettarti in uno stato psicofisico a cui in questo momento non voglio neppure pensare. Gisella disse era un periodo sì positivo, ma che in fondo si annoiava un po’. Dopo l’abbandono del marito, doveva ricostituire una cerchia di amicizie con le quali trascorrere serate e domeniche, perché doveva pensare al periodo in cui lo sci di fondo sarebbe terminato, e la primavera e l’estate sono sì stagioni meravigliose ma se sei solo perdono di significato, si sviliscono, e io dicevo sì sì certo. A quanto pareva le avrebbe fatto piacere se ci fossimo visti qualche altra volta, se magari fossimo andati a mangiare una pizza, e ad ogni proposta trasecolavo, involontariamente, il mio cuore esultava in un modo così incontenibile che temetti si percepisse, addirittura si sentisse la mia gioia. Ci facemmo addirittura qualche risata quando, tornando a parlare degli iscritti al corso, poi, all’improvviso, mi chiese se conoscevo Giulio da tanto tempo e io dissi di sì, che erano anni, anche se per la verità lo frequentavo poco. Poi lei sparò a bruciapelo: lavori insieme a lui? A quel punto capii che aveva sempre pensato che io fossi un collega di Giulio, ossia fossi un ingegnere, mestiere che io non sarei assolutamente in grado di svolgere. Provavo un disagio immenso, e con qualche imbarazzo dissi no, non sono collega di Giulio. Al che lei mi chiese: non fai lo stesso mestiere? Dissi di no, che non facevo lo stesso mestiere. E allora cosa fai? Con imbarazzo crescente dissi, nulla, sono disoccupato. Di tanto in tanto trovo qualche lavoricchio, diciamo due o tre volte l’anno per un mese, a volte addirittura per due o tre. Me ne accorsi subito, all’istante: il suo volto così piacevole si oscurò. Disse ah, sei disoccupato? E io dissi sì, sono disoccupato. È un periodaccio. Non si trova lavoro. Lei guardò fisso davanti a sé, il tergicristallo che lavorava come un matto, su e giù su e giù, quel tanto che bastava a intravedere la strada. Ecco, lo sapevo, ha distolto subito lo sguardo da me, mi dissi, è bastato che le dicessi che non sono un ingegnere ma sono disoccupato, e subito lei ha smesso di guardarmi. Avrei dovuto mentire, mi dissi, dire che ero caporeparto in qualche grande azienda, o un rappresentante di gioielli, o uno stilista e lei avrebbe mi avrebbe guardato all’infinito, persino con adorazione. E fui tentato di dirle che non ero disoccupato, le sembravo un disoccupato, avevo la faccia da disoccupato. Scherzavo, sciocchina, avrei dovuto dirle. Ma la mia onestà di fondo me lo impedì e ribadii che ero disoccupato, e che era difficile che trovassi un lavoro, un po’ perché non ce n’era un po’ perché con la massa di immigrati che erano arrivati e che lavoravano per pochissimi soldi, lavorare con una paga, poniamo, di cinque euro l’ora era veramente una grande impresa. Lei mi ascoltò le braccia tese sul volante, lo sguardo fisso davanti a sé e disse: capisco. Poi aggiunse: be’, Thomas, direi che è l’ora di andare a casa. Io guardai il mio Casio da 20 euro: le undici e venti. Poi dissi, sì, è l’ora. Non mi chiese, Gisella, se avevo un ombrello, non mi disse, te lo presto io. Non si preoccupò in nessun modo: cavoli miei. Aprii la porta e mi fiondai fuori, m se anche c’erano sì o sette otto metri per arrivare al portone mi bagnai dalla testa ai piedi. Non avevo neppure aperto il portone che lei era già schizzata via. Respirai a pieni polmoni, anche per respingere le lacrime che stavano per salirmi agli occhi. Sensibilità. Ho una sensibilità malata, così mi dissi, pensai. Se non avessi una sensibilità malata non starei qui a dannarmi l’anima per questo abbandono, che è e sarà definitivo. Gisella è perduta, così mi dissi, pensai. Non la recupererò più, non mi telefonerà per uscire una sera e mangiare una pizza insieme. Non mi telefonerà mai più, e se anche chiedessi il suo numero a Giulio e le telefonassi lei si negherebbe o butterebbe giù il telefono. Adesso devo togliermela dalla mente, Gisella, una volta per tutte. Ciò che non ho fatto, che mi sono rifiutato di fare, in questi mesi, devo farlo adesso, che pure mi sono emotivamente sbilanciato. Stasera, dopo anni e anni, avrei potuto cominciare una relazione, e invece tutto è andato a rotoli. Irrimediabilmente, pensai e, salendo le scale, poiché non ho aderito all’acquisizione di un più che modesto ascensore, mi ripetei questa parola che mi parve terribile, micidiale: irrimediabilmente. Quando giunsi davanti alla porta di casa avrei battuto ripetutamente la testa contro la porta, affinché un dolore attenuasse l’altro o lo destituisse, invece la aprii ripetendomi: irrimediabilmente. Questa parola mi straziava solo a pensarla, gettandomi in uno stato di profonda prostrazione. Pensai di andare in cucina e, dal cassetto delle medicine, prendere un paio di pastiglie di Xanax e un antidepressivo. Ma non potevo negare di essere terribilmente eccitato. Sei moralmente distrutto, Thomas, ma non puoi negare di essere eccitato. E questa eccitazione non puoi sforzarti di trattenerla, devi sfogarla, altrimenti staresti doppiamente male, e il dolore già ti serra la gola. Come un burattino senza più forza e volontà mi trascinai in bagno, mi sedetti sulla tazza e mi ripetei la parola irrimediabilmente. Non potei fare a meno di prendermi in mano il mio cazzo gonfio e pulsante di desiderio, cominciando a masturbarmi lentamente. Mi sforzavo di pensare ad altro, al mio Genoa per esempio, ma la figura di Gisella mi si presentava davanti con tutta la sua prorompente fisicità. La figura di Gisella si sovrapponeva a quella, pur adorata, di Criscito, e le gambe a quelle di Schöne, per le quali, Giuseppe lo sapeva, nutrivo una vera e propria venerazione, avendo egli giocato nell’Aiax, vale a dire una delle più forti squadre del mondo. Ma Gisella si imponeva e presi a masturbarmi con maggiore forza e determinazione, e in effetti il dolore per l’abbandono si attenuò e prevalse il piacere, un piacere inesauribile, inarrestabile, che esplose in un fiotto di sperma irrimediabile.

 

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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