Il merito come nudo nome e come processo sociale

di Giorgio Mascitelli

La nuova denominazione del ministero dell’istruzione in istruzione e merito ha suscitato un’ondata di discussioni perché molti commentatori hanno temuto, e qualcuno auspicato, che sotto tale denominazione si nascondesse il tentativo di rianimare nella scuola le vecchie pratiche selettive, che ancora allignano in qualche liceo, che comportavano l’allontanamento dalla scuola tramite la bocciatura di una parte considerevole di alunni non brillanti e spesso appartenenti alle classi popolari. Insomma, per parafrasare una vecchia canzone di Ivan Della Mea, vi è il timore di una nuova volontà di usare l’arma del voto per escludere tutti quelli che sono più deboli e non adeguati.  Il problema di questa tesi è che la stessa Giorgia Meloni, nelle sue abbastanza rare uscite pubbliche sulla scuola, non sembra affatto sostenere un discorso di questo genere: ha proposto, nella scorsa primavera alla conferenza di partito, di abolire le bocciature nella scuola secondaria, per sostituirle con un sistema di livelli e di scelta della materie, simile a quello britannico. Anche se nel programma elettorale di Fratelli d’Italia non c’è traccia di una simile proposta, l’impegno a contrastare la dispersione scolastica e l’invito a limitare i compiti a casa sono presenti e appaiono difficilmente conciliabili con un ritorno della selezione o meglio con quello che un tempo si sarebbe inteso con tale parola.

In realtà coloro che individuano nella parola ‘merito’ il segno di un ritorno a qualche forma di classismo non sbagliano del tutto perché il riferimento al sistema inglese, uno dei più ferocemente classisti al mondo, anche se privo dell’istituto della bocciatura, è eloquente e questo tutto sommato non può sorprendere in una forza politica reazionaria e conservatrice come quella guidata dalla presidente del consiglio. Infatti il merito, ossia la selezione, oggi nella scuola non passa più per l’allontanamento di una parte di studenti, ma piuttosto attraverso la costituzione di un sistema scolastico a più livelli, in cui possibilmente chi si trova nella terza categoria non deve rendersene conto. Alcune misure in Italia vanno già in questa direzione: per esempio l’introduzione delle prove INVALSI usate per stabilire una graduatoria di merito tra gli istituti virtuosi e quelli meno performanti, anziché come strumento per individuare situazioni critiche su cui intervenire, oppure i Rapporti di Autovalutazione delle scuole, che, specie nella scuola dell’obbligo, diventano strumenti di orientamento delle iscrizioni operanti una selezione sociale a monte. Insomma nel futuro, ma è un futuro che è già cominciato, la scuola del merito ossia della selezione non vedrà l’allontanamento da scuola di studenti bocciati su programmi scolastici particolarmente impegnativi, ma consisterà nella formazione di un sistema di scuole a più velocità, nel quale le migliori saranno tali non per il grado di difficoltà del piano di studi, ma perché definite così da classifiche di rendimento redatte spesso da istituti privati con criteri ed elaborazioni statistiche discutibili. Il problema semmai è che anche la Buona Scuola e altri provvedimenti del centrosinistra  si muovono in un’ottica simile, del resto in tutto l’Occidente le politiche scolastiche sono dettate dall’OCSE, pur con qualche adattamento al contesto nazionale, secondo un modello mercatista e liberista bipartisan.

Così il neoministro dell’istruzione e del merito ha spiegato, secondo una consolidata retorica neoliberale, che la nostra è una scuola classista e il merito è strumento di uguaglianza per superare le differenze. Si tratta di formule generiche che non avrebbero avuto difficoltà a usare neanche i suoi predecessori di diversa posizione politica e questo non in ragione di una particolare fumosità del ministro Valditara, ma perché da circa trent’anni le politiche scolastiche sono accompagnate da cortine fumogene in una sorta di neolingua di orwelliana memoria in cui  dichiarazioni di principio progressiste sono seguite da provvedimenti di tutt’altro genere. Per esempio il ministro ha confermato il sistema di reclutamento degli insegnanti creato dal suo predecessore che prevede la laurea magistrale, la raccolta di 60 crediti tramite corsi preparatori delle università, un periodo di tirocinio con prova finale abilitante e successivo concorso per il posto di assunzione a cui seguirà, come oggi, un anno di straordinariato. Questo è indubbiamente un percorso meritocratico della durata di 10 anni circa, giusto il tempo che serve per diventare professo della Compagnia di Gesù  e che non ha pari in nessun sistema scolastico del mondo, il tutto naturalmente per occupare una posizione lavorativa da 1500 euro al mese e anche meno nei primi anni in un paese in cui la considerazione sociale degli insegnanti è, a dir poco, scarsa. Si tratta in realtà di un blocco delle assunzioni spacciato per percorso di merito, che produrrà nella scuola pubblica un’ampia diffusione del precariato per occupare i posti vacanti con la conseguente ricaduta negativa sulla qualità dell’insegnamento. Proprio questo particolare ci ricorda che una delle caratteristiche delle parole ‘merito’ e ‘meritocrazia’ è la loro plasmabilità per qualsiasi significato concreto, la quale, unita alla popolarità del concetto dovuta alla sua evidenza lapalissiana, in quanto è difficile trovare chi si possa dire contrario al principio per cui ogni posto deve essere occupato dalla persona più meritevole per quel tipo di posto, rende questi termini dei perfetti passepartout linguistici per coprire qualsiasi tipo di operazione di potere.

Del resto la storia del termine ‘meritocrazia’ è particolarmente eloquente. Coniata nel 1958 dal sociologo inglese, vicino al partito laburista, Micheal Young con L’avvento della meritocrazia, una sorta di pastiche di un saggio sociologico che l’autore finge di comporre nell’allora lontano 2033 per dare una giustificazione pseudoscientifica alle pretese delle classi superiori, l’espressione ha all’origine una valenza ironica e critica del discorso con cui nelle società capitalista i ceti alti giustificano i propri privilegi. Questa originaria accezione satirica si perde quasi subito e sia in inglese sia in italiano la parola viene usata in maniera seria, indubbio segno della vittoria culturale dello spirito del capitalismo e del privilegio, essa ha particolare successo tra coloro che appartengono ai ceti perdenti perché vedono in questo principio una possibilità di riscatto dalla loro posizione, dimenticando che chi definisce cos’è il merito e chi sono i meritevoli di solito appartiene a classi diverse dalle loro. E così oggi il merito può diventare nel senso comune un rimedio al classismo.

Vi è però un altro aspetto curioso di questo discorso sul merito. Nella scuola classista tradizionale chi arrivava al termine poteva effettivamente vantare un livello culturale molto elevato, cioè l’idea che il merito fosse premiato aveva una sua validità empirica nell’esperienza di molti, anche se questo non cancellava gli aspetti classisti di quella scuola, perché coloro che primeggiavano in quel percorso indubbiamente giungevano a livelli culturali e disciplinari molto elevati. Oggi con il termine merito si indica piuttosto un’educazione  che propone un mix di norme di una sorta di galateo internazionale e qualche competenza tecnica, di solito di tipo economico, che il sociologo canadese Alain Denault ha chiamato mediocrazia per metterne in luce la piattezza e il conformismo culturale nascenti da un sistema che premia la mediocrità, il cui motto può essere ben rappresentato dalla paradossale esortazione dello stesso Denault “ Mettete da parte i testi difficili, basteranno i libri contabili”. Due episodi apparentemente diversi illustrano con chiarezza la natura di questa mediocrazia meritocratica: alcuni anni fa la scoperta del plagio della tesi di dottorato di una nota esponente politica tedesca lungi dall’averne bloccato la carriera l’ha portata ai massimi vertici politici ( in un sistema elitario questo non sarebbe successo non per ragioni etiche ma perché l’abito mentale di chi copia una tesi è incompatibile con la capacità di prendere decisioni in condizioni di incertezza e di informazione incompleta, che è la qualità principale di un dirigente politico), e l’anno scorso, in occasione del concorso per i docenti tenutosi in Italia, la rivelazione di numerosi errori nelle domande dei quiz, valutati in maniera così severa da causare la non ammissione della maggioranza dei candidati, riscontrati da vari specialisti nella rispettiva materia, ci rivela che l’idea corrente di merito è quella di  assenza di controllo e di senso del limite dei superiori.

Dal punto di vista storicosociale non è strano che l’asserita meritocrazia corrisponda nei fatti a questa mediocrazia perché il sistema scolastico novecentesco, diciamo quello prima della scolarità di massa, era caratterizzato da un marcato classismo nella trasmissione del capitale culturale, ma questo capitale culturale era fatto anche da una serie di conoscenze e di saperi che richiedevano lo sviluppo di alcune qualità intellettuali in quanto il processo sociale della scuola era influenzato da una borghesia delle professioni, che doveva la propria posizione e il proprio prestigio non solo alle relazioni e ai beni ereditati ma anche alla propria cultura e alle sopraccitate qualità intellettuali. Oggi invece, poiché il successo si misura unicamente in termini di denaro e il modo statisticamente più diffuso per guadagnarlo è quello di ereditarlo, tutta questa storia del capitale culturale perde un po’ d’importanza ( non del tutto perché nel capitale culturale, secondo la classica definizione di Bourdieu, sono da includere anche le relazioni sociali e le conoscenze, che ovviamente anche oggi hanno un peso). Del resto non è una novità storica: l’affermazione dell’importanza dell’educazione e della formazione, specie nell’età evolutiva, è legata allo sviluppo di una borghesia che doveva al proprio ingegno e alle proprie capacità l’ascesa sociale, mentre nell’aristocrazia, in cui la posizione si ereditava alla nascita con il proprio titolo, si dava alla formazione  molta meno importanza ( un po’ di francese per la società, dei rudimenti di religione, uno strumento musicale o il canto per le ragazze, un po’ di addestramento militare per i maschi, insomma quelle che qualche tecnico odierno potrebbe chiamare le competenze per il diciannovesimo secolo). Naturalmente le nostre società vivono ancora sulla promessa alle classi meno abbienti del miglioramento delle condizioni dei figli tramite un’ascesa sociale grazie agli studi, che gli studi non possono garantire in realtà se non a pochi; in un contesto del genere allora occorre svuotare la scuola di contenuti che non serviranno ai molti destinati a lavori non qualificati. Non essendo però possibile affermarlo in maniera diretta, per via degli ovvi rischi di proteste, ecco allora che il discorso sul merito svolge la funzione ideologica di nascondere questo processo.

 

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1 commento

  1. Grazie per questa riflessione. È disperante vedere come le classi dominanti (ormai dirigenti è un termine che poco si addice) si approprino di qualunque concetto trasformandolo in una chiave di potere. La sottomissione di tutti gli altri pare la norma. Per fortuna qualcuno raramente ne discute. Articolo perfetto.

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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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