Diaporama

Appunti sulle fotografie di Salvatore Cuccurullo

di

Enrico De Vivo

 

La sera del 15 settembre 2022 Salvatore Cuccurullo, maestro di pianoforte di Angri ed emigrato in Veneto circa vent’anni fa per insegnare, stava morendo in un ospedale di Vicenza. Dopo aver ricevuto la notizia, ho trascorso la serata fino a tardi a guardare le sue foto pubblicate sui social, a scorrere la sua pagina lentamente, soffermandomi su alcuni scatti che già conoscevo e su altri che mi erano sfuggiti. C’era sicuramente un sentimento magico, qualcosa di religioso o superstizioso, in questa mia reazione – forse la credenza inconscia di poter fare qualcosa intervenendo sugli oggetti collegati alla persona, o l’illusione che un miracolo potesse ancora accadere. Del resto, chi, in quelle ore, nonostante l’ineluttabilità della notizia, non ha sperato fino alla fine in un miracolo per Salvatore?

 

Ho sempre avuto l’impressione che le fotografie di Salvatore Cuccurullo fossero anacronistiche. Sembrano infatti concepite al di fuori dell’immediatezza telematica, estranee all’ideologia del carpe diem soffocante nel quale siamo immersi. Non sono consumabili perché non sono guardabili velocemente. Lo sguardo del frequentatore abituale di social vi scivola sopra, senza contare che spesso il dispositivo rende invisibile ciò che non gli aggrada. E invece quelle foto richiedono uno sguardo attento, essendo state concepite allo stesso modo: con attenzione e dedizione. Bisogna quindi fermarsi davanti alle fotografie di Cuccurullo, bloccare il thread dei post e prendersi una pausa, anche se a qualcuno potrebbe capitare di chiedersi: tutto qui? Ma in queste foto non c’è niente, solo alberi, cielo, monumenti… Come davanti a una “poesia della torre” di Hölderlin o a un haiku. Tutto qui?, ci si potrebbe chiedere. No. Non è tutto qui. Quello che devi cercare non si trova nel cosiddetto contenuto o soggetto dell’immagine, ma nella grazia con cui l’immagine è stata realizzata, nella sua forma studiata e nella composizione ragionata, nei suoi colori vividi e nel ritmo lento che le sottostà.

Le foto di Cuccurullo sono quasi sempre frutto di passeggiate, il bottino o meglio il residuo di escursioni, uscite, visite. Il cielo gli serve per far risaltare meglio i contorni delle cose, così tutto è più nitido e chiaro. Le ombre non sono molto presenti, Cuccurullo ama la luce e la chiarezza: la prima cosa che gli interessa è far capire bene agli altri quel che vuol dire. Era un fotografo della domenica? Difficile che un fotografo della domenica si ponga i problemi formali che si evincono dalle sue fotografie. Le immagini di Cuccurullo abbagliano per il nitore della compostezza formale e per il rigore compositivo, qualità che di certo ricavava dalla musica. I suoi scatti sono concepiti come fraseggi energici e allegri, mozartiani. Mai casuali. Ma neanche studiati con acribia. Le cose e le persone, gli animali e le piante sono messi insieme con ritmo musicale. Le sue foto è come se suonassero, e dunque prima del contenuto o del soggetto, offrono un incanto soltanto formale, coloristico, volumetrico. Come nella foto in cui il cielo per magia diventa verde, sovrapponendosi al paesaggio collinare che fa da sfondo a un volatore in parapendio.

 

Matteo Marchesini ha scritto di recente che Guido Piovene, riferendosi agli scrittori veneti (Zanzotto, Parise, Valeri), diceva che vivono il paesaggio come “un sogno di sé stessi”. Il legame di Salvatore Cuccurullo con il Veneto trapela dalle sue fotografie, che sono anche piccoli “sogni di sé stesso”. Probabilmente lo aveva catturato soprattutto questo del Veneto: la possibilità che il suo paesaggio offre di realizzare sé stessi come una proiezione onirica nell’esterno, in un “fuori di sé” che non ha nulla dell’impazzimento, ma è una forma superiore di sensibilità e conoscenza. Nelle sue immagini non c’è mai niente di narcisistico, le sue foto sembrano senza autore, quasi senza macchina fotografica: somigliano a epifanie. Il marchio personale, “d’autore”, che in genere è sempre sottolineato nella maggior parte delle immagini in circolazione, è come annullato. Le foto di Cuccurullo sembrano venute fuori dal nulla, scattate come da nessuno. Quello che l’estetica e le più raffinate poetiche otto-novecentesche hanno ricercato con tecniche sopraffine – l’ablazione dell’io, come diceva Beckett – nelle foto di Cuccurullo si realizza con naturalezza lampante, senza sforzo. Il fotografo ha lasciato che la macchina fotografasse, lui ha fatto soltanto da supporto, da cavalletto. È come se si fosse nascosto o fosse andato via, mentre l’immagine si faceva: e quando si è fatta, è riapparso per osservarla e magari commentarla con veloci didascalie oggettive. Cuccurullo nutriva quindi un grande rispetto per tutto quello che capitava davanti al suo sguardo, accolto nel riquadro dell’immagine e sistemato come un ospite in casa propria: un animale, un albero, un monumento, e tanto tantissimo cielo, come si vede ad esempio nell’ultima foto pubblicata ad agosto sui suoi profili social, in cui la torre di Romano d’Ezzelino svetta nel cielo azzurro su alcune figure umane in miniatura. Sotto vi leggiamo la didascalia: “Chi pedala, chi legge, chi passeggia, chi chiacchiera, chi guarda il panorama, chi stringe una mano, chi fotografa… È la torre dei sogni”. Poi, aggiunto nei commenti, in calce a un ingrandimento del medesimo scatto che mostra un minuscolo parapendio che galleggia sulla torre: “E c’è chi vola…”.

 

 

Adesso forse capisco meglio perché mi ci sono soffermato tanto, su queste foto. Perché Cuccurullo era così anche nella realtà, come le sue foto: aperto nei confronti di tutti con una gentilezza naturale, una delicatezza di modi e gesti di rispetto che mettevano sempre a proprio agio. Ti sorrideva sempre, come sorrideva alle cose che passavano nel suo obiettivo e alle quali faceva spazio per farle accomodare nel posto migliore, ossia per far venir fuori nel modo migliore il loro splendore ordinario (“Scene di ordinaria meraviglia”: sua didascalia a una foto). Uno sguardo, il suo, generoso, protettivo – quasi ansioso. Ansioso di far male o di provocare noia o danno. E per questo, forse, anche nervoso, alla ricerca di una perfezione dell’assenza che certamente non riusciva a raggiungere durante le sue interminabili divagazioni con gli amici, ma che la fotografia rendeva possibile, consentendogli di ritrarsi completamente dalla scena, in modo che ogni cosa potesse apparire nella propria “evidenza di immagine” (Hölderlin) – perché le immagini sono lì da sempre, si fanno da sole o le ha fatte dio, e noi possiamo soltanto aiutarle ad apparire, a vedere la luce.

Salvatore Cuccurullo ammirava molto Gianni Celati. Leggeva con passione i suoi libri fin dai tempi del DAMS di Bologna, frequentato dopo il diploma in pianoforte al Conservatorio di Salerno negli anni Ottanta. Anche Celati è morto quest’anno, a gennaio. Anche lui ha inseguito per tutta la vita le forme espressive che consentono all’io di farsi da parte in favore del mondo, in favore del divenire che paradossalmente è sempre possibile immortalare con un ritmo, un canto, un’alternanza di chiari e scuri. Negli scritti di Celati come nelle fotografie di Cuccurullo non prevalgono mai i “chicchirichì dell’io” (definizione di Celati), non ci sono le pose creative o le vanterie tecniche tipiche di chi si atteggia a scrittore o artista. Da questo punto di vista mi sento di azzardare che le fotografie di Cuccurullo erano qualcosa di più di oggetti artistici: l’”arte” – con le virgolette perché intesa nel senso degenerato al quale ho appena alluso – Cuccurullo l’aveva superata, guardava oltre, e pubblicando su Facebook e Instagram cercava di intuire dove avrebbe potuto condurlo la ricerca della calma, della serenità. Dove avrebbe potuto portare in futuro quelli come lui e come noi che studiando, scrivendo, suonando hanno cercato e cercano nella vita qualcosa di più della ricchezza o del successo: qualcosa di più umano, di più sopportabile e di più amichevole – un’immagine, un racconto, una musica – che ci salvi dai cani-pensieri inviati da una dea impietosa. Non mi stupisce che una delle sue foto più belle sia proprio dedicata a una scultura (nella Reggia di Caserta, riprodotta in questa pagina) del cacciatore Atteone, che secondo l’interpretazione di Giordano Bruno è sbranato dai cani dei propri pensieri, essendo andato in cerca di una preda troppo difficile: “I’ allargo i miei pensieri/ Ad alta preda, ed essi a me rivolti/ Morte mi dàn con morsi crudi e fieri”. Eppure la foto di Cuccurullo ci sorprende, perché non si limita a illustrare l’episodio mitico, ma quasi lo interpreta: una coloratissima paperella in primo piano, indifferente alla crudeltà della natura e del mito, se ne va per la sua strada beatamente, scampata infine ai propri terribili cani-pensieri.

 

 

Bisogna dire qualcosa infine di un altro tipo di fotografie che riguardano Cuccurullo: i ritratti che gli facevano i suoi amici (non ho mai visto un suo selfie). Nelle foto che lo riprendono in primo piano Salvatore mostra quasi sempre il suo sorriso ampio e fiducioso, in una posa naturale da monaco zen, imperturbabile ma determinato, calmo e nello stesso tempo infervorato. Le sue fotografie e i suoi modi pacifici con tutti ci trasmettono anche il suo profondo sentimento della totalità unitaria dell’esistente (natura e cultura, grandi e piccoli, Nord e Sud). La sua morte ci ha fatto male, molto male, ma ora ci resta la sua arte – senza virgolette –, ancora tutta da scoprire e valorizzare.

Evviva allora il nostro poeta della luce, evviva il nostro Hölderlin emigrante!

 

 

L’aperto giorno all’uom brilla di immagini

Quando in piana lontananza il verde appare,

prima che volga la luce al tramonto

e ceda ai tenui baglior la diurna face.

 

Spesso par chiuso, cupo il cuor del mondo,

dubbioso e scosso il sentir dell’uomo:

natura fulgida i suoi dì allieta,

e lungi è l’oscura domanda del dubbio.

 

[Friedrich Hölderlin, Veduta, in Poesie della torre, traduzione di Gianni Celati]

 

* Il 25 novembre scorso sono partite in Veneto una serie di iniziative – concerti, eventi, mostre – dedicate a Salvatore Cuccurullo. Auspichiamo che presto anche nel suo paese natale, ad Angri, possa nascere un giusto interesse per la sua figura esemplare di maestro di musica, insegnante e fotografo. Questo testo è dedicato alla sua memoria e vuole essere un primo contributo in questa direzione.

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3 Commenti

  1. Quando si parla di arte si puo’ dire di tutto ed il contrario di tutto. La lettura e l’interpretazione, raffinata e colta,che il prof. Enrico De Vivo ha fornito delle foto di Salvatore rendono merito all’autore e contribuiscono a dare un valore aggiunto a quelle immagini. Foto studiate a volte, e spontanee spesso, ma che per Salvatore erano,secondo me, la volonta’ di cristallizzare momenti che lui stesso amava definire “scintille di felicita’ .” Al prof. Enrico De Vivo va un sincero ringraziamento da parte mia e dei miei fratelli, per l’attenzione che ha avuto per il nostro caro e insostituibile Salvatore.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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