1922-2022: tre piste di riflessione dopo il voto del 25 settembre in Italia # 1

di Giuseppe A. Samonà

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Ho vissuto in Italia i primi vent’anni della mia vita, e altrove i successivi quaranta: ma in Italia sono tornato regolarmente, almeno una volta l’anno, soprattutto per via di alcuni affetti preziosi che ancora ci vivono, registrandone attraverso il tempo mutamenti più o meno significativi. È questa distanza partecipe che ha orientato le mie impressioni sul voto del 25 settembre, sulla campagna elettorale che lo ha preceduto e sulle reazioni, o i silenzi, che ha provocato nelle settimane che lo hanno seguito, in particolare imponendomi all’attenzione questioni che nella discussione italiana sono meno o per nulla considerate, o comunque facilmente risolte con formule che a me, da questo mio punto di vista lontano-vicino, appaiono spesso come luoghi comuni. Vorrei condividere queste impressioni, questi abbozzi di riflessione, forse più antropologiche – o persino in parte sentimentali – che politiche, con gli amici italofili o italiani che come me non abitano in Italia, e con quelli che continuano ad abitarci.

  1. Il fascismo

In Italia c’è da tempo un gran ripetere che non esiste più un pericolo fascista. Anno dopo anno sempre più forte e aggressiva nella società come nel parlamento, lo ha frequentemente ripetuto la destra radicale, dapprima suadente poi via via più sprezzante, fiera: Non siamo fascisti, volentieri precisando che non possono esserlo perché il fascismo non esiste più, non ha più senso (e dunque, va da sé, non ne ha più neanche l’antifascismo…). Ma, sia pur in una diversa prospettiva, lo han ripetuto non pochi dei loro avversari a sinistra, o per dir meglio, nel campo che si richiama al progressismo: Non sono fascisti, il fascismo non può tornare, appartiene alla storia, spesso precisando che la destra va combattuta, certo, ma il voto deve essere rispettato, la democrazia è solida, etc. Per i primi, si è trattato innanzitutto di un modo di farsi accettare, di rassicurare – più l’Europa che l’Italia, dove la parola fascismo oramai non crea più il rigetto di una volta – nella loro marcia trionfale verso il potere, e del resto il ritornello sta nel contempo mutando di colore e perdendo in intensità ora che al potere ci sono arrivati; per i secondi, viceversa, si è trattato di un modo di rassicurare se stessi, di addomesticare la possibile sconfitta, con il ritornello che si è intensificato nel mentre quella sconfitta assumeva i contorni dell’apocalisse, quasi che il negare il pericolo ne dissolvesse la realtà: un po’ come quando si evita di pronunciare il nome di una grave malattia, perché il semplice nominarla la renderebbe irreversibile, costringendoci a cambiar vita per combatterla.

Ora il pericolo, anzi, il fascismo, in Italia esiste, non è mai morto, e non è mai stato tanto florido come oggi – anche se certo non si tratta del fascismo storico, quello del manganello e dell’olio di ricino, perché la storia non si replica: e su questo ha buon gioco Giorgia Meloni a ridicolizzare l’accusa che le è, sempre di meno per altro, rivolta. Ma di cosa si tratta, allora?

Innanzitutto, a un livello più profondo, sotterraneo, va considerato quello che Carlo Levi ha definito “l’eterno fascismo italiano” [L’eterno fascismo italiano (altritaliani.net)], e su cui hanno aggiunto del proprio tanti altri scrittori e artisti (Sciascia, Consolo, Camilleri, Fellini, etc. per non citare che quelli che ho avuto modo di riavvicinare negli ultimi tempi): il lungo Ventennio mussoliniano ne è stato solo uno straordinario momento di compiuta apoteosi; i molti anni di Berlusconi (di nuovo, più o meno un ventennio…) e quelli più recenti e meno numerosi di Salvini lo hanno prepotentemente riportato alla luce, con le sue pulsioni, i suoi tic, i suoi luoghi comuni… Il termine “eterno” tuttavia non deve trarre in inganno: non rimanda a una presunta italianità innata, quanto a un terreno, a una predisposizione culturale composita che si è formata in un largo movimento della storia e i cui tratti hanno finito con l’infiltrare – come se fosse appunto da sempre – la società italiana.

Del resto è Manzoni, con I promessi sposi, a offrirne una delle più acute e inalterabilmente attuali descrizioni, come se questo romanzo del XIX secolo (la versione finale è del 1840) che retrocede l’azione nella pre-Italia del XVII avesse acquisito, attraverso l’immortalante caratterizzazione dei personaggi che mette in scena, la capacità di navigare attraverso il tempo, anticipando il futuro: che si pensi fra i più significativi al mediocre tiranno Don Rodrigo e alla corte dei mediocri e cinici asserviti che gli gira intorno, dal frivolo conversatore cugino Attilio al cialtronesco avvocato Azzecca-garbugli, con l’incomprensibile intrico di grida leggi e pene che lo aiuta e aiuta in generale l’oppressore contro l’oppresso, affermando tutto e il contrario di tutto; o ancora al vanesio e ridicolo politicante Conte zio, gonfio del proprio vano prestigio, o al Griso, al Nibbio, allo Sfregiato e agli altri bravi, gli scherani del potente don Rodrigo o dell’ancor più potente Innominato; e soprattutto a Don Abbondio, il prete codardo e arrangione, disposto a sottomettersi a qualunque potente in cambio della sua piccola ed egoista tranquillità domestica (il cattolico – convertito – Manzoni è stato vicino al pensiero illuminista e al protestantesimo versione giansenista e non esita ad denunciare il vizio insito nella struttura ecclesiastica), non a caso è Alberto Sordi, vera e propria incarnazione della viltà furba e meschina della piccola Italia, a rappresentarlo nel celebre sceneggiato televisivo della fine anni Ottanta. (Ovviamente nei Promessi Sposi, come anche in Italia, oltre ai vizi ci sono le virtù: ma, nonostante il lieto fine, Manzoni è decisamente più abile nell’eternizzare i primi che le seconde: forse perché i primi esistono veramente, le seconde sono soprattutto delle aspirazioni.).

Anzi, pochi anni prima dei Promessi Sposi – o se se si preferisce parallelamente alle prime versioni del romanzo – alcuni di questi vizi insieme ad altri li aveva già descritti Leopardi, con identica capacità di navigazione attraverso le epoche, anche se su un piano più filosofico, nel Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani (1824 – e si noti che sia Manzoni che Leopardi pensano e scrivono prima della nascita istituzionale dell’Italia…). Ora, appunto, non sono più i personaggi emblematici a parlare, ma lo scheletro stesso della nazione, in modo ancora più crudo, attraverso alcune sconvolgenti generalità: in primis, quella da cui derivano tutte le altre, la mancanza di società stretta, la società cioè considerata nel senso del rapporto più intimo che gli individui hanno fra di loro, nella quale ognuno tiene conto di tutti gli altri – e dietro appunto, di conseguenza, la generale assenza di centro, la poca cura che si ha verso il proprio onore, l’indifferenza all’opinione pubblica, il cinismo sociale, la forte predisposizione a ridere di tutto e di tutti che va insieme all’incapacità politica etc. Con una radicalità assoluta: le possibili virtù stanno infatti sullo sfondo, sono ombre che accompagnano i vizi, in un certo senso li definiscono, non hanno esistenza propria, non interessano comunque Leopardi; e in realtà non si dovrebbe neanche parlare di vizi e virtù, ma semplicemente di incurabili peculiarità, analizzate con l’impassibile occhio clinico del chirurgo, o dell’entomologo. Qui insomma non è previsto nessun lieto fine.

Andrebbero entrambi riletti, il romanzo di Manzoni e il discorso di Leopardi, insieme agli scritti storico-politici di Piero Gobetti, che interpretò il fascismo – per riassumerlo con la sua celebre formula – come l’autobiografia della nazione. Se dovessi molto liberamente, anche attraverso la griglia storica che mi viene dai miei studi, intrecciarli insieme tutti e tre (anzi tutti e quattro, con Carlo Levi), direi: l’Italia, arroccandosi  sulla Controriforma, o meglio, non essendo neanche sfiorata dalla Riforma – una Controriforma senza Riforma insomma! – è rimasta più o meno impermeabile alla modernità, immatura, strutturalmente dominata dall’ideologia piccolo-borghese, caratterizzandosi con una mancanza di autonomia, di vita libera, o più semplicemente di società autentica, nel senso del vivere insieme, anche per via di una disposizione (nel senso collettivo della polis, del vivere insieme) alla servitù volontaria e al cinismo, all’indifferenza per il bene comune – il che significa anche la preminenza del senso comico rispetto a quello civico – al quale sempre si preferiscono le diverse forme di famiglia… In questa direzione, il fascismo è una malattia soggiacente, cronica, una vocazione culturale prima ancora che politica, che come l’araba fenice sempre può rinascere dalle sue ceneri. E l’antifascismo la cura, l’antidoto – anch’esso per fortuna appartenente alla storia italiana! – l’unica possibilità di riscatto…

Va quindi considerato un secondo elemento, più drammaticamente concreto e squisitamente storico, nel senso della storia più vicina, breve. La Resistenza, che ha appunto permesso di riscattare la vergogna del Ventennio, ha di fatto, soprattutto ai suoi inizi, mobilitato un’esigua minoranza di italiani in una piccola parte del paese, facendosi più consistente solo dopo l’evidenza della disfatta. In questo senso, guardando indietro nel tempo attraverso quasi ottant’anni di vita nazionale (che in tutto, lo si ricordi, ne conta poco più di centocinquanta), non si può non constatare che questa gloriosa pagina della storia italiana è stata anche la foglia di fico che in qualche modo ha permesso di non vedere, di evitare un reale lavoro di memoria: l’Italia, vuoi per adesione vuoi per indifferenza, era stata globalmente fascista, e il fascismo, i suoi uomini, non si sono evaporati per magia dopo il 1945, ma – anche grazie a consistenti provvedimenti di amnistia – sono materialmente passati dentro gli apparati pubblici, la burocrazia, i luoghi di lavoro della nascente Repubblica italiana – ed è stata un’infiltrazione capillare, profonda. E poi c’è stato il Movimento Sociale Italiano (MSI), fondato da reduci della Repubblica Sociale Italiana e del Regime, Giorgio Almirante in testa, un partito consapevolmente, volutamente fascista, anti-democratico, anche se via via con qualche aggiustamento più di facciata che di sostanza, che costituzionalmente  sarebbe dovuto essere fuorilegge – ricordate? articolo 12 delle disposizioni transitorie e finali:  È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista – e invece è stato sin dall’inizio presente nel Parlamento, nonché dentro la società, più o meno oscuramente legato alle diverse trame nere che hanno avvelenato la vita del paese. Berlusconi ha avuto per così dire il merito di ridare legittimità, forza, blasone a questa destra radicale e a idee, gesti, simboli, che nella Prima Repubblica erano ufficialmente fuori dal cosiddetto arco costituzionale, e di annacquare il termine “fascista”, al suo posto trasformando “comunista” in insulto (i comunisti, lo ricordiamo, ebbero un ruolo fondamentale nella Resistenza, e poi nella scrittura della Costituzione). Quella che un tempo si chiamava maggioranza silenziosa è tornata, e rumorosamente, a parlare, è diventata la spina dorsale del paese. Ed ecco, come a compiere la parabola iniziata nel 1994 con la prima vittoria del Cavaliere, che oggi a vincere le elezioni c’è un partito che se, va ripetuto, non si richiama al Ventennio, si vuole esplicitamente diretto erede, financo in alcuni suoi elementi chiave, del MSI, a cominciare dall’assunzione come suo simbolo rappresentativo dell’infausta fiamma tricolore. Con un sintomatico rovesciamento: se un tempo il partito di Berlusconi ha guidato, come elemento principale, coalizioni di centrodestra in cui rappresentava la destra, oggi fa parte di una coalizione di cui rappresenta, come partitino comprimario, il centro moderato – di conseguenza sarebbe forse più chiaro parlare di coalizione di “estrema destra-destra”. E c’è anche, come emblematica ciliegina sulla torta, il ritorno in senato di Berlusconi in persona, nove anni dopo la sua decadenza per via della legge anti-corruzione detta Severino (che ora la destra a lui più vicina vorrebbe non a caso cambiare nella sostanza).

Insomma, il fascismo del 1922 non è tornato né sta per tornare, ma se questa destra governerà per qualche anno – e non vedo nell’immediato cosa potrebbe impedirglielo – la Repubblica nata dalla Resistenza, l’antifascismo con i suoi simboli, a partire da diversi nomi delle strade, delle piazze, dei ministeri, etc., i libri di testo nelle scuole, la Costituzione, e dietro tutte le battaglie per i diritti civili e sociali, saranno (già lo sono) oggetto di un attacco costante, e senza precedenti: anche se probabilmente tale attacco, considerando la notevole intelligenza politica e retorica di chi questa destra la dirige, non si farà in modo lineare e frontale, ma come dire, dal di dentro, localmente (i segni già si moltiplicano…) sotto la spinta di una subdola e questa sì senza mezzi termini riscrittura della Storia: cambiare il passato per regnare sul presente – il discorso di insediamente del(la) neo-nominat(a) Presidente del Consiglio è in questa prospettiva esemplare. L’Italia in altri termini non si avvia – probabilmente – a essere fascista, ma si avvia decisamente a non essere più antifascista, risvegliando valori, parole, gesti, simboli evidentemente soltanto sopiti, in totale antitesi con quelli che nei cinquant’anni successivi alla guerra hanno fatto, socialmente, civilmente, culturalmente, la forza di un paese avido di futuro, e sino a qualche anno fa ancora avvolti dalla vergogna. Il mutamento è epocale, antropologico, ben più che politico – si provi a immaginare, secondo scenari ovviamente molto diversi, se la Francia si svincolasse dalla Rivoluzione del 1789, o la Germania dalla pregiudiziale anti-nazista, o ancora gli Stati Uniti dichiarassero che la lotta al razzismo non ha più senso… – e come tale non è certo istantaneo, matura da tempo. Di fatto, quelle parole, quei gesti, simboli e valori circolano già da diversi anni, diventando più forti, più banali a ogni giro di calendario, e rivelandosi anche nei più piccoli dettagli: le esternazioni di un barista romano o palermitano, i malumori della gente al mercato, o in qualche luogo di lavoro, con ricche variazioni di esterofobia, gli scambi, le chiacchiere ad alta voce di sempre più numerosi turisti nel metro parigino, o in fila per prendere l’aereo che li riporti a casa o per salire al Partenone di Atene (cito a caso ricordando episodi di cui sono stato testimone e che negli anni si sono fatti sempre più frequenti). È come se l’immagine dell’italiano medio stesse cambiando colore – la leggendaria bonomia lascia gradualmente il posto a un livoroso incattivimento… – e il paese si isolasse sempre di più, si avvitasse su se stesso: nel senso di quell’autobiografia della nazione di cui dicevo prima. Tuttavia un paese non è mai un paese solo, ma molti: così, mentre la nuova-antica Italia si andava via via risvegliando, l’altra Italia, quella diciamo della Repubblica nata dalla Resistenza, o almeno dei suoi settori più a sinistra, ha via via perso la sua capacità collettiva di resistere, di manifestare il dissenso, di progettare il futuro, sino a cadere in una sorta di rassegnata letargia, se non direttamente a scomparire. Ecco, in questa prospettiva le ultime elezioni sono semplicemente il sigillo, la sentenza che rende ufficiale una situazione già esistente, come anche un’ulteriore, significativa scossa, un poderoso squillo di tromba, le cui conseguenze non sono ancora misurabili.

Questa nuova destra al passo coi tempi (formuletta…) ormai dichiara apertamente di voler cambiare in profondità l’Italia, anzi, la Nazione; molti suoi avversari sdrammatizzano dicendo – è una formula anche questa – non cambierà nulla, come sempre! E da un certo punto di vista è vero perché, come scriveva Giuseppe Pontiggia, l’Italia è il paese delle Sabbie immobili – anche nel senso di quel che scriveva nel Gattopardo Lampedusa: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi… Si tratta tuttavia, per così dire, di un’immobilità dinamica e pericolosa, perché riafferma un’antica e radicata prospettiva della storia nazionale. Eh già…: Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta… (O anche appunto, per qualificare questo risveglio con un’epentesi: … s’è destra…)

[Continua…]

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11 Commenti

  1. Avrei tanta voglia di commentare, magari a voce, quanto scrivi. Il quadro di ricostruzione della storia d’Italia è impeccabile, e tuttavia quello che mi colpisce è la descrizione del CARATTERE degli italiani (certo determinato dalla loro storia). Carattere formatosi su secoli di ignoranza e servilismo. Ma è davvero così? Non ho bisogno di ricordarti momenti gloriosi (civiltà comunale, Rinascimento). Questi periodi non hanno lasciato niente al carattere degli italiani? Ma veniamo all’oggi, anzi al nostro secolo. L’impronta che ha lasciato il fascismo è enorme, forse perché è stato purtroppo un movimento di massa – al contrario del Risorgimento ed anche della Resistenza ( che non ha coinvolto tutta la penisola). Uno psicologo potrebbe forse dire che gli italiani, nella loro fase infantile di costruzione del paese, avessero necessità di riconoscersi in un’ ideologia fondatrice propria – e purtroppo la più sbagliata. Esperienza mai veramente elaborata dalle masse che si erano lasciate irretire. Il comunismo, soprattutto nella veste del grande PCI, ha avuto un ruolo importante nell’offrire alla gioventù che usciva dalla disfatta e dalla guerra una prospettiva piena di speranze, non solo il Sol dell’avvenire, ma un ideale forte, oltre il meschino orizzonte patriottico, verso una visione internazionalista per la libertà dei popoli. Ma cosa è successo dopo la “morte” dei grandi partiti-padri? E perché? Ma perché un Renzi ha sfiorato il 40 % (con il PD!), il movimento 5 stelle il 32% (per non dire dei successi berlusconiani)? In pratica, vere e proprie ondate di voti che si spostano tranquillamente da un soggetto all’altro. Anche il successo di Meloni (perché è suo e non del partito!) pare inserirsi in quel cinico modo di pensare che riassumo col ” proviamo anche questa”…. Non credo infatti che vi sia da parte di una buona fetta di coloro che l’hanno votata una reale fiducia. Ritorno dunque al punto di partenza: il carattere degli italiani. Ma è possibile? Non ci posso/voglio credere. Sarebbe appunto come catalogare altri popoli come colonialisti, o antisemiti, o restii alla democrazia (sotto sotto). Aspetto dunque la seconda parte del tuo scritto. Magari trovo la risposta. Un abbraccio

    • Grazie per le tue parole, che mi fanno riflettere, e mi permettono di chiarire, almeno in parte spero, un punto. Hai messo infatti il dito su un qualcosa di nevralgico, e fragile: ero ben cosciente, scrivendo, di quanto una parte del mio discorso confinasse con il fantasma del carattere collettivo. Ora io non credo – e anzi credo che sia un’illusione pericolosa – al CARATTERE di un popolo, di una cultura, di un paese, nel senso di tratti ben definiti che si ripercuoterebbero nei singoli individui: gli italiani sono così, i francesi sono colà etc. Non lo credo per esperienza di vita, direi, ancor prima che per convinzione diciamo teorica (del resto, come lo accennavo, i miei anni in Francia hanno frantumato, o quantomeno reso più complesse, alcune idee “da italiano” sui francesi: sono tristi, presuntuosi, constipés, donneurs de leçons etc.). Non lo credo innanzitutto perché gli individui organizzano i tratti ricevuti culturalmente con itinerari diversi e spesso sorprendenti; e poi perché se esistono alcuni tratti collettivi, ne esistono anche altri, magari minoritari, ma sempre importanti, che a quelli si oppongono. Tuttavia, appunto, quei tratti caratteristici esistono, ed è impressionante constatare quanto, in questo senso, siano attuali Manzoni e ancor di più Leopardi. E penso soprattutto al funzionamento “politico”, nel senso del (non) attaccamento al bene comune, perché artisticamente, poeticamente parlando l’Italia, almeno sino a tempi recenti, ha continuato a dimostrare ingegno, creatività. Questi tratti – come gli altri, come “l’antidoto” – sono il frutto della storia (la svolta sarebbe la Controriforma, “dopo” il Rinascimento…), e poi ovviamente contano, in epoca contemporanea, la scuola, anche la televisione. C’è appunto l’antidoto antifascista, in senso largo, culturale (mi verrebbe da dire “l’eterno antifascismo italiano”): ma con i giovani nati e cresciuti nella culla della televisione e della cultura berlusconiana, e con il vento revisionista che minaccia di soffiare sempre più forte negli anni che ci aspettano, anche attaccandosi alla già disastrata scuola, non mi sembra che ci sia da essere troppo ottimisti. A meno di estendere e aprire il tuo invito a incontrarsi e discutere “di viva voce”, come l’inizio di una resistenza… Dici anche tante altre cose interessanti, ma magari le riprendiamo dopo il seguito.

  2. Grazie per il tuo articolo, che ho letto subito. Mi sembra del tutto credibile, serio, e brillante. Mi sembra che tu esprima un senso di frustrazione ed estraneamento nel quale mi riconosco molto. L’espressione “sabbie immobili” non la conoscevo, ma a Natale sono tornata in Italia e un tassista argentino mi ha detto che l’Italia e’ un frigorifero, non nel senso che fa freddo, ma nel senso che tutto viene conservato com’e’. Tu, naturalmente, spieghi molto piu’ eloquentemente i (non)cambiamenti che serpeggiano sotto la superficie, che rendono tornare a casa, per me, da un punto di vista del tutto personale, sempre pesantissimo.
    Pero’, siccome voglio essere onesta con te, devo dirti che le analisi politiche, che passivamente mi piace leggere, soprattutto se “heartfelt” come le tue, non sono un campo di conoscenza attiva per me, nel senso che non posseggo quel vocabolario, quei termini per articolare i miei pensieri in materia. I riferimenti ed i processi storici, e le connessioni tra questi, in altre parole, non sono il mio forte.
    Pero’ ci penso tanto all’Italia, soprattutto dopo una settimana che mi sono trasferita a Chittagong, in Bangladesh. Terro’ dei corsi per studentesse alla Asian University for Women, soprattutto afgane (40 per cento di un corpo studentesco che proviene anche dal Bangladesh, Bhutan, Timor Est, Napal…), che vengono qui per continuare gli studi. La maggior parte di loro ha il sostegno della famiglia, e viene accompagnata da un tutore richiesto dai talebani per accompagnare le donne afgane all’estero (in altri paesi musulmani). Altre pero’ non hanno questo appoggio familiare, e devono pagare, in diversi modi, un finto parente, arrivando qui traumatizzate.
    Una ragazza si trova in ospedale adesso, incinta, in un paese in cui e’ appena arrivata, e in una citta’ – Chittagong – che al primo impatto, per dimensioni, sporcizia, inquinamento, traffico, e poverta’, e’ terrorizzante – but then again, forse non per una ragazza di Kabul.
    Queste ragazze pagano e rischiano tantissimo per la propria istruzione – non solo per sete di conoscenza, ovviamente, ma anche e soprattutto per avere una possibilita’ di ottenere un lavoro decente – e questo mi responsabilizza, mi commuove, e mi fa soprattutto pensare ai privilegi che pensiamo tutti di sapere, senza davvero conoscerne l’entita.’ Ti prego di continuare a mandarmi i tuoi articoli, mi fara’ specialmente piacere leggerli mentre sono qui. Gia’ quello che mi hai mandato mi ha fatto sentire meno spaesata.
    Grazie ancora e a presto.

    • Grazie, Francesca, grazie per le tue parole, apparentemente semplici, narrative, ma in realtà sapiente disegno di un modo “spaesato” (cioè a cavallo di diversi paesi, lingue, culture) di stare al mondo che allarga vertiginosamente gli angusti confini dell’Italia, e in cui mi riconosco: ti credevo a Taiwan, dove ti ho conosciuto, e invece ho scoperto che eri a Leuven, ti credevo ancora a Leuven, ed eri a Basel, e ora non sei più a Basel, come ricordavo, ma in Bangledesh, con un nuovo progetto pieno di coraggio e umanità. Sentirti, leggerti, mi fa pensare a un universo diasporico, rispetto all’Italia, ma anche impregnato di tante altre culture, dei cari amici dispersi fra Argentina, Cile, Canada, Francia, Spagna, Inghilterra, Australia, Asia, etc. che hanno trasformato la loro italianità in una sorta di invisibile ma robusta trama di complicità…. E poi le parole del tassista argentino (della compagnia “Samarcanda”? perché allora l’ho incontrato anch’io, la filosofia sembra la stessa…) valgono da sole tutta la prima parte del mio articolo.

  3. Le tre piste
    Importanti e interessanti i temi delle tre piste. Piste da percorrere nella giusta direzione sino al traguardo finale. Ma, come quando si percorrono le piste desertiche sahariane o quelle della savana africana, ad uno degli infiniti bivi ed incroci fra piste non segnalate che s’incontrano, non s’imbocchi quella sbagliata, apparentemente uguale a quella giusta, ma che, senza che uno se ne accorga, ti conduce all’altro capo del proprio punto d’arrivo, magari in un cul de sac fatale, analogamente, lungo le ‘tre piste‘… non è il caso di perdere l’orientamento e la “retta via”. Dunque lo chauffeur deve essere esperto sapere dove stanno i quattro punti cardinali, avere i GPS installati ed efficienti … e magari un telefono satellitare a portata di mano … non si sa mai! Per fortuna il nostro driver sembra che conosca la strada …
    Infatti, non si possono che condividere, sostanzialmente, le tre argomentazioni. Bisognerebbe, in effetti, aggiungere un paio di paroline al titolo. «1922-2022: tre piste di riflessione [per cominciare] dopo il voto del 25 settembre in Italia». Perché sono ormai troppe le strade da riparare … occorre fare “manutenzione straordinaria” …
    Sintetiche e disordinate considerazioni:
    1. Il fascismo.
    “L’eterno fascismo italiano”, la tendenza ad essere di destra degli italiani. Che, oggi, non è altro che aspirare ad una certa way of life (no doveri, no tasse, no leggi, no regole, no impedimenti, ‘no nel mio giardino’), che ingloba una particolare interpretazione corporativistica di certi mestieri (tassinari, benzinari, balneari, discotecari, ecc.), che, secondo loro, hanno acquisito, nel corso del tempo, diritti quasi sacri, intoccabili. Come gli abusivi in edilizia! Questi elettori, – scontenti, insoddisfatti della china che ha preso la loro vita, senza futuro e speranza – credo, siano coloro che hanno fatto sì che ci sia un governo di destra-destra. Vogliono che qualcuno gli risolve il loro problema, grave: no lavoro-no soldi-no mangiare-no campare dignitosamente. Questo è! Un bel problemino. Tutti i politici-mercanti propongono, promettono … Promesse, promesse … chiacchiere! Sconfortante: Le persone non imparano niente dalla Storia, non traggono nessuna lezione.
    2. La democrazia.
    È evidente, (nonostante le asserzioni di Norma Rangeri, che francamente mi lasciano interdetto, forse si riferiva alla grossa fetta di elettori che non ha votato) che dal 1994, da quando c’è il Cavaliere, il famigerato Caimano (che mi ricorda tanto il Jocker cattivissimo nemico di Batman) sul palcoscenico, la democrazia ha subito colpi bassi, duri. Lui ha “sdoganato” le destre (Lega e Alleanza Nazionale, o come si chiamavano, non ricordo più). L’entusiasmo popolare che ancora lo ammanta, francamente, mi sembra che faccia a cazzotti con le asserzioni di N. Rangeri: “ … le forze democratiche, progressiste e di sinistra, che sono la maggioranza …”, queste forze sono (siamo?) – come sostiene giustamente l’autore -, ormai apatiche, indifferenti, rassegnate, tristi, depresse, defunte (concludo io). Sfiancate da una sinistra (i partiti) inconcludente, vanitosa e surreale. Vedi l’iter per il congresso del PD. O deludente e superficiale. Vedi la vicenda di Soumahoro. Avevo puntato su di lui per un “riscatto degli ultimi” … delusione infinita.
    3. Lo ius sanguinis e lo ius soli.
    Come evidenzia bene l’autore, si è venuta a creare una situazione sbalorditiva e profondamente iniqua. Tra ignoranza, memoria, mito, purismo e orgoglio italico si stravolge e si ignora la verità del “meticciato”. Che non è una bestemmia. O peggio, vi è una situazione grottesca, per cui, con l’andazzo attuale, “L’Italia non sarà più degli italiani…” e forse c’è pure, sotto sotto, “un complotto basato sulla sostituzione etnica!!!”. Insomma, ci vorrebbero nuovamente dei “padri saggi ri-fondatori” del paese che pensino cose giuste, adeguate all’oggi. Ma non sarà, certo, questo governo. Né quelli all’opposizione … a far qualcosa di sensato.
    4. Altre piste …
    Ma non bisogna dimenticare, però, che vi sono altre piste da percorrere. problemi irrisolti, abbandonati. La “questione meridionale” non se la fila più nessuno: quelli del Sud? S’arrangiassero. Il Servizio Sanitario Nazionale? Non ci sono fondi. E comunque la Sanità sarebbe di competenza delle Regioni, che favoriscono la sanità privata e i favolosi centri d’eccellenza. Il territorio: Inteso non solo come Natura, Ecologia, ‘Climate Change’, ma anche e soprattutto come programmazione-pianificazione e recupero territoriale, sempre a cura delle Regioni? Dimenticato. La scuola? Cos’è? Vi è uno studio di Sabino Cassese (un giovane intellettuale e studioso promettente!), «Amministrare la nazione», Mondadori, che elenca pacatamente tutti i mali italiani. Modernizzazione in ritardo. Stato distante dalla società, paternalistico. Unità incompiuta. Siamo un paese in ritardo, in stallo, nella “palude”. Forse, come sostiene l’autore, bisognerà far qualcosa per resistere, bisognerà cucire una trama di sintonie, bisognerà fare attenzione alle diseguaglianze sociali, … con argomentazioni gentili, giuste, convincenti. Senza propaganda, senza narrazioni affabulatorie. Ci vorrà tempo e pazienza. Ne saremo capaci? Non credo che dagli attuali abitanti della “nazione” possa venir fuori qualcosa di interessante. Bisogna aspettare che altre generazioni maturino… Basteranno per salvare l’Italia dalla depressione e dalla inarrestabile decadenza? Non so.
    Verso la fine della seconda pista l’autore intravede qualche ‘scintilla’ di risveglio fra gli intellettuali (ci sono ancora i maîtres a penser? Perbacco!) e fra la popolazione. Ma subito dopo si avvilisce ripensando alle sue personali esperienze con gli apparati burocratici nazionali, e scrive: «… nella speranza che qualche amico mi dica, mi dimostri, che le eccezioni, le scintille, sono molto più numerose e vivaci e che le buone idee escono fuori dai luoghi del sapere e circolano nella società … credo che sia necessario … riannodare tutti i fili che possano animare un progetto di resistenza e di speranza.». Spero che ci sia per davvero un amico così. E se non c’è, si continuerà con “Resistenza e Speranza”. Mi scuso per la lunghezza poco social. Ma non sono molto social. Firmato “Utopia e Disincanto”.

  4. Grazie “Utopia e disincanto”, non entrerò nei dettagli delle molte cose che scrivi/e, perché s’incrociano sia pur con un altro linguaggio con alcune di quelle dette da me, e finirei per allungare il già troppo lungo “sbrodolone”. Vorrei però almeno riassumerle con una formula: la carenza, la mancanza di una cultura del “bene comune” come “vizio” originario; e (di conseguenza) la necessità di una rivoluzione delle mentalità in tal senso se si vuole uscire dalla palude e la depressione e andare verso la speranza, un progetto. Sono più che d’accordo. E aggiungo solo due piccole cose. L’immagine del deserto mi piace, e mi fa pensare che oltre al rischio di prendere la pista sbagliata, c’è quello ancora più immediato di incagliarsi con una ruota nella sabbia, o che il cammello si sloghi una gamba, e non si possa più avanzare. Quanto al poco social, mi piace anche quello: perché sono nelle discussioni dentro la vita fuori, negli incontri, si potrà (forse!) costruire un’alternativa.

  5. D’accordo! “bene comune” come struttura portante di tutto il sistema “Resistenza e Speranza”. Dunque attivare scuola, cultura, “Memoria”, … Forse ci vuole, anche, uno “Shrink”, bravo e antidepressione …
    Grazie dell’attenzione.

  6. Grazie dell’articolo, che peraltro mi ha ricordato un trattatello del compianto Antonio Tabucchi sull’umorismo degli “italiani”, da cui copio questa lunga e, per certi versi, spassosa citazione.
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    L’Italia è il Paese in cui regna sovrana la battuta di spirito. Ma una battuta di spirito molto diversa dal “mot d’esprit” alla Voltaire o da quello, sovversivo, esercitato da Karl Kraus, o ancora dal Witz freudiano, rivelatore dell’inconscio. Niente di tutto questo.  È una battuta fondata sulla retorica, che consiste nella spiritosaggine o facezia, e che ha la funzione di svuotare il problema del suo contenuto per spostare l’attenzione sulla sua formulazione, a dimostrazione di un’intelligenza brillante che gira a vuoto. Si tratta di un funambulismo verbale che ricorda la “causerie” della corte di Luigi XIV, quella delle Preziose ridicole o delle Furberie di Scapin, per quanto attiene alla Francia, o che evoca, per l’Italia, la maschera di Arlecchino, così tipico della nostra cultura e della Commedia dell’Arte e che, non dimentichiamolo, è servitore di due padroni. Esistono naturalmente parecchi livelli stilistici di questa battuta di spirito, che vanno dalla volgarità travestita da snobismo raffinato all’esercizio freddo di un’intelligenza geometrica passando per la barzelletta goliardica. A ispirare tutto questo è comunque la stessa cosa, il cinismo /…/, una sorta di “fenomenologia dello spirito” di un popolo che, nel corso dei secoli, ha dovuto adattarsi ai padroni più diversi, dai Longobardi agli Angioini, dai Borboni agli Autro-Ungarici e a Napoleone, dai Savoia al fascismo e alla Dc. /…/
    Per quanto riguarda l’ambito del salotto letterario, eventualmente progressista, /…/ tratta con il medesimo tono spumeggiante il problema dei “sans papiers” o degli albanesi, quanto quello dei pedofili o delle torture in Somalia, per poi evocare il trash, il punk, Gucci, gli stilisti italiani o ancora le corde vocali della Callas o dell’ultima cantatrice alla moda, foss’anche calva. Purtroppo per noi tale cronista è convinto di possedere un grande “esprit de finesse”.
    (Antonio Tabucchi, “La gastrite di Platone”, Sellerio, Palermo 1998, pp. 45-47.)

    • Grazie, spero che qualcuno la incontri, questa citazione (come le tre parole della “citante” che l’accompagnano), perché è straordinaria, e sembra la continuazione, in salsa contemporanea… del Leopardi di due secoli fa.

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andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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