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Gaza o del doppio tradimento dell’Occidente

[Questo articolo è apparso in una versione più corta nella rubrica “Il Segnale” de “L’Indice” di ottobre.]

di Andrea Inglese

“La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto coi loro simili e con la realtà che li circonda; perché, insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero.” Così scriveva Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo. Nei settantaquattro anni che ci separano dalla prima edizione nel 1951, in Occidente, e in Europa in particolare, ci siamo persuasi, in virtù di svariate circostanze storiche, dell’inattualità di questa minaccia, anche perché ai nostri occhi essa riguarda una parte di mondo da cui siamo esclusi. Le nostre democrazie hanno sì mostrato, dopo l’euforia dell’ultimo decennio del secolo scorso, fragilità, storture, contraddizioni a volte imbarazzanti, ma in un contesto apparentemente garantito di dibattito critico e di pluralità di posizioni. Sappiamo ora, ne abbiamo le prove, che non è più così. Qualcosa di questo scollamento nei confronti sia dell’esperienza sia del pensiero, sembra riemergere nel discorso pubblico, assieme a un inquietante e tenace diniego di realtà. Il fenomeno è senz’altro profondo e coinvolge varie dimensioni delle nostre società, ma esso ha avuto una sua cristallizzazione evidente nella reazione dell’Occidente “ufficiale” (mediatico e politico) nei confronti di ciò che sta accadendo tra lo stato di Israele e il popolo palestinese.

Prendiamo l’esempio di No Other Land, film di un collettivo di registi palestinesi e israeliani, uscito nel 2024. È stato premiato alle Berlinale e in altri importanti concorsi europei, e ha ottenuto l’Oscar l’anno seguente per il miglior documentario. Nonostante il successo presso gli addetti ai lavori, No Other Land ha provocato la prevedibile censura israeliana, sostenuta proprio dal ministro della cultura. Nemmeno negli Stati Uniti, terra della libertà di espressione, il documentario ha trovato distributori e anche la sua proiezione puntuale ha suscitato polemiche. In Germania, sono invece gli autori stessi, a venire accusati di “antisemitismo” (accusa bipartisan, formulata da un sindaco conservatore e una ministra progressista), in seguito alle dichiarazioni fatte durante la premiazione al Festival del Cinema di Berlino. Di fronte a tali accuse, uno dei registri israeliani, Yuval Abraham, ha risposto così sul “Guardian”: “Essere in Germania come figlio di sopravvissuti all’Olocausto e chiedere un cessate il fuoco, e poi essere etichettato come antisemita, non solo è scandaloso, ma mette letteralmente in pericolo la vita degli ebrei”.

Oltre allo scandalo, si potrebbe parlare di una certa (metodica) illogicità. Il documentario in questione non riguarda Gaza né quello che è accaduto dal 7 ottobre 2023. Si svolge in un villaggio della Cisgiordania tra il 2019 e il 2023. Sostituisce alla formula “territori occupati”, corrente nei discorsi dell’Occidente, alcune sequenze tratte dalla vita quotidiana di famiglie palestinesi alle prese con l’esercito israeliano, con i bulldozer che distruggono le loro case e le loro scuole, con il perito del governo che viene a tagliare le condutture dell’acqua o a far seppellire i pozzi sotto colate di cemento. Si vedono anche le incursioni dei coloni, in genere armati e “accompagnati” dall’esercito”. I Palestinesi sono disarmati, protestano, ricostruiscono come possono le abitazioni distrutte, si rifugiano in grotte accessibili in quell’area geografica. Ogni tanto un soldato o un colono spara, così a bruciapelo, contro qualche palestinese che cerca di respingere vanamente i soldati. Un uomo finisce paralizzato in seguito a un colpo di fucile, un altro muore sul colpo. Per il resto non vi è grande spargimento di sangue, ma una sorta di bullismo su larga scala di una popolazione su di un’altra. Gli uni detengono le armi, i mezzi di controllo e di distruzione, usano le leggi o le dimenticano; gli altri cercano di vivere una vita elementare ma dignitosa, difendendo le loro case, le loro scuole, le loro povere infrastrutture. Se fosse un film di finzione, sarebbe una vicenda distopica a proposito di due specie viventi diverse, in cui la specie tecnologicamente superiore domina incontrastata sull’altra. In questa logica perfettamente ferrea e disperante, emerge però un’anomalia. Qualcosa che non fa tornare i conti: tra coloro che documentano l’accanimento sadico o burocraticamente impassibile, c’è chi fa parte degli occupanti, della società che ha il coltello dalla parte del manico. Nella compartimentazione stagna tra carnefici e vittime, che permette il perpetrarsi del sopruso, vi sono zone incontrollate, in cui si stabiliscono solidarietà difficili, strane, ma impreviste e pericolose. Un israeliano, Yuval Abraham, non sta al gioco politico della potenza occupante: attraversa ogni giorno i due mondi, per fare sì che si sappia in Israele quello che accade in Cisgiordania, nonostante il silenzio dei media “ufficiali”. Per i palestinesi, è un alleato degno di ospitalità, ma il cui supporto pare risibile. Per gli israeliani, invece, nel caso migliore è un giornalista militante, che tratta argomenti d’interesse per una piccola minoranza, nel caso peggiore è un traditore della patria.

Una riflessione ampia su quanto è accaduto e accada a Gaza, la troviamo invece in un libro Feltrinelli uscito a giugno del 2025: Un giorno tutti diranno di essere stati contro, di Omar El Akkad. L’obiettivo del saggio, in realtà, come dichiara lo stesso autore, “non è il resoconto di quella carneficina”, ma piuttosto l’indagine su quello scollamento tra pensiero ed esperienza, che Arendt vedeva come tratto specifico dell’universo totalitario e che oggi s’insinua nel modo in cui il pubblico occidentale percepisce e comprende la carneficina dei gazawi. In questione, nel libro di El Akkad, non è una guerra, tra le tante che emergono in quest’epoca di caos sistemico, né una catastrofe umanitaria ulteriore, rispetto a quelle che già colpiscono diverse aree del mondo: in questione è il primo genocidio del XXI secolo, ossia la reazione militare israeliana contro Gaza, all’indomani della strage di civili compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023. Questa reazione militare ha perso quasi subito le caratteristiche di una guerra asimmetrica contro miliziani nemici, per rivelarsi un’impresa di distruzione sistematica della popolazione civile e del suo territorio densamente abitato. Lo scenario si è ulteriormente aggravato, poiché Israele ha intenzionalmente provocato una carestia nella Striscia, dapprima colpendo i mezzi di sussistenza gazawi (sistema agricolo e industria ittica) e, in seguito, realizzando il blocco degli aiuti internazionali (cibo, medicine, carburante). Sappiamo quante resistenze ha suscitato e suscita l’uso del termine che designa il supremo e più ignobile crimine che gli uomini possono compiere su altri uomini. Ma secondo l’autore, dietro la controversia terminologica, complicata dalla memoria della Shoa e degli altri genocidi, è una soglia epocale quella a cui siamo tutti confrontati: le democrazie liberali d’occidente, e quelle che con esse s’identificano come Israele, non si sentono più limitate dalle loro contraddizioni, dal loro agire secondo due pesi e due misure, e rivendicano platealmente la necessità della guerra fuorilegge, in dispregio di quelle norme e convenzioni internazionali che, dal dopoguerra, avevano fondato il programma di un ordine mondiale non basato esclusivamente sui rapporti di forza. Come i partiti e le correnti di estrema destra, all’interno delle nazioni occidentali, prendono a bersaglio le costituzioni democratiche e antifasciste, così, a livello internazionale, assistiamo agli attacchi da parte di Stati Uniti e Israele dell’ONU, delle sue diverse agenzie e di tutte quelle ONG, che per decenni hanno costituito il fiore all’occhiello dei regimi democratici. È di questo, in definitiva, che ci parla Omar El Akkad. Anche se il massacro dei bambini, delle donne, dei dottori, dei giornalisti di Gaza, non ci riguarda, perché non si tratta di gente come noi (bianchi, europei, relativamente ricchi, laici, ecc.), quel massacro distrugge puramente e semplicemente la nostra identità morale, ossia distrugge il nostro orizzonte di valori.

Di questo “orizzonte di valori”, El Akkad ne sa qualcosa, in quanto egli non ne è semplicemente erede, come ogni buon nordamericano o europeo. Egiziano di nascita, cresciuto in Qatar, emigrato in Canada, e residente, ora, negli Stati Uniti, El Akkad ha scelto, come molti individui provenienti dal Sud del mondo, di fare propri questi valori, pagando l’inevitabile prezzo di uno sradicamento, di una parziale rinuncia nei confronti della propria cultura d’origine. Lo racconta apertamente nel suo libro: “Volevo quell’altrove, quella parte del mondo in cui credevo esistesse un tipo di libertà fondamentale. La libertà di diventare qualcosa di meglio, la libertà che deriva dall’essere trattati in modo equo nel rispetto dell’ordine pubblico e delle norme sociali”. In lui non c’è nostalgia nei confronti né dell’Egitto né del Qatar, paesi in cui ha toccato con mano la crudeltà e l’arbitrio del potere. Nello stesso tempo, è consapevole di far parte della storia di quei colonizzati che, per offrire ai propri figli un futuro migliore, hanno accettato linguaggio e forme di vita dei colonizzatori: “Questa è la lingua che parlano, queste sono le usanze che praticano, e, se vogliamo che i nostri figli abbiano qualche possibilità qui, devono conoscerle alla perfezione, altrimenti saranno condannati a una vita da niente”.

El Akkad è giornalista e romanziere, e ha iniziato la sua carriera di reporter di guerra, nel momento in cui gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, lanciavano la loro campagna contro il “terrore”. È stato in Afghanistan e a Guantánamo: ha potuto essere testimone diretto, quindi, delle atrocità e ingiustizie commesse in nome dei valori occidentali di libertà e democrazia, così come, da professionista del quarto potere, ha assistito alla perversione del discorso pubblico, sottoposto ai precetti, ben introiettati, della propaganda occidentale: mezze verità, eufemismi, contesti lacunosi, accomodamento dei “fatti”. “Sapevo bene che c’erano crepe profonde, terrificanti nelle fondamenta di quella cosa chiamata mondo libero. Eppure, credevo che le crepe potessero essere riparate”, scrive El Akkad. Dopo l’autunno del 2023, è risultato chiaro a lui, come a un’ampia parte della popolazione mondiale, che il sogno democratico-liberale si è infranto irrimediabilmente in mezzo ai cadaveri e alle macerie di Gaza. Non è un perseverante marxista, che lo scrive, o qualche adepto del pensiero critico, che da sempre guarda con sospetto le “proprie” istituzioni liberali. Non è nemmeno un ingenuo studente rivoluzionario, che crede ancora alla possibilità di un altro mondo. Per questo motivo, lo sguardo di EL Akkad ha una profondità di campo, che nessun bianco occidentale possiede. Una profondità che nasce, dall’aver subito un doppio tradimento. Come ognuno di noi, educati a scuola all’importanza del ragionamento autonomo e critico, alla scrupolosa oggettività del pensiero scientifico, all’ammirazione della resistenza alla tirannia, all’apprendimento del “Mai più!” attraverso gli orrori delle storia, come ognuno di noi, insomma, figli delle democrazie occidentali, anche El Akkad, cittadino egiziano-canadese, è stato tradito. Tradito da tutti quegli atti politici, diplomatici, economici, giornalistici, che negano, nella società degli adulti, ciò che quella stessa società ha trasmesso per anni alla propria gioventù come principi e valori irrinunciabili. Ma il figlio di immigrati egiziani EL Akkad è stato tradito una seconda volta: egli infatti portava con sé il peccato originale di essere un arabo dalla pelle scura, un non-occidentale. Per questa ragione gli è stato detto: rinuncia a quello che sei, perché non vale nulla, e diventa come uno di noi. Noi non abbiamo nulla a che fare né con la barbarie, né con la viltà che tace davanti a essa. E il giornalista, romanziere, egiziano-canadese ha voluto crederci, nonostante la guerra in Afghanistan e le prigioni a Guantánamo, fino all’autunno del 2023. Poi è iniziata la distruzione di Gaza e il massacro sistematico dei gazawi.

3 Commenti

  1. Creare quello strappo tra esperienza e pensiero non è un lavoro da poco, anche se forse è più semplice che starlo a ricucire, evidentemente. Continuamente le ‘voci di popolo’ (non solo quelle già parlate dall’ideologia, ma pure quelle create ad arte dagli agitatori di turno, dagli avvelenatori di pozzi e dai bot) dicono e scrivono che la Palestina non ci riguarda, non possiamo capire, ci abbiamo da pensare ai problemi nostri, degli europei, italiani, lombardi, romani, pensioni, sanità, disoccupati ecc. E invece bisogna attraversarli questi confini immaginari, diventare traditori del ‘buon senso’, e scoperchiare i tradimenti reali (all’integrità morale, ai valori universali, alle costituzioni democratiche, allo stato liberale, ai diritti, ecc.) La forza genocidaria e quella che ti dice cosa puoi o non puoi essere e diventare sono molto più vicine di quanto si creda.

  2. Siamo d’accordo che ci riguarda, Renata, e uno come Omar El Akkad ci dà la prova del nove. Lui infatti ha appreso certi valori, che gli son stati “imposti” come i nostri, cioè quelli davvero civili. La gente pensa che la società si riduca solo a le pensioni, o meglio pensa che le pensioni esistano in un vuoto pneumatico, ma dietro l’istituzione della pensione c’è un principio di ridistrubuzione che si basa su un sistema di valori. E alla radice di sistemi di valori che danno vita alle istituzioni che quotidianamente tanto ci preoccuoano c’è anche quello dell’inestimabile valore della vita umana. Che la vita umana ha un valore, e che questo valore non va e viene come un titolo in borsa o secondo gli umori del partito al governo. Fate saltare alla radice il nostro sistema di valori, mostrate giornalmente che non conta un cazzo, e poi vediamo quanto dobbiamo aspettare perché tutto il resto, a valle, non conti pure un cazzo, come la pensione garantita a chi ha lavorato tutta un’esistenza. E’ strano: c’è gente che lo capisce al volo: se puoi fare ai palestinesi quello che fanno gli israeliani oggi, e in più sostieni che è tutto ok, che non c’è un problema serio, allora davvero vale tutto. E la cosa finirà per toccarmi, perché laggiù gli israeliani fanno quello che fanno “anche” perché hanno l’appoggio di gente, poteri, industrie, università, politici di qui, di casa mia.Gente per cui domani io potrei essere il loro “palestinese”.

  3. Il popolo palestinese come spettro, ossia un popolo senza stato, quindi un popolo senza diritti umani. (Arendt: solo i cittadini di uno stato possiedono dei diritti umani. Marx: solo la classe dominante possiede appieno questi diritti. Carla Lonzi: i diritti dell’uomo sono i diritti degli uomini, e non delle donne.) E’ una delle metafore ricorrenti in Mahmoud Darwich ed è, in quanto metafora, ambigua, ambivalente: lo Stato di Israele vuole la scomparsa simbolica del popolo palestinese, ossia il suo oblio agli occhi del mondo, della cosidetta opinione pubblica internazionale, ma questa scomparsa simbolica necessita un lavoro continuo per silenziare con la violenza dell’occupazione e dell’estensione di quest’ultima la voce reale del popolo senza stato. Questa violenza ha alla fine assunto, nelle circostanze storiche che conosciamo, l’ampiezza e la radicalità di uno sterminio di popolo. E di questo popolo residuale, oggi, ci si vuole dimenticare, qui da noi, in Europa, in Occidente. Non si è voluto difenderlo, non si è voluto soccorerlo, si è perfino voluto dare supporto ai suoi carnefici. E’ una storia orribile, che tutti hanno voglia di dilenticare. E spettro sia! Ma lo spettro, ricordava Darwich, tormenta il carnefice: lo spettro non è mai completamente invisibile, né silenzioso. Quello che possiamo fare da qui è dare carne, sangue, voce allo spettro. Ma perché noi stessi ormai ne siamo abitati. Quell’orrore abita anche le nostre giornate più serene. E’ un orrore che pure noi che siamo stati in piazza, che abbiamo scritto, che abbiamo boicottato, vorremmo dimenticare. Anche noi cerchiamo di dimenticarlo. Ma non possiamo: esso riguarda il popolo palestinese, lo spettro emblematico della violenza storica, della violenza fascista oggi, ma in esso va riconosciuto lo spettro delle donne, uccise nella porta accanto, dei bambini, i più disarmati e più facilmente colpiti, degli sfruttati (che lavorano in luoghi che non vediamo e in condizioni che non conosciamo), di coloro che non hanno cittadinanza o non ha la buona cittadinanza. La violenza degli stati esiste perché ci sono uomini che prestano la loro capacità di violenza alle istituzioni, e le istituzioni reciprocamente premiano questi prestatori di violenza. E’ un incubo. Il fascismo è un incubo. E noi vogliamo vivere, non lasciarci terrorizzare. Ma dobiamo dedicargli un parte delle nostre forze, perché la sua carneficina non diventi normale, non diventi l’unico orizzonte che le generazioni future conoscono. Lo spettro del genocidio palestinese lo abbiamo incorporato, comunque vadano le cose fra cinque o dieci anni in Palestina, e ognuno se lo porterà dietro fino al suo ultimo giorno, assieme alle violenze della porta accanto, che non ha finto di ignorare.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023 (Premio Pagliarani 2024). Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Storie di un secolo ulteriore, DeriveApprodi, 2024. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato i volumi collettivi Teoria & poesia, Biblion, 2018 e Maestri Contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, Biblion, 2024. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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