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PICCOLA NOTA

di Antonio Moresco

leopardi.jpgNel dibattito in corso su editoria, “letteratura popolare”, best seller ecc. (che ha preso le mosse dall’articolo di Carla Benedetti sull’Espresso) emergono continuamente -oltre alle immancabili semplificazioni e caricaturalizzazioni infamanti- anche alcuni luoghi comuni e assiomi dati per scontati e anzi usati come capisaldi da cui far partire le critiche e sferrare gli attacchi.
Vorrei introdurre una piccola riflessione almeno su due di essi.

Gramsci. Il suo nome è stato utilizzato come incontestabile auctoritas e tirato in ballo strumentalmente per difendere lo status quo presente e l’alluvionale produzione libraria preconfezionata che ha poco o nulla a che vedere con quella cosa chiamata un tempo “letteratura popolare” e su cui Gramsci, dal fondo della sua prigione, ha impegnato a lungo la sua intelligenza e la sua osservazione.

A me pare che Gramsci sia una persona meravigliosa. I suoi Quaderni dal carcere -che ho letto un paio di anni fa per intero- sono pieni di riflessioni e intuizioni preziose e sono anche un esempio straordinario di pazienza e indomabilità e resistenza. Ma questo non vuol dire che ogni cosa che ha scritto sia da prendere a scatola chiusa come verità incontestabile e che non si possa e debba guardarci dentro senza pregiudizi. Perché vi si trovano non poche posizioni che mi paiono legate a strutture mentali e interpretative ideologiche e politico-culturali che a me paiono inutilizzabili e non condivisibili, e anzi tutte interne a consuetudini di pensiero che hanno contrassegnato la vita dei gruppi culturali e intellettuali italiani nel corso del tempo (e questo proprio mentre si credeva di voler assegnare un altro e diverso ruolo agli “intellettuali”).

Tutto questo non diminuisce in me la stima e l’affetto per Gramsci. Ma non posso considerare le sue parole e le sue analisi come dogmi, tanto più alla luce di quanto è successo dopo la sua morte e che sta succedendo adesso nel nostro paese e nel nostro pianeta.

Il concetto di “popolo”, ad esempio, è improponibile oggi viste le radicali trasformazioni che sono avvenute e sono state operate nel tessuto stesso della società e delle sue aggregazioni dalle potenti macchine economiche, militari, tecnologiche, politico-pubblicitarie e mediatiche configuranti. E quindi anche, di conseguenza, la nozione di “letteratura popolare”, espressione un tempo di forze che, salendo prepotentemente dal basso e dai bisogni di altre e più profonde ed estese e antimateriche zone della società, potevano portare, in modo ineducato, irruente e nonostante a volte l’uso di calchi letterari riciclati e la mancanza di radicalità e profondità, un senso di libertà e vitalità e allargamento degli orizzonti nei territori spesso asfittici e autoreferenziali della “letteratura”, tenuta in ostaggio dai letterati cerimonieri e dai loro apriporte. Tutte possibilità che, naturalmente, possono sempre verificarsi e a volte si verificano anche oggi (cosa che nessuno si è mai sognato di negare!). Voci spesso costrette e soffocate a loro volta nelle loro potenzialità di espansione dalle stesse grandi macchine editoriali schiacciasassi dentro cui si trovano.

Ma l’idea gramsciana di “cultura” e “letteratura” è, a mio parere, fortemente influenzata dalle logiche filosofiche e politico-culturali del suo tempo e degli stessi intellettuali “borghesi” che, in altri campi, Gramsci si proponeva invece di combattere politicamente. A proposito di Baudelaire, per esempio, Gramsci si interroga se è stato il suo distacco dal movimento operaio a determinare la sua nevrastenia o se non è stata piuttosto la sua nevrastenia a determinare il suo distacco dal movimento operaio. Quanto a Leopardi (l’altro “grande gobbo” italiano), i numerosi interventi di Gramsci su di lui rivelano purtroppo un’incomprensione continua del suo pensiero, della sua opera e della sua intransigenza, e anche un fondo di idealismo e moderatismo che tende a respingere posizioni forti e radicali percepite come “irrazionali”, eccessive, fughe in avanti. Mentre invece, molto spesso, sono state proprio alcune di queste a farci capire e vedere e sentire cosa stava veramente accadendo e cosa era in generazione nei singoli individui e nella pancia del mondo. Cosa che stupisce in una figura che si è posta come “rivoluzionaria” sul piano storico-politico e della “verità”.

Ad esempio:

“Si è affermato che l’ufficio di queste grandi figure (i “geni nazionali”) è quello d’insegnare come filosofi quello che dobbiamo credere, come poeti quello che dobbiamo intuire (sentire), come uomini quello che dobbiamo fare. Ma quanti possono rientrare in quella definizione? Non Dante, per la sua lontananza nel tempo, e per il periodo che esprime, il passaggio del Medioevo all’età moderna. Solo Goethe è sempre di una certa attualità, perché egli esprime in forma serena e classica ciò che nel Leopardi, per esempio, è ancora torbido romanticismo: la fiducia nell’attività creatrice dell’uomo, in una natura vista non come nemica e antagonista, ma come una forza da conoscere e dominare…”

Oppure:

“Come è nata l’idea del progresso? Rappresenta questa nascita un fatto culturale fondamentale, tale da fare epoca? Pare di sì. La nascita e lo sviluppo dell’idea di progresso corrisponde alla coscienza diffusa che è stato raggiunto un certo rapporto tra la società e la natura (incluso nel concetto di natura quello di caso e di “irrazionalità”) tale per cui gli uomini, nel loro complesso, sono più sicuri del loro avvenire, possono concepire “razionalmente” dei piani complessivi della loro vita. Per combattere l’idea di progresso il Leopardi deve ricorrere alle eruzioni vulcaniche, cioè a quei fenomeni naturali che sono ancora “irresistibili” e senza rimedio. Ma nel passato c’erano ben più numerose forze irresistibili: carestie, epidemie, ecc che entro certi limiti sono state dominate. Che il progresso sia stata un’ideologia democratica è indubbio; che abbia servito politicamente alla formazione dei moderni Stati costituzionali ecc pure. Che oggi non sia più in auge, anche; ma in che senso? Non in quello che si sia perduta la fede nella possibilità di dominare razionalmente la natura e il caso, ma in senso “democratico”; cioè che i “portatori” ufficiali del progresso sono diventati incapaci di questo dominio, perché hanno suscitato forze distruttive attuali altrettanto pericolose e angosciose di quelle del passato (ormai dimenticate “socialmente” se non da tutti gli elementi sociali, perché i contadini continuano a non comprendere il “progresso”, cioè credono di essere, e sono ancora troppo in balia delle forze naturali e del caso, conservano quindi una mentalità “magica”, medievale, “religiosa”) come le “crisi”, la disoccupazione ecc. La crisi dell’idea di progresso non è quindi crisi dell’idea stessa, ma crisi dei portatori di essa idea, che sono diventati “natura” da dominare essi stessi. Gli assalti all’idea di progresso, in questa situazione, sono molto interessati e tendenziosi.”

Brano del tutto illuminante, anche come riflessione sull’esito delle rivoluzioni politiche del Novecento e sulla loro subalternità ideologica intima con le ideologie delle classi dominanti, e sul tragico passaggio di mano delle stesse consolatorie e antropocentriche e “sovrastrutturalistiche” macchine teoriche ed ideologico-pratiche di dominio, tutte interne alla modernità e ai suoi miti mentre credevano invece di essere l’ultima parola della razionalità classica e del “progresso” contro la nebbia irrazionale dei miti.

Trascrivo ancora un ultimo brano. Qui Gramsci opera una divisione netta, ancora una volta idealistica e culturalistica, tra “contenutisti” (“portatori di una nuova cultura, di un nuovo contenuto”) e “calligrafi” (“portatori di un vecchio o diverso contenuto, di una vecchia o diversa cultura” – dei quali farebbe parte anche Leopardi!):

“Il problema quindi è di storicità dell’arte, di “storicità e perpetuità” nel tempo stesso (…).
“Così il Leopardi si può dire il poeta della disperazione portata in certi spiriti dal sensismo settecentesco, a cui in Italia non corrispondeva lo sviluppo di forze e lotte materiali e politiche caratteristico dei paesi in cui il sensismo era forma culturale organica. Quando nel paese arretrato, le forze civili corrispondenti alla forma culturale si affermano ed espandono, è certo che esse non possono creare una nuova originale letteratura, non solo, ma anzi (è naturale) che ci sia un “calligrafismo” cioè, in realtà, uno scetticismo diffuso e generico per ogni “contenuto” passionale serio e profondo. Pertanto il “calligrafismo” sarà la letteratura organica di tali complessi nazionali, che come Lao-tse, nascono già vecchi di ottanta anni, senza freschezza e spontaneità di sentimento, in cui la rozzezza iniziale delle passioni è quella delle “estati di San Martino”, di un vecchio voronovizzato, non di una virilità o maschilità irrompente, ecc…”

Quante di queste artificiali e insiemistiche e ideologiche separazioni sono ancora fatte proprie e riciclate stancamente, meccanicamente e a scatola chiusa ancora oggi dai nostri “intellettuali”, persino nella situazione storico politica e di specie cui siamo di fronte!

Ma se in Italia c’è stato uno scollamento tra “intellettuali” e scrittori e vita delle maggioranze che prima si potevano chiamare “popolo” (e che oggi comunque non esistono più in quella forma aggregante – e che d’altronde lamentava anche Dostoevskij in Russia), c’è stato anche uno scollamento altrettanto grave tra gruppi intellettuali comunque collocati e ideologizzati e vera radicalità in grado di suscitare movimento reale e profondo e discontinuità e strappo forte, come tutta la nostra storia -tranne rari picchi e eccezioni- è lì a dimostrare.

C’è poi un’altra piccola cosa da dire.

Sembra, da molti degli interventi che si sono susseguiti in queste settimane, che se una cosa esiste ed è dominante e assume i caratteri dello status quo non può che essere in qualche modo accettabile, se non buona. L’unico atteggiamento ragionevole, maturo e sociale è uniformarsi o perlomeno porsi con essa in dialogo costruttivo. Invece si può anche fare diversamente, non uniformarsi, non entrare in dialogo costruttivo, dire di no, anche se ciò che ci sta di fronte è o appare infinitamente più potente di noi. Si può anche dissentire, disobbedire, pensare diversamente, comportarsi diversamente. Si può anche essere non organici, “antisociali”, inattuali, se la “società” in cui siamo immersi ci fa orrore, tenere aperta la nostra ferita, acceso il fuoco, continuare a pensare, a sognare che anche all’interno di questa stessa società e questo orrore e persino dei singoli che ne fanno parte ci sia in qualche remoto punto della loro persona un’eguale ferita e uno stesso fuoco, che in nessun altro modo noi possiamo sperare o sognare di raggiungere se non mostrando in modo indifeso la nostra stessa ferita e il nostro sogno.

In ogni epoca le forze dominanti deformano, ridicolizzano e caricaturalizzano le posizioni di dissenso, e c’è sempre un intero campionario culturale buono a tutti gli usi per farlo in modo diverso e ustionante ogni volta. Per mettere al bando ciò che si muove diversamente, con argomenti costrittivi mentali e ostracismi, quando va bene, con la soppressione fisica e i roghi quando va male. Agivano così i satrapi antichi, gli imperi, le strutture istituzionali fondate sulle religioni e le forme di dominio politico-ideologiche diversamente totalitarie che si sono susseguite attraverso il nostro piccolo tempo, da quando l’homo sapiens ha cancellato non si sa come quello di Neanderthal. Anche adesso, in forme e modi diversi e interni alle caratteristiche di questa epoca e di questo dominio nazionale e internazionale, succede questo. Se tu non ti conformi, non accetti, ti saltano addosso. Se non accetti di ballare l’unica musica che viene suonata -e che altri invece accettano di ballare- ci sono già pronte nel bazar linguistico culturale mille etichette riciclate, scagliate non tanto dai suonatori (che in genere stanno zitti e parlano con i fatti) ma soprattutto e con maggiore virulenza proprio dai ballerini.

Ma si può lo stesso, a dispetto di tutto, continuare a dire di no, a dissentire, a pensare diversamente, a fare diversamente. Si vincerà? Si perderà? Chi lo sa! Non si può mai sapere. Ma poi, cosa importa?

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9 Commenti

  1. Mi fa piacere che si sollevi qui la questione di ‘popolo’, che ho cercato di affrontare nel blog di Loredana. Wu Ming ha risposto – inoppugnabilmente – che un conto è parlare di folk, altro è parlare di pop (che in italiano, potrebbe essere tradotto con: spiriforme). Mi pare che qui si faccia un passo avanti: quale consistenza eversiva, quale ‘spirito di utopia’ c’è nella pratica pop? E poi: c’è una possibilità di sfuggire al ritmo dell’Orchestra Assoluta? Questa possiblità sarà pure perdente: ma cosa importa, dice Moresco? Non è forse questo ciò che Krsna insegnava ad Arjuna, ovvero non essere attaccato ai frutti delle proprie azioni? Non è ciò che intende anche il Filosofo-che-viene, e la sua comunità terribile, quando parla del gesto come mezzo senza fine?

  2. Sacrosante verità, caro Moresco, su tutta la linea. Tranne una interruzione, non so in quale punto della linea, però.

    Qua, il vuoto: il concetto di “torbido romanticismo”. Volevo spiegasse lei, con sue parole, meglio, la questione.

    Non vedere la natura come nemica e antagonista, ma come una forza da conoscere: è questo che “fa” un classico. Gramsci c’azzecca, secondo me.
    Un limite è, credo, la non risoluzione del “torbido”, quando il torbido ammorba lo stato estatico. Quando il pensiero continua a condannare, a far precipitare, quando si ostina a dare impulsi. Questo è quello che fa una mente duale, occidentale al sommo grado.
    Come dire che manca di “illuminazione”. Ad un “classico”, si richiede, appunto, l'”illuminazione”. E le cose cambiano.

  3. Condivido parecchio di quanto scritto da Moresco.
    A proposito di Gramsci mi piace citare la lettura comparativa con il Wu wei taoista in East & West, di Giangiorgio Pasqualotto, Marsilio Ed.

  4. le forme di rifiuto, di estraneità, di distanza di cui parla Moresco sono per altro vere e proprie “forme” della sensibilità e del pensiero, metodi di ottundimento di canali troppo sollecitati dall’ambiente ideologico circostante, affinché si rendano ricettivi altri canali, affinché si formino altre, impreviste, categorie mentali, altri arti e organi, antenne e proboscidi, per suggere e captare non solo i piatti messi nel menu del giorno, ma anche pietanze abnormi e remote…

  5. In quante a cose remote consiglio lettura e rilettura di Noi Vivi di Ayn Rand; La Facoltà Di Cose Inutili di Jurij Dombrovskij; Minuetto all’inferno di Elemire Zolla, riedito da Aragno.
    Tra le cose abnormi: Un arcobaleno perfettamente normale del grandissimo poeta Les Murray (da mandare a memoria per lasciarlo allignare)

  6. contento di avere aperto il sito per leggere la tua riflessione, caro moresco. sono del tutto d’accordo con te. avevo espresso a caldo la mia impaziente avversione per quel tipo di semplificazioni non innocenti in un interventoi che pubblicato nel suo blog loredana lipperini. mi fa piacere se lo leggi (ma era scritto in fretta e con brusa povertà). mi pare siamo mossi, però, dagli stessi motivi. un caro saluto, beppe sebaste

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