La coscienza delle cose

di Franz Krauspenhaar

Camminava dopo trent’anni per quelle strade: una vita, pensò attraversando la cortina fumogena dei ricordi che erano balzati d’improvviso da spazi imprevisti e ora fulmineamente rivisti ma molto diversi. Non erano solo gli anni trascorsi, era stato proprio quel lunghissimo assentarsi dal suo primo mondo. Rivide quel piccolo parco, una O di ripida erba nel centro della piazza, attorno rumoreggiavano le auto come trent’anni prima.

Si sedette su una panchina. Là dove era passato da giovane incrociando frotte di bambini scodinzolanti come cani castani a due zampe – e dietro le loro giovani mamme che li raggiungevano e spesso li rimbrottavano con una dolcezza che ora ricordava vagamente erotica- bighellonavano stranieri con le sigarette tra le dita gialle, giovani perdigiorno evasi dalla loro lontana, atavica sfortuna. Dove aveva pulsato guaiolante la vita di quei bambini che chissà adesso dove si trovavano (se lo chiese per un attimo, ma il pensiero si sfrangiò subito altrove) ora pochi uomini silenziosi che parlavano in lingue incomprensibili vagavano con buste della spesa in mano piene di miseri misteri. Decise di alzarsi e andarsene, afferrato da una tristezza che sentì come innata; aveva scordato di colpo di quand’era giovane ed era passato di là con tutt’altro spirito, di essere passato anche con scoppiettante per quanto transitoria felicità da quel piccolo parco accartocciato come le foglie di quell’ottobre.

Trent’anni in Brasile senza nemmeno tornare nella sua città forse erano stati troppi. Come un ergastolano graziato, rivedeva i vecchi luoghi con gli occhi di chi per tutto quel lungo tempo non ha visto il mondo che in un televisore sistemato sopra una mensola in una cella di prigione. Attraversò la piazza, prese lungo il viale e guardò certe case che riconobbe come immutate, mentre altre gli parvero invece totalmente diverse. Trent’anni altrove senza tornare mai, gli pareva assurdo. Aveva voluto chiudere per sempre dietro di sé quella che gli era parsa d’un tratto una gonfiata cella a cielo aperto tra palazzi e strade (era successo qualcosa di grave, tutto quell’amore e poi d’improvviso quell’odio lo avevano solcato e sollevato da terra come una gru di sentimenti esplosi). E così del suo quartiere -e a macchia d’olio della sua città- non ne aveva potuto più, la fuga gli era parsa l’unica scelta possibile. Era fuggito dal suo primo mondo e nel nuovo, sudamericano mondo aveva trovato una sorta di allegra pace, ma soprattutto di narcotico esistenziale, tra palmizi e sabbie bianche di seta lavorata dal sole. Nel Brasile dei suoi vecchi sogni s’era trovato in breve a ridimensionarli: aveva riamato, aveva odiato di nuovo, aveva vissuto la sua seconda vita tra le luci e le ombre di lunghissime sere che si sdraiavano in notti senza tempo.

Il terrore era stato bianco, l’amore rosso acceso, l’odio nero. La tristezza aveva avuto il colore ambiguo delle dita gialle di quegli stranieri che aveva visto ombreggiare le loro sparute figure nel parco. Ora l’uomo era dipinto dentro da un colore indistinguibile, il colore dei ricordi tramati, fittamente intrecciati. Piegò a destra pensando agli amici dell’infanzia: a Bruno, a Guido, ad Alberto. Altri volti gli vennero in mente ma con una minore pressione del ricordo, mentre i tre li vedeva ancora netti, con quegli sguardi brucianti di allora che perduravano intatti come stampati in una quadricromia brillante da locandina di film.

Era tornato per vendere la casa, l’appuntamento col compratore era tra poco, c’era giusto il tempo per fare un giro per il quartiere, entrare in un bar, bere qualcosa. Circa venti minuti, poi si sarebbe immerso tra le carte della compravendita, si conosceva bene, gli affari sono affari e lui in Brasile aveva imparato a tuffarcisi dentro dimenticando qualsiasi altra cosa. E quella era stata la sua fortuna: avere questa capacità -da giovane del tutto insospettata- di spegnere l’interruttore della mente su tutto e subito dopo riaccenderlo per puntarne la luce in un’unica direzione, quella delle sue faccende di lavoro.

D’un tratto gli parve che dalla scala di un seminterrato stesse salendo Alberto; vide quell’uomo appesantito dagli anni voltarsi verso di lui, si fermò, lo poté guardare dritto in faccia. Aprì la bocca per parlare anche se non era sicuro di averlo riconosciuto, ma gli occhi – quelli sì- gli parevano gli stessi. Ricordava l’amico come un giunco bronzeo sotto a capelli ricci e bruni, e invece quell’uomo era un anziano con una giacca troppo stretta sulle spalle, lo sguardo vagante. Avrebbe potuto fermarlo e chiederglielo. “Sei Alberto? Sei tu il mio migliore amico, quello con cui si giocava a quelli che scappano contro quelli che cercano?” Si: per anni lui e gli altri amici avevano giocato proprio a quel gioco, per ore e ore, così, in quella specie di lotta tra finte guardie e finti ladri, mentre invece i ladri e le guardie vere si davano battaglia sul serio per tutto il rione che tanta gente – ma mai lì – chiamava e avrebbe chiamato ancora malfamato.
Non se la sentì. L’uomo tirò dritto assorto nei suoi pensieri, e lui lo guardò allontanarsi sperando che non fosse Alberto, che fosse un altro.

Fece pensieri strani, in Brasile non si dava la pena di pensare a certe cose; ma lì, nel suo primo brodo, solo, a un quarto d’ora circa dall’appuntamento col compratore del suo appartamento- nel quale aveva vissuto dalla nascita fino a quella fuga di trent’anni prima e che aveva ereditato dai genitori ora defunti, e che gli aveva fruttato una grossa somma in affitti- gli sembrò di aver cambiato cuore e cervello in una volta sola. Se l’uomo che aveva incrociato era stato Alberto questi non aveva avuto alcuna coscienza d’essersi venuto a trovare faccia a faccia con lui, era stato come se non si fossero mai visti. Ma perché lui non l’aveva fermato per chiedergli chi fosse? Perché gliene era mancato il coraggio?

L’umanità è quasi tutta incosciente, ecco il primo pensiero strano che fece camminando verso l’appartamento, dove il compratore forse già lo attendeva. Immaginare cosa vorrebbe dire, viceversa, se l’umanità prendesse davvero coscienza di come stanno le cose… Forse, pensò ancora, non si vuole sapere, non si vuole avere coscienza delle cose, perché ci si immagina sofferenti più di quanto di solito veramente si soffra. Ma i vantaggi sarebbero notevoli, ecco cosa pensò di seguito: potremmo essere più vivi, non saremmo più insensibili, ancora soffriremmo, sì, ma aboliremmo la paura, l’ ansia e il panico dalla nostra vita, accoglieremmo le cose che capitano con il cuore veramente aperto, qualunque cosa questo significhi. Ora dormiamo più o meno tutti – così pensò infine- mentre la sveglia della coscienza ci farebbe vedere Dio in lontananza, che se scoprisse che davvero lo stiamo guardando farebbe veramente lo sforzo di avvicinarsi a noi sempre più, fino quasi a raggiungerci; Dio sarebbe davvero a un passo da noi, e forse noi saremmo più simili a lui perché saremmo diventati i membri di una umanità cosciente.
Mancavano cinque minuti. Venne quasi tramortito da un magone feroce, che lo prese dal petto fino al collo. Era un uomo d’azione, doveva fare qualcosa.
Decise di non andare all’appuntamento col compratore, di non vendere la casa.

(Pubblicato su Club 3 – Ottobre 2005)

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6 Commenti

  1. l’umanità è quasi tutta incosciente. questo è il punto. la gente è incosciente della morte o ha un’idea addomesticata della morte, addomesticata dall’idea che si risorge. e invece a tutti capiterà di morire prima opoi e poi non capiterà più niente per un tempo eterno, non avremo nessun appartamento da vendere, nessun bacio da attendere. la letteratura deve farci riflettere profondamente su questa faccenda, questo è il cuore della letteratura. il resto sono chiacchiere
    arminio

  2. Una specie e sorta di milonga lucida e appassionata, con il giusto ritmo che dovrebbe avere, credo, un breve racconto. Bello, davvero bello nella sua sobrietà di pidori, di memorie, di tempi che si accartocciano nell’anima ed esplodono con il fragore del terremoto interiore. Fare o non fare, scegliere, nel mondo, e ritrovarsi.E perdersi, anche, con la giusta dose di consapevolezza. Grazie, spero di non aver delirato troppo, ma accade, quando la ferita si riapre, con le parole di altri, che fanno da bersaglio.

  3. “…sobrietà di pudori “( ovviamente): con la tastiera, e della cosa ancora mi dolgo, ho la destrezza del pachiderma nella classica cristalleria… Invariato il resto e la riconoscenza, sopra ogni cosa.

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