Tempo e dolore nella società degli uomini

di Stefano Petrocchi

“Lo Scellerato” per l’Accademia degli Scrausi

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I ragazzi sono tornati a scuola, come ogni anno a settembre. Il tempo a una certa età sembra scorrere in modo circolare: cambiano i luoghi delle vacanze, i professori, le materie di studio, eppure tutto riposa su una struttura immobile. Per questo, contrariamente a quanto si pensa, il primo giorno di scuola, la prima sigaretta, il primo bacio sono tanto importanti quanto i secondi. Nessuno potrebbe crescere se non ci fosse la possibilità di una seconda volta – credere in un tempo reversibile è il privilegio e la necessità del non essere adulti.

Per giorni, davanti a una scuola di Milano, sosta un’automobile lussuosa. Arriva al mattino e resta lì finché non terminano le lezioni per una promessa che il proprietario, quasi senza volere, ha fatto a sua figlia: “Oh, io ti aspetto qui – le dico, quando suona la campanella – Fino alle quattro e mezza, quando esci, io non mi muovo da qui”. Prendere le parole alla lettera, ecco un altro privilegio che si perde con l’età. Il proprietario dell’automobile lussuosa è Pietro Paladini, quarantatre anni, padre di una bambina di dieci e “quasi” vedovo, perché la madre di sua figlia è morta poco prima delle nozze. Di lui si racconta in Caos calmo, ultimo romanzo di Sandro Veronesi.

Pietro avrebbe mille ragioni di trattenersi all’esterno di quella scuola, trascurando gli impegni professionali: offrire protezione alla bambina, e risarcimento per la perdita subita, riprogrammare la propria scala di priorità, superare un comprensibile stato di smarrimento… Ma anche per il dolore c’è un tempo ragionevolmente finito – “Perseverare nel tuo ostinato cordoglio è segno di empia testardaggine (…), rivela un proposito che dispiace al Cielo, un cuore debole (…), un’intelligenza rozza e incolta”: parole che non suonano meno vere alle orecchie di Amleto per averle pronunciate l’assassino di suo padre.

Col passare dei giorni e delle settimane la condotta di Pietro appare qualcosa di più di un ripiegamento molto umano su di sé. Proprio mentre i destini della società in cui riveste un ruolo di rilievo si stanno giocando in un complicato processo di fusione con una multinazionale, la sua apatia comincia a destare nei colleghi non più solo commiserazione e sconcerto, ma meraviglia (il frutto di un livello superiore di consapevolezza?) e perfino sospetto (una strategia per sopravvivere nei quadri dell’azienda?).   

Da qualche tempo leggo romanzi di autori italiani (dico scritti da uomini dell’Italia di oggi), i cui protagonisti (dico i personaggi principali maschili) si avviano lentamente verso uno stile di vita antieconomico, in qualche modo (auto)distruttivo se si giudica col metro di valori largamente condivisi quali contribuire attraverso il lavoro al bene comune o nutrire legittime ambizioni personali. Non so se abbia una relazione diretta con tutto questo, ma sono le cose migliori, più vere, che abbia letto da molto tempo a questa parte (Il ritorno a casa di Enrico Metz di Claudio Piersanti, per dirne un’altra).

A ben vedere in Pietro l’elaborazione del lutto accade, se accade, al di qua della coscienza, mentre lui è occupato a interrogarsi su una inspiegabile assenza di dolore accusato. Se c’è una saggezza è in questo abbandono infantile alla propria inermità. Stare lì, magari provare a capirci qualcosa, ma in ogni modo rinunciare a esercitare un controllo su ciò che si muove nelle profondità quiete e caotiche del sé. Confidare nel fatto che – accanto a una chimica artificiale che separa e aggrega entità astratte chiamate companies, macina e espelle forza lavoro, produce la fortuna di pochi e il disagio di molti – c’è una chimica interiore che dispone di noi rimescolando in proporzioni esatte, ma sconosciute, acquisti e perdite.

“Mi scivola via l’anima / e io non la trattengo”, chissà se questi versi di Patrizia Cavalli piacerebbero al proprietario dell’automobile lussuosa. Se servisse a qualcosa la sua non deliberata igiene del lasciarsi andare potremmo forse trarne qualche suggerimento per provare a cambiare le regole della società degli uomini. Ammesso che una cosa bella debba necessariamente servire a qualcosa.

http://caoscrauso.blogspot.com/ 
 

 

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4 Commenti

  1. provo a dire la mia

    … l’uomo non attende la figlia, attende che dalla porta
    di quella scuola esca se stesso.
    una sorta di rinascita – o aspettative di rinascita – ad ampio respiro, attraverso la vita da lui inseminata e accudita.
    poi possiamo pure metterci il riscatto, l’espiazione dei sensi di colpa in relazione ai sentimenti più o meno ben dosati
    e tutti gli altri risvolti psicologici,etici e morali.
    di solito al canonico “nel mezzo del cammin di nostra vita” cioè circa attorno ai quarant’anni, gli esseri umani vanno in stallo e iniziano a giocare ciascuno a rimpiattino con la summa della propria vita.
    ecco perchè tante persone a quell’età cambiano di colpo il loro modo di vivere come se improvvisamente frantumassero lo specchio nel quale fino a oggi si erano guardati magari con compiacimento e soddisfazione.
    spesso si scopre che non si era affatto soddisfatti. sigh!
    discorso un po’ di parte essendo io una quarantenne.
    un saluto al “quasi” vedovo con il quale sento di avere spesse affinità sperando di non incontrarlo a mangiare azuki con le alghe in qualche centro di alimentazione macrobiotica…
    no. perchè potrebbe capitare, eh.

  2. ” Io stesso ero divenuto per me un grosso punto interrogativo, e chiedevo alla mia anima perchè fosse triste, perchè mi tormentasse tanto, e non sapeva rispondermi niente. E se le dicevo “spera in DIO”, giustamente non mi obbediva, perchè era più vero e migliore quell’uomo carissimo che avevo perso, di quel fantasma in cui le ordinavo di sperare.
    Solo il pianto mi era dolce. Ed io continuavo ad essere per me un luogo di infelicità, dove non potevo restare, dal quale non potevo fuggire”.

    b.

  3. “Caos calmo” mi ha confermato quello che pensavo di Veronesi, scoperto con “La forza del passato” e poi letto tutto andando a ritroso fino al primo romanzo. Un grande narratore: mai banale, mai consolatorio, e per niente simpaticamente ironico, non perlomeno alla maniera di cui oggi si fa tanto uso come una marca da bollo con cui convalidare il romanzo impilato tra le novità, ma corrosivo; ridi, sì, ma di quel riso da “non c’è proprio un cazzo da ridere.” Peccato si debba aspettare una media di cinque sei anni tra un suo romanzo e l’altro. Ma tant’è. Per certi scrittori, nell’attesa, se proprio se ne sente la mancanza, si possono sempre andare a rileggere i romanzi già scritti. La rilettura, tante volte, è anche più bella della prima.

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