Il Presidente

di Giorgio Morale
A un tratto cessano le sgranocchiate e i parlottii e gli uffici sono investiti da una folata di moto perpetuo: il Presidente è arrivato. E’ spesso in giro, ha affari in mezza Italia. Dirige quattro associazioni no profit, cooperative, una finanziaria. Alcune sono allineate in quel corridoio, che, più va avanti, più diventa buio.
“Solo io posso fare questo” dice.
Poi precisa.
“Bada: non è megalomania, è realismo. Se posso fare qualcosa per gli altri, e farlo bene, perché non farlo?”.

Chiunque direbbe di lui: che brava persona!
“Benvenuto nel mondo della sfiga” ti dice appena ti vede, “Diamoci del tu, qui siamo tutti amici”.
E ti dà una pacca sulla spalla. Solo Martina gli dà del lei, perché ci tiene al rispetto della gerarchia. Lo chiama “signor Presidente”. Anche lui la rispetta – anzi un po’ la teme. Martina ha la fama di essere l’anima del Centro ed è l’unica che può tenergli testa.
“Il Centro è Martina” si dice.
Ma alla fine anche lei capitola.

E’ simpatico. Piccolo di statura – probabilmente è stato il suo cruccio di gioventù. Ormai l’ha elaborato:
“Sono i piccoletti che fanno la storia” ripete.
E’ un filo a piombo, dalla testa ai piedi. Come se fosse lui a guardarti dall’alto in basso. Ha la faccia di un ragazzino sveglio. I suoi occhi sono come le slot machine: tintinnano quando gli balena la combinazione vincente.        
E’ orgoglioso della sua storia – una storia da libro Cuore. E’ figlio di immigrati siculi a Milano. Venuti in un’epica traversata poco prima del Sessanta, in tempo per acchiappare il boom economico. Prima della laurea gli è mancato il padre, così ha troncato gli studi per sostenere la famiglia. Però ha conosciuto il partito dei cattolici e ha fatto la sua fortuna.
Adesso ha fama di benefattore. Nomini una persona e lui dice:
“Ah, quello l’ho avuto in affido a casa mia”.
C’è chi dice per avere la mesata dal Comune.

La figlia è la fotocopia del padre: aperta, aggressiva, dinamica. S’è data all’insegnamento, perché, dicono, l’insegnamento è più adatto a una donna, che così ha tempo libero per la casa; e perché l’educazione è una missione – e la scuola il suo campo privilegiato. Sposata, due figli, insegnante: per la sua visione del mondo, è arrivata. Una volta ch’è venuta qui s’è confidata.
“Non so come destreggiarmi fra padre e marito”.
Il padre invade il campo dell’educazione dei nipoti. Gli fa fare “corri corri cavallino” e poi gli domanda:
“Sono meglio io o il papà?”.
Lei dice che è ossessionata dal padre, intanto si gode i vantaggi che lui le procura.

Il figlio è più introverso, più timido. Cresciuto poco. Nessuno gli dà i venticinque anni che ha – non per l’aspetto: per il carattere. Imita il padre negli atteggiamenti, nell’incedere. Ogni volta che telefona al padre, è un trauma. Gli domanda:
“Ti disturbo?”.
E l’altro, a voce alta, davanti a tutti:
“Cosa vuoi? Lo sai che sono occupato. Rompi sempre ”.
Il figlio gli pone una questione, perché non muove un passo senza il suo placet, e il padre:
“Hai sbagliato. Sei un pirla. Non ci fossi io, non so che faresti”.

Il Presidente avrebbe voluto che Marco tenesse i conti. Marco non c’è riuscito, malgrado la laurea in Economia. Anzi, ci ha provato ed è entrato tanto nel ruolo che si lamentava con il padre se eccedeva nelle spese. Il padre stentava a crederci.
“Possibile che mi devo guardare da mio figlio! Mi fai da controllore”.
“Eseguo gli ordini” si difendeva Marco.
“Così non mi fai guadagnare niente” lamentava il padre.
Il figlio protestava.
“Ho già inserito il rimborso dei viaggi Milano-Rapallo, tutti per motivi di famiglia”.
L’altro non ci vedeva più.
“Come? Io dedico tutta la mia vita al lavoro. Non ricordi? Da Rapallo non faccio che telefonare”.
“Non mi dire che vai a Rapallo per quello. Le telefonate puoi farle da Milano”.
Il Presidente non ha retto. Pareva dovesse avere un travaso di bile.

Sì, perché ogni tanto sta proprio male, diventa tutto giallo – quasi verde. Però non è come Martina. Lui non beve alcoolici, non mangia fritti, evita cibi che affatichino il fegato. Non si cura, però, in quanto a forza di volontà, averne come lui! A quarant’anni i medici gli avevano pronosticato dieci anni di vita. Adesso ne ha cinquantacinque. Il guaio è che è apprensivo, l’ansia lo divora, e ogni volta che gli viene la tosse isterica, non gli finisce più. 

E’ disordinato. Non sa organizzare le sue cose e non lascia che le organizzino gli altri. Lui accumula, accumula, finché perde la bussola. Per la prima mezz’ora della giornata va bene, dispone ogni cosa al suo posto, pare seguire un criterio. Dopo si stufa di star lì a pensare, fa collegamenti improvvisati.
“Questo è legato a questo, perciò lo metto qui. Quest’altro va qua”.
Alla fine della giornata non ci capisce più niente e ricorre alla segretaria – che sarei io.
“Non mi so organizzare” ammette quando è cotto, allora mi fa pena. Dopo dieci minuti si riprende e riattacca a scaricare sugli altri.

Ti passa per associazione mentale la sua schizofrenia. Dimentica – e contrabbanda la dimenticanza per memoria selettiva. Apre quattro argomenti e non ne chiude nessuno. Non sa affrontare un tema in modo razionale, non gli interessa analizzare, ma vincere l’altro. Sulle prime ci caschi e dici “che genio!”. Prima o poi avrà un collasso. Se non fosse molesto, verrebbe voglia di consolarlo delle sue bassezze. Curati, non strafare. Smettila di arraffare, non ne vale la pena.

*  *  *

“Sei felice?” gli ho domandato oggi.
“La felicità è un’altra cosa”.
“Allora perché fai questa vita?”.
“Siedi, siedi” mi fa. “A meno che tu non abbia qualcosa da fare”.
Io capisco che vuole parlare e mi siedo.
“Mio padre era tramviere” dice. “Eravamo cinque fratelli. Abitavamo  tutti in due stanze, all’estrema periferia di Milano, e io non avevo dove studiare. Mio padre costruì un tavolino – un asse sopra il calorifero, con delle cerniere che permettevano di alzarlo e abbassarlo. Sulle prime mi riempii di orgoglio e invitai un compagno per mostrarglielo. Non immagini l’umiliazione quando scoprii che lui non l’ammirava per niente. Non sono più riuscito a portare nessuno in casa. Ho giurato che mai in vita mia avrei vissuto come mio padre”.

“Sì, però perché una vita senza ideali, tutta spesa a far soldi? Perché questa febbre, quest’agitazione perenne?”.
“Prima del diploma ho lavorato nei cantieri” riprende. “Sai che io frequentavo le serali. Tutti i giorni promettevo a me stesso: mai più sotto padrone. Poi con l’università sono arrivate nuove umiliazioni. Amarezze. Andavo avanti a borse di studio. Avrei voluto entrare dall’entrata principale: pagando come tutti. Quello che per tanti è il tempo degli eccessi e dei vizi è stato per me una scuola di prudenza. Vivere nascosto; non esporsi; calcolare al minuto l’usura della suola delle scarpe e del polsino della camicia. Rifiutavo balli e festini perché non potevo figurare. Stringevo i denti e mi rivolgevo a Dio. Pregavo, in qualsiasi situazione:
‘Fai che questo tempo passi’.
E Dio era con me, non avevo dubbi. Per poi imparare a mie spese che onestamente – coi proventi del lavoro – non è possibile vivere”.

“Ce la fanno tanti” dico. “Ce la puoi fare anche tu”.
Lui fa cenno di no.
“Occorre industriarsi. Un Natale non avevo soldi per far festa. Né per il cenone né per i regali ai bambini. Glieli ho costruiti a mano, barricati in casa perché nessuno sapesse. Mi sembrava di essere mio padre. Se mi guardavo allo specchio, scoprivo di somigliargli ogni giorno di più. Persino fisicamente. Non mi ero spostato di un millimetro dal tavolino sul calorifero.
Ho fatto un patto con me stesso. E’ stato come cambiare abito mentale, come se mi fossi tolto un vestito e ne avessi indossato un altro. Mai più così, mi sono detto. Ho abbandonato le remore, gli indugi. Ho pensato solo a far soldi. Ero magro come un chiodo e uno mi diceva:
‘Ingegnere, se vuol far carriera deve metter su pancia’.
E ‘Mi capissi minga’ ripeteva, a ogni mio avanzamento di grado.
Perché io ce l’ho fatta anche senza pancia. Ripenso a quei tempi, quando mia moglie dice che non mi vede mai, che non sto a casa.
‘Per me va bene così’, le dico, ‘indietro non si torna’”.

Tace. Riemerge dai ricordi. Poi filosofeggia.
“Siamo tarme che divorano denaro giorno e notte”.
“E gli altri?” faccio io. “Come la metti col tuo catechismo?”.
Lui è imperturbabile.
“Quello che faccio io, possono farlo tutti. Basta avere talento”.
“Sei sicuro?” insisto. “Esisterebbe il tuo successo senza l’insuccesso di altri?”.
Lui, esercitando la prerogativa dei capi, non risponde.

Però qualche rimpianto deve averlo. Una volta riordinando le sue carte mi è capitata fra le mani una cartelletta con l’intestazione “Ricordi” in bella calligrafia – magari lasciata lì perché la vedessi. Penso gli piacesse scrivere. Ogni tanto dice:
“I modi per fare i soldi ci sono. Bisogna lavorare e togliersi dalla testa di fare qualcosa che piace”.
Una volta mi ha detto:
“Chi ti dice che io non abbia delle velleità? Le ho accantonate per diventare quello che sono”.
 

(Da: “La casa di Dio”)

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19 Commenti

  1. OT Chiedo scusa a Giorgio Norale e agli altri commentatori. C’era un post di Francesco Forlani su Gomorra, che è successo, sparito?

  2. OT MI scuso con Giorgio e gli altri commentatori. C’era un pezzo su Gomorra di Francesco Forlani. Sparito?

  3. Se all’inizio ha troncato gli studi, come fa poi a essere ingegnere?

    Se ha cinquantacinque anni mi pare strano che con un diploma possa poi aver fatto ingegneria, allora non si poteva. La liberalizzazione agli accessi universitari se non ricordo male arriva solo a metà degli anni 70 o giù di lì.

    E come “ingegnere” non è credibile. Un ingegnere così non è realistico, è una questione di cultura, si impara.

    Ma parte i dettagli (però i dettagli … non sono una questione di dettaglio), come va avanti? e cos’è La casa di Dio?

  4. A me è piaciuto. Probabilmente si capirà “più avanti” del perché lo chiamino ingegnere (non è, evidentemente, un pezzo concluso). Comunque siamo nel paese dove un “dottore”, come appellativo, non lo si nega a nessuno.

  5. Anche a me, per questo voglio saperne di più. Un mio amico leggendo un giorno un libro il cui protagonista era un fisico, smise di leggerlo perché era un fisico anche lui e i dettagli ai suoi occhi erano inverosimili.

    Io sono di quella pasta.

    Qui ti farei un sorriso, GB, se non fossi stata cazziata altrove, però virtualmente sappi che l’ho messo.

  6. Giusto curare i dettagli, temperanza. Lessi una volta che Tolstoj sgridò Gorkj perché le dimensioni di un certo tavolo in una certa stanza non lo convincevano.
    Vediamo se riesco a chiarire qualche dubbio: il Presidente: è nato nel 1951 e si è iscritto all’università nel 1970 (la liberalizzazione degli accessi era stata l’anno prima). Poi però non ha concluso l’università, ma lo chiamano lo stesso ingegnere, come succede in Italia a tutti i geometri che si rispettano. Ma anche grazie alle sue conoscenze e alla sua carriera.
    Il brano fa parte di un romanzo a cui sto lavorando, che si chiama provvisoriamente “A casa di Dio”.

  7. @Morale

    Grazie, non era chiaro dal testo. Il dettaglio preciso e la veridicità che ne deriva, in un romanzo che mi sembra, almeno da questo brano, calato nella nostra realtà e attualità, è importante.

    Una delle mille ragioni che impedirebbero a me scrivere un giallo, oltre alla mia totale mancanza di talento, è che non ho nessuna idea di come sia la vita di un commissariato, come parlano? il caffè se lo fanno mandare dal bar? come si chiamano i moduli, si riempiono, come si riempiono, chi li riempie, chi fa le indagini, qual’è la gerarchia? Cose così, che magari poi non occorre scrivere, ma che il lettore sente se sono vere o meno.

  8. piaciuta questa cronaca vitae di un artigiano dei soldi.
    non un faccendiere, sia chiaro, ma proprio un artigiano (mettiamo come potrebbe esserlo il canonico ciabattino) che si asciuga la pancia lavorando ai suoi tacchi giorno e notte e sa che ogni tacco finito è l’equivalente di una passo risualato avanti nella vita e forse a un negozio più grande, magari due, e con macchine moderne che allevierebbero i suoi gomiti e quelli del futuro dei suoi figli.
    la maggior parte di queste persone che si fanno così, si fanno carriera da soli con il giogo del sudore sulla schiena, sono quelle che più capiscono l’importanza della meritocrazia, del talento e posseggono una generosità rara.
    piaciuto anche il registro scorrevole e colloquiale (tra il letterario e il popolare) che viene usato all’uopo e mantenuto senza fronzolose dislocazioni e arzigolature linguistiche: il che rende il pezzo assolutamente ben strutturato e godibile.
    n.b.: se dissi castronerie, mi piacerebbe mi fosse fatto presente

    @temperanza
    pignolona…:-)
    ma non sempre il dettaglio nel romanzo (e parlo del romanzo in particolare), contribuisce alla struttura. spesso è lo stesso autore che evita di “dettagliare punto-per-punto”, per dotare il romanzo di più ampio respiro ed è anche spesso colpa del lettore disattento al di quel “tra le righe” che volentieri perde finendo poi per liquidare al 90% l’assorbimento globale del testo… uhm… uhm…
    (direi di aspettare che il romanzo sia finito, o no?)
    paola

    [non metto l’url perchè qualche satirello biricchino dice che spammo l’heineken con il mio blog… mah… vabbè ]

  9. Cara polvere, i figli, come si dice, “so’ piezz’e core”, e un artificio retorico molto diffuso paragona i personaggi ai figli. Ti sono grato perciò, come autore, di questa tua lettura, che dà credito al personaggio del Presidente e alle sue ragioni.
    Come persona invece dissento dal Presidente. Egli infatti dice del suo lavoro “Solo io posso fare questo”, ha avuto qualche ragazzo in affido a casa sua, ma “per avere la mesata dal Comune” (dice qualcuno), domanda al nipote “Sono meglio io o il papà?”, dice al figlio “Rompi sempre… Hai sbagliato. Sei un pirla. Non ci fossi io, non so che faresti”, si fa pagare i viaggi per andare in vacanza dal Centro che dirige, la sua filosofia è che “onestamente – coi proventi del lavoro – non è possibile vivere” e questo lo chiama “industriarsi”, per concludere che “I modi per fare i soldi ci sono. Bisogna lavorare e togliersi dalla testa di fare qualcosa che piace”: ecco, da tutto questo io dissento.
    Sui dettagli: va bene l’estetica del vago e del non finito, per dare modo al lettore di “leggere tra le righe”, però penso che anche il vago debba essere sostenuto da un fondo di dati precisi, anche se non sempre dichiarati, se no può ingenerarsi pressappochismo e confusione. Su questo sono d’accordissimo con temperanza: tanto per fare un esempio, dopo aver letto “I miei luoghi oscuri” di Ellroy e la sua ricostruzione di un’indagine poliziesca, che mi ha lasciato strabiliato per la sua precisione, anch’io non scriverei mai un giallo…

  10. @cara polvere e morale

    sono d’accordo con tutti e due, non penso che ci debbano essere diecimila dettagli, ne bastano tre, ma da quei tre il lettore deve trarre la convinzione che quel che sta leggendo è, come dire, affidabile.

    Certo il dettaglio non contribuisce alla struttura, come potrebbe? è un dettaglio, cioè una spia, e delle spie non c’è mai da fidarsi, spifferano sempre i segreti dell’autore.

  11. Giorgio Morale è un umile, riservato, coltissimo scrittore di grandissimo talento. E soprattutto è una eccellente persona.

  12. @teachinginasnowballschool

    Le meccaniche e le psicologie della rete ancora non mi sono chiare, è evidente.

  13. Nessuna meccanica e nessuna psicologia, temp.

    Leggi centinaia di post in cui si parla di scrittori che hanno inventato o stanno inventando la letteratura del nuovo millennio, che si azzuffano e disquisiscono confrontando (si fa per dire!) le rispettive mappe e ricette; poi ne incontri qualcuno che coltiva la sua passione in un rigore senza ostentazione; hai letto qualcosa di suo e ti piace la sua scrittura, la sua cifra stilistica; magari hai anche la fortuna di averlo conosciuto di persona e ti piace confrontare la pulizia del testo con lo spessore etico dell’uomo; e ti piace scriverlo, perché lo ritieni giusto; e lasci che sia un nick, che impedisce all’autore di riconoscere chi commenta, a impedire che il tuo attestato di stima, sincero, si trasformi in un pompino.

    Tutto qui.

  14. @ signor Morale

    certo che la mancanza esagerata di dettagli può generare la sensazione spiacevole di svogliata noncuranza. sono d’accordo, c’è caso e caso. si.
    in effetti mi sono spiegata solo a metà e nemmeno troppo bene .
    la ringrazio per la risposta

    @ temperanza

    dettaglio—>spia. mi piace.
    grazie per la risposta.

    un saluto
    paola

  15. Grazie, Bartolomeo, e in bocca al lupo anche a te per il tuo nuovo libro, che ho già ordinato.
    Colgo l’occasione per ringraziare dei commenti e Franz per l’ospitalità che ha reso possibile questo confronto.

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