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Nicolas Bouvier e l’uso del mondo

di Linnio Accorroni
 topolino1.jpg “Anche con la lanterna magica, non bisogna farsi illusioni: la maggior parte dei legami solidi non si creano su un piano intellettuale, e di rado si esprimono nei libri: ma molto di più nei tatuaggi che si vedono in spiaggia o all’obitorio; nelle mani che stringono una spalla su un marciapiede della stazione e che manterranno- forse troppo a lungo- quel calore e quell’elasticità nelle dita; nelle cartoline mandate dai militari con indirizzi così mal scritti che arrivano per sbaglioa delle vecchie pazze cui nessuno aveva mai detto cose così tenere; nel silenzio di due volti che sprofondano nelle pieghe del cuscino come se volessero scomparire; in quel desiderio, così raramente appagato, che hanno i moribondi di venire finalmente a capo di qualcosa, e di poterlo dire; nella finestra che poi viene aperta; nella testa di un bambino che scoppia in lacrime, perduto nel rumore di una lingua straniera. Coraggio, siamo molto più uniti di quanto non crediamo, ma ci dimentichiamo di ricordarcene”
Nicolas Bouvier ‘Il suono di una mano sola Cronache giapponesi’

“ Se  non si lascia al viaggio il diritto di distruggerci un po’, conviene restare a casa propria

”Nicolas Bouvier, La strada di Halla-San’

Nell’epoca della settimana all inclusive, dell’offerta last minute o dell’avventura nel mondo che consente alle anime belle anche il brivido programmato dell’imprevisto ( rapimento, sequestro, violenze assortite, sindrome di Stoccolma,…), l’inattualità ed irriducibilità di una figura quale quella di Nicolas Bouvier consola e gratifica. C’è da sfatare subito un logoro cliché: non è vero che la Svizzera significhi solo banche e calvinismo, cioccolata ed orologi a cucù , come lasciava intendere Orson Welles ne Il terzo uomo. Bouvier infatti era di Ginevra ( vi nacque nel 1929 e lì morì nel 1998) e considerò sempre la sua città-madre un luogo di grande effervescenza culturale ed umana, attraversata dalle stesse misconosciute inquietudini della nazione elvetica.. La Svizzera di Bouvier è una Svizzera in movimento, una Svizzera nomade: “Dietro l’ordine, dietro l’apparenza del ‘comme il faut’ io sento passare grandi cumuli d’irrazionalità, la stessa eccitazione sorda, presente nei primi ‘polars’ di Dürrenmatt, nelle opere di Fritz Zorn, una violenza latente che rende questo paese bizzarro ed interessante” ( da un’intervista recuperata in Rete).

Gracile, introverso, ultimo arrivato in una famiglia che, a leggere quello che lui stesso confida a Jacques Meunier de ‘Le Monde’, era“ di confessione ugonotta e colta, per cui ogni aspetto emotivo dell’esistenza era rigidamente controllato e la parola ‘scacco, sconfitta’ mancava al mio vocabolario come se fosse uno dei quei giorni della settimana che vengono fatti sparire”. Ma ogni ‘vocazione’, quando è autentica, non consente mediazioni e sconti o, peggio ancora, trattative; si è come un ragno che magari rischia di perdersi nelle secrezioni costruttive della propria tela, ma che ugualmente si cimenterà senza tregua nella sua realizzazione; per cui, ad introibo, nella prima pagina del suo libro capolavoro ‘La polvere del mondo’ leggiamo : “ È la contemplazione silenziosa degli atlanti, su un tappeto, a pancia in giù, tra i dieci e i tredici anni, che dà la voglia di piantare tutto. Ci si ritrova a pensare a regioni come il Banato, il Kashmir, o il Caspio; alle musiche che vi risuonano, agli sguardi che s’incontrano, alle idee che vi aspettano,…Quando poi il desiderio resiste ai primi attacchi del buon senso, si inventano delle scuse. Ma non ne trovate che da quattro soldi. La verità è che non sapete come chiamare ciò che vi spinge. Qualcosa in voi cresce e molla gli ormeggi, fino al giorno in cui, senza tante sicurezze, partite per davvero. Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che si giustifica da solo. Pensate di andare a fare un viaggio, ma è subito il viaggio che vi fa, o vi sfa.”. C’è anche un aneddoto, che l’autore narra da qualche parte, segnato dalla stessa dolce inconsapevolezza con la quale in certi inerti riti infantili si cela la rivelazione di una allegoria destinale: il bambino di 8 anni che, alle prese con la colazione mattutina, ancora turbato dalla lettura di London, traccia con l’unghia del pollice il corso dello Yukon sul burro delle tartina : “Ecco la forma, il presentimento del mondo: ingrandirsi e sloggiare”. Alcuni brevi viaggi ( Borgogna, Toscana, Provenza, Fiandre) alternati ad altri più lontani (Sahara, Lapponia, Anatolia) appaiono meri interludi, esercitazioni quasi dilettantesche. Ma c’è anche lo studio accanito, con zelo filologico, del sanscrito e della storia medievale fino al conseguimento della laurea in lettere ed in diritto: non si è per caso nipoti del curatore dei diari di Amiel ( ossia, dell’autore stanziale e centripeto per eccellenza) e figli di un importante bibliotecario ( e proprio sulla complessa ambiguità del rapporto padre-figlio Bouvier scriverà pagine ispirate). Ma nel 1953 quello che Baudelaire aveva tanto efficacemente descritto come l‘ “orrore del domicilio” ha il sopravvento e Bouvier, con il suo amico-artista Thierry Vernet, a bordo di una Fiat Topolino, decide di partire: meta i Balcani e l’Oriente, durata un anno. I luoghi attraversati, ma forse meglio ‘auscultati’ a suggerire, per quanto possibile, una curiosità mai esausta ed un desiderio titanico e ‘carnale’di tutto catturare ( suoni, colori, carni, polvere, cibi, albe e tramonti), saranno l’ex-Yugoslavia, la Turchia, l’Iran, Pakistan. Poi i due si separano in un luogo già mitico di per sé, il Khyber Pass, e, a quel punto, Bouvier decide di continuare da solo: sarà l’inizio di quell’opera al nero che è ‘Il pescescorpione’(Laterza, 2006). Ma l’amicizia fra i due non è compromessa tanto che si ritroveranno poi, otto anni dopo, proprio a Ginevra per ripercorrere in un testo, scritto a quattro mani, questa straordinaria esperienza: da questa collaborazione nascerà L’usage du monde (1963, tradotto in Italia dalla Diabasis nel 2004 con il titolo ‘La polvere del mondo’). Un libro di una bellezza stupefacente che accosta l’incanto della prosa scintillante, lussuosa ed inusitata di Bouvier al tocco esotizzante e inconfondibile dei disegni di Thierry. Così, con la scrittura del libro, viene anche sciolta l’unica conditio che il padre bibliofilo di Nicolas aveva apposto a questi viaggi, tanto più bizzarri ed azzardati quando li si immagina dalla quiete apparente del lago di Ginevra: “-Tu dovrai narrare tutto, al ritorno, senza celare alcunché -”

Poeta, fotografo, iconografo, uomo di Tv e radio, guida turistica ( lo svizzero che farà il cicerone per una comitiva di…cinesi in Cina), professore negli Stati Uniti, studioso delle malattie dell’occhio, spirito libero e liberale, buon bevitore ed incline alla nevrastenia, Nicolas Bouvier visse gli ultimi anni della sua breve, felice esistenza nella natia Ginevra, con sua moglie, due figli, tra dischi, libri, gatti, recluso nella Tebaide volontaria di Cologny

L’usage du monde
La prima volta che ho letto questo libro, non più tardi di qualche mese fa, mi è sembrato ritornasse quel tempo magico della lettura quando sembrava che i libri fossero in grado di squarciare quella coltre opaca che ci nega l’esperienza autentica del mondo, oggetti-talismano capaci di liberarci dall’anguste limitatezze del nostro io privato ( in tutti i sensi). Chiedo soccorso ad alcune righe di Antonella Anedda perché esse sanno descrivere molto più efficacemente la vertigine dolce di questa sensazione: “ Questo è un libro di gratitudini e rapine. D’immense gratitudini e di piccole rapine. Quando, a sedici anni, andavo ad un appuntamento, studiavo. Come se quell’incontro, spesso senza seguito, fosse il preludio di un’altra conversazione, della più stellare delle unioni” ( da ‘Che cosa sono gli anni’, Fazi, 1997). Gli appunti che, con foga cursoria, ho trascritto sui margini bianchi del libro di Bouvier,(‘ Una prosa mirabile,inaudita,’… ‘non si capisce se mi incanta di più la fascinosa malia di questo esotismo a pochissimi km da casa o la forza di una scrittura che eccita e fa smaniare, quasi che si volessero fare i bagagli e partire ripercorrendo le tracce lasciate dalle gomme della Topolino di Bouvier, sperando che qualcosa sia rimasto uguale’ .) forse riescono a fotografare, sia pur con la loro superficialità impressionistica e con il ‘corredo’ di anacoluti e solecismi , ciò che avevo provato accostandomi, per consiglio ricevuto, a questo libro. L’esotismo ( sono consapevole della parzialità ai limiti della mistificazione di un termine siffatto, ma non riesco a trovarne altro capace di connotare l’inesauribile curiosità e sete di bellezza allo stato puro che domina le pagine di Nicolas Bouvier) che impregna questa ed altre sue opere è di una grana diversa rispetto a quello di cui si compiace, per esempio, uno scrittore analogo, ma diversissimo come Bruce Chatwin: nelle pagine del’ex consulente della Sotheby c’è infatti, a dispetto della icasticità prosastica, un eccesso di maniera, una ricerca forzata e iperletteraria della frase tornita e dell’effetto che, a dispetto della apparente nonchalanche, dovrebbe comunque sorprendere. Bouvier scrive invece con una sincerità che commuove e disarma: un coeur mis à nu, che riesce a confessarne motivi e dilemmi con pagine di smagliante forza evocativa Ma, al di là del fascino di questa prosa che non accetta confronti, ciò che più colpisce è l’idea del viaggio come Kenosi, come progressiva spoliazione di verità acquisite e certezze stantie, uno smarrimento meditato di tutte le certezze depositate nel sé. Prima di lui ( si pensi alle cronache del classico, settecentesco Grand Tour) si procedeva per accumulazione, quasi che nella scrittura si potesse ‘estinguere’ la vastità e diversità degli spazi e delle distanze percorse: si giustapponevano, con accanimento seriale, dati su dati, cronache e resoconti ad libitum a voler quasi compilare un regesto omnicomprensivo di quel luogo, di quel paese. Bouvier, in accordo con la saggezza di certi maestri zen, ci dimostra quasi da subito che il problema non è quello del riempire, ma semmai dello svuotare e dell’essere svuotati; deporre le vaniloquenti, stolte autodifese dell’io per scoprire che si è niente, accordandosi sulla lunghezza d’onda dei paesaggi più miserabili e desolati, sulla loro bellezza straniante e misteriosa. Per questo trovo che la traduzione del titolo di questa sua opera prima in italiano ( La polvere del mondo) pur non essendo rispettosa della titolazione originale che alludeva ad una qualche relazione virtuosa tra uomo ed universo, coglie splendidamente uno delle idee-guida di quest’opera: l’idea che le cose del mondo, tutte, siano sottoposte ad inevitabile usura e che, per questo spesso solo in ciò che rimane della loro distruzione riposa un’arcana, caduca dimensione di Senso e di Bellezza. Per esempio, questo è ciò che accade quando ci si trova davanti a quello che pare un simulacro epifanico, la Moschea Reale di Esfahan; Persia: “ La moschea reale, per esempio: non passa temporale che non si porti via un quadratino non più rimpiazzabile di mattonelle di maiolica. Alcune decine su più d’un milione, e tutto è così vasto che ci vorrebbero cinquant’anni di tempesta, perché ci si accorgesse di qualcosa. Al minimo soffio di vento, esse cadono tuttavia, dall’alto rimbalzano e si sbriciolano in polvere senza che si senta null’altro che un leggerissimo fruscio di foglie morte.”

La prima volta che ho letto questo libro, non più tardi di qualche mese fa, mi è sembrato ritornasse quel tempo magico della lettura quando sembrava che i libri fossero in grado di squarciare quella coltre opaca che ci nega l’esperienza autentica del mondo, oggetti-talismano capaci di liberarci dall’anguste limitatezze del nostro io privato ( in tutti i sensi). Chiedo soccorso ad alcune righe di Antonella Anedda perché esse sanno descrivere molto più efficacemente la vertigine dolce di questa sensazione: “ ” ( da ‘ , Fazi, 1997). Gli appunti che, con foga cursoria, ho trascritto sui margini bianchi del libro di Bouvier,(‘ Una prosa mirabile,inaudita,’… ‘non si capisce se mi incanta di più la fascinosa malia di questo esotismo a pochissimi km da casa o la forza di una scrittura che eccita e fa smaniare, quasi che si volessero fare i bagagli e partire ripercorrendo le tracce lasciate dalle gomme della Topolino di Bouvier, sperando che qualcosa sia rimasto uguale’ .) forse riescono a fotografare, sia pur con la loro superficialità impressionistica e con il ‘corredo’ di anacoluti e solecismi , ciò che avevo provato accostandomi, per consiglio ricevuto, a questo libro. L’esotismo ( sono consapevole della parzialità ai limiti della mistificazione di un termine siffatto, ma non riesco a trovarne altro capace di connotare l’inesauribile curiosità e sete di bellezza allo stato puro che domina le pagine di Nicolas Bouvier) che impregna questa ed altre sue opere è di una grana diversa rispetto a quello di cui si compiace, per esempio, uno scrittore analogo, ma diversissimo come Bruce Chatwin: nelle pagine del’ex consulente della Sotheby c’è infatti, a dispetto della icasticità prosastica, un eccesso di maniera, una ricerca forzata e iperletteraria della frase tornita e dell’effetto che, a dispetto della apparente , dovrebbe comunque sorprendere. Bouvier scrive invece con una sincerità che commuove e disarma: un , che riesce a confessarne motivi e dilemmi con pagine di smagliante forza evocativa Ma, al di là del fascino di questa prosa che non accetta confronti, ciò che più colpisce è l’idea del viaggio come Kenosi, come progressiva spoliazione di verità acquisite e certezze stantie, uno smarrimento meditato di tutte le certezze depositate nel sé. Prima di lui ( si pensi alle cronache del classico, settecentesco Grand Tour) si procedeva per accumulazione, quasi che nella scrittura si potesse ‘estinguere’ la vastità e diversità degli spazi e delle distanze percorse: si giustapponevano, con accanimento seriale, dati su dati, cronache e resoconti a voler quasi compilare un regesto omnicomprensivo di quel luogo, di quel paese. Bouvier, in accordo con la saggezza di certi maestri zen, ci dimostra quasi da subito che il problema non è quello del riempire, ma semmai dello svuotare e dell’essere svuotati; deporre le vaniloquenti, stolte autodifese dell’io per scoprire che si è niente, accordandosi sulla lunghezza d’onda dei paesaggi più miserabili e desolati, sulla loro bellezza straniante e misteriosa. Per questo trovo che la traduzione del titolo di questa sua opera prima in italiano ( ) pur non essendo rispettosa della titolazione originale che alludeva ad una qualche relazione virtuosa tra uomo ed universo, coglie splendidamente uno delle idee-guida di quest’opera: l’idea che le cose del mondo, tutte, siano sottoposte ad inevitabile usura e che, per questo spesso solo in ciò che rimane della loro distruzione riposa un’arcana, caduca dimensione di Senso e di Bellezza. Per esempio, questo è ciò che accade quando ci si trova davanti a quello che pare un simulacro epifanico, la Moschea Reale di Esfahan; Persia: “ .”Ma la filosofia di questo nomade eterno è capace di gettare uno sguardo nuovo anche su gesti che facciamo abitualmente, ma di cui in fondo abbiamo dimenticato coscienza e consapevolezza, come per esempio viaggiare osservando ciò che è fuori: “ Ci priviamo d’ogni lusso, eccetto il più prezioso: la lentezza. Col tettuccio aperto, la leva dell’aria leggermente tirata, seduti sulle spalliere dei sedili e con un piede sul volante, viaggiamo placidamente a venti all’ora attraverso paesaggi che hanno l’accortezza di non  cambiare senza avvertirti, attraverso notti di luna piena ricche di prodigi: lucciole, cantonieri in babbucce, modesti balli campagnoli ai piedi di tre pioppi, calmi fiumi dove a volte il traghettatore non s’è ancor alzato ed il silenzio è così perfetto che un solo colpo di clacson vi fa sussultare”.. ma anche dormire: “ È il mio turno di dormire. Dormire in macchina, sognare la propria vita, col sogno che cambia corso e colore ad ogni sobbalzo, e che interrompe rapidamente le sue storie quando una cunetta più profonda vi squassa, o un cambiamento improvviso nel regime del motore, o infine il silenzio, che irrompe nell’attimo in cui il guidatore di turno spegne il motore per riposarsi a sua volta. Si preme allora la testa ammaccata contro il vetro, si intravedono nelle brume dell’alba una scarpata, dei boschetti, un guado o una pastorella in babbucce, con un rametto di nocciolo in mano, che passa con una mandria di bufali il cui fiato caldo, puzzolente, questa volta vi sveglia del tutto; e non si perde nulla a ritrovarsi in una tale realtà” Ma ciò non significa che Bouvier sia un fondamentalista del viaggio, uno che accetta ed esalta solo le ragioni del pensiero-nomade: in lui persiste anche la lezione de il De Maistre del Voyage autour de ma chambre, ma ancor di più di quell’Amiel il cui Journal intime rappresenta l’apoteosi dell’immobilità, così presente nella sua cosmogonia personale, oltre che ‘trofeo’ familiare: “ Al mio ritorno, molti di quelli che non sono partiti m’hanno detto che con un po’ di fantasia e di concentrazione erano soliti viaggiare lo stesso, senza staccarsi dalla poltrona. Gli credo volentieri: sono dei forti. Ma io no, io ho troppo bisogno di questo contributo concreto che è lo spostamento nello spazio. Del resto, fortuna che il mondo s’estende per i deboli e li soccorre; quando poi esso, come certe sere sulla strada di macedonia, si riassume nella luna a sinistra, la corrente argentata della Morava a destra, e la prospettiva di scovare dietro l’orizzonte un villaggio dove poter vivere nelle prossime tre settimana, sono ben lieto di non poterne fare a meno”. Musiche, prostitute, commercianti, distici e inni, tramonti e lune, polvere e luoghi di culto, deserti e bazar: tutto viene abbracciato dallo sguardo caleidoscopico di Bouvier che ama tutto con vitalismo e malinconia, senza distinzioni vacue o classifiche sciocche. I suoi libri ci fanno amare il mondo, ce lo rendono  un po’ più fraterno ed abitabile, meno agitati da follie nazionalistiche e xenofobismi d’accatto.

(Nella foto: Bouvier e la sua leggendaria Topolino)

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6 Commenti

  1. a causa di un disguido, era stata pubblicata una versione non riveduta e corretta del pezzo. lo ripubblico qui e ora, scusandomi con gli autori dei pezzi precedenti e con il commentatore del pezzo di accorroni che invito a rimettere, se possibile, il suo commento. grazie.

  2. “…quando il viaggiatore scorge Kabul, le montagne viola fumiganti d’un sottile strato di neve, gli aquiloni che si librano nel cielo autunnale sopra il bazar, e pretende di essere arrivato in capo al mondo… ” un sorso di mondo perduto per sempre imprigionato nelle foto in bianco e nero di quando non era ancora iniziato il nuovo medioevo

  3. Mi piace pensare che i testi di Accorroni possano diventare un appuntamento fisso su NI. Leggerlo mi procura un piacere intellettuale irrinunciabile.

    Bouvier è un grande e L’usage du monde un capolavoro, uno di quei libri che bisogna leggere assolutamente.

  4. Putroppo anche questa versione non è quella esatta: colpa del mio pc, probabilmente e delle mie scarse conoscenze telematiche. Comunque coloro che fossero interessati a sapere la versione originale, dovrebbero leggere il post, saltando dalle due ultime parole in finale di capoverso (‘…foglie morte’) fino a ‘Eshafan, Persia’: lì avviene il fattaccio, ovverosia una ripetizione sed non petita. grazie.

  5. Mi ha colpito quanto riportato sulla stampa sul film-documentario di Davide Ferrario; sembrerebbe essere una “chicca” tra i lustrini della kermesse cinematografica di Roma e ripercorre, documenta l’itinerario dello scrittore Primo Levi in un contesto attuale. Quindi si parte da Auschwitz per arrivare a Torino attraverso una miriade di realtà senza perdere mai le tracce dello scrittore de “La Tregua” testimoniando che il cuore di tenebra umano batte sempre.
    Dalle rassegne stampa raccolgo una dichiarazione dell’autore “Questo è un road-movie- e nei road-movie l’importante è il viaggio, non l’approdo”.

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