Lettera a un giovane poeta (reload)

Lettera a un giovane poeta
di
Giampiero Spinelli
Egregio quasi dott. Carrieri, chiuso l’egregio, ti do del tu, ché sei più piccolo di mia figlia. Ma altrettanto ti chiedo di fare con me, perché non so se abbia ancora un senso fondare il rispetto tra esseri umani sull’età, come facevano gli antichi. Io ne dubito, oramai. Tu, poi, sembra proprio che abbia fatto quello che avremmo dovuto fare tutti: studiare prima, negli anni di scuola, per spenderselo dopo. E non, invece, come ha fatto la gran parte di noi, all’incirca la generazione del padre di Libero, il tuo io narrante: grattarsi al bar per anni e non studiare davvero mai più, ma allenarsi professionalmente a come si finge di sapere, magari sorridendo con una bella faccia alle interviste. E regalarvi ’sto schifo di mondo, noi che dovevamo cambiarlo, o almeno così mi era sembrato che si dicesse in piazza, quand’ero ragazzo. Per questo mi interesserebbe moltissimo scambiare pareri su alcune tue intuizioni che ho trovato ammirevoli, e ti ho “chiesto l’amicizia”.
Ho appena finito di leggere il tuo stupefacente “Poveri a noi”, regalatomi dal mio amico torinese Andrea, che troverai tra i tuoi contatti. Ci conoscemmo al mio primo concerto di blues, quasi cinquant’anni fa. Avevo appena finito gli esami di Stato con una figuraccia. Litigai con la mia ragazza che mi disse che si chiedeva perché stesse con un simile somaro imbecille e massacratore del divino Leopardi. Aveva ragione e me ne andai con amici in vespa ad ascoltare Buddy Guy e Junior Wells a Umbria Jazz, a Gubbio. Avevo il culo perfettamente quadrato quando incontrai Andrea.
Siamo rimasti amici per tutta la vita e abbiamo fatto entrambi i professori di Materie letterarie. Lui docente vero, laureato in letteratura e competente; io un po’ a caricatura, laureato in storia dell’America spagnola, che a scuola a nulla serve. Lui è anche un ottimo armonicista; io cercai di imitarlo ma ero come sempre un priso e rinunciai.
Il tuo libro… sto per ricominciarlo. La rilettura immediata di un libro non mi capitava dal 1967, credo, ossia da quando avevo sette anni e rilessi la trilogia de “I tre moschettieri”, ovviamente in versione abbreviata per ragazzi, Casa Editrice Boschi. Pinze ’nu picche. Ma il tuo libro contiene osservazioni, deduzioni, induzioni, drammatizzazioni, ridicolizzazioni, nobilitazioni, nuovi sguardi, vecchie eredità e pregiudizi, che da più di mezzo secolo io aspettavo fossero scritte per questa cazza di città. Mocc’a te, finalmente. Ed è scritto benissimo. Ora, però, lo rileggo per controllare se non mi sia fatto prendere dalla sindrome della Seconda Venuta, ché io sono esagerato, con gli entusiasmi, mi dicono. Tutto ciò perché hai innescato in me l’“effetto Cassano”. Mi spiego. Ho chiuso con il calcio dal 1988 ma mio padre mi aveva portato allo stadio “Della Vittoria” che avevo tre anni ed educato all’amore totale per la Bari. Per cui per tutta la vita, quando nei vicoli guardavo estasiato la nostra migliore ragazzaglia esibirsi in un numeri alla Messi in totale nonchalance, mi ero chiesto quando sarebbe nato da vergine – in una mangiatora frecata al ciuccio di casa, a Barivecchia – Colui il quale avrebbe insegnato al mondo come si può giocare a pallone piroettando con i mocassini di cuoio con le nappine e il tacco basso sulle scivolosissime chianche appena appena bagnate dell’umido di mare, leggeri come un hovercraft; come si fa la scarriola con la mano a terra; come si dribbla l’avversario facendo la finta con la voce… Colui che avrebbe raccontato Bari (quella che piaceva a me, non quella delle permute) attraverso la sua antica lingua pedestre: povera, eternamente sconfitta ma inimitabile e amata sempre. Purtroppo Cassano tutto ciò sapeva farlo ma portava con sé un troppo pesante fardello di vastasaggine, e non seppe scaricarlo.
E così, con il calciatore si aspettava lo scrittore, adesso, ma con poca convinzione. Ne è venuta addirittura un’onda. Con la buonanima di Beppe Lopez, o negli ultimi suoi anni. Lui era nato… morto di fame, a Libertà, che è stato il migliore, l’autore del bellissimo “Capatosta”, ebbi la fortuna di diventare amico\ poi era diventato un autodidatta espatriato; io, «Giampieeeero, con quel nome fifì e quella faccia da Corso Vittorio Emanueeeele» come diceva lui di me, ci scrivevamo, di notte, in barese antico. Avevamo in comune l’idea che Bari non ci piaceva, è brutta, è figlia di permute squallide e agrumeti scomparsi, geometri ciucci cui ingegneri lordi hanno messo la firma; ma sotto, da qualche parte, sepolto o nascosto, qualcosa di unico c’è, come la pentola alla fine dell’arcobaleno. E io vorrei trovarlo prima di rimbambire. Per cui ti farò delle domande, se vorrai rispondermi e dialogare. Ho sessantacinque anni e sono metà barese e metà paesano, per cui riesco a seguire tutte le tue dissertazioni sui due mondi. Ma mio nonno non resistette a vendere il palazzo ottocentesco fino al 1971 come il tuo: nel 1950 fu ricoverato in una clinica per malati di mente e un avvocato baresemente lo truffò. Quando nacqui erano ormai anni che l’enorme casa bella e perduta era stata venduta, per quattro soldi, a una banca. Non l’ho mai conosciuta. Non credo che fosse un capolavoro, come tutto l’Ottocento barese e poi, sin dalle prime letture cavalleresche di bambino, decisi che un gentiluomo non doveva avere a che fare con l’esercizio della mercatura (anche se qualcosa delle famiglie “perbene” me l’hanno trasmessa, come il classico «Non c’è mondo al di là della…stazione»). Per questo mi interessa solo il lato storico-antropologico e modestamente romantico della questione. Questione che con notevole classe hai descritto.
Io in letteratura ero un vero priso. Al liceo sceglievo i temi “di fantasia”, beccavo sempre otto e nove e così me la cavavo e la letteratura non l’avevo studiata da cristiani.
Ma la Fortuna mi ha donato una vita professionale meravigliosa, perché alla fine ho fatto soprattutto l’educatore, senza così offendere troppo la letteratura italiana, e con un successo di cui mia moglie, ogni santa sera, mi dice che devo farmi una ragione. Fino a quando il Morbo di Parkinson non ha deciso che la baldoria era finita, mi ha stroncato la carriera e rovinato la vita. Tuttavia non è una forma grave; riesco ancora a fare molte cose e vivo in contatto quotidiano con i miei (ex) alunni, che vanno da un’età di poco più di venti a poco più di… cinquant’anni. Sono riuscito a estirpargli il “prof” alla milanese e mi chiamano «pesso’». (Ti anticipo che mi ha stupito che il tuo personaggio fosse anche lui chiamato «Prfssò» come… me, e che la sua amica Letizia fosse detta dai pugliesi «Leti’» e dai milanesi «Leti», che tu avessi voluto sottolineare la differenza. Perché nella realtà non c’è più differenza, ormai: devo purtroppo dire che, miei alunni a parte, e neanche tutti, nella realtà l’anglomeneghino ha stravinto e, in Italia, anche a Lampedusa, sono tutti Fede, Francy, Cetty, Simo, raga e simpa della compa. Si attendono il presy della Repu, l’arcangelo Micky, san Giupy e la Mady). Spero tu voglia parlarne. Di questo e della pentola alla fine di qualche arcobaleno alla Lama Balice.
Spero che in te sorga il desiderio di realizzare quel lavoro titanico che aveva intrapreso il grande Beppe Lopez: far capire agli stranei la scala della nostra Lilliput di fetenti. Mado’, com’è difficile, Mado’.
Altrimenti, comunque, per quello che valgono, i miei più gioiosamente increduli e sentiti complimenti.

Grazie a Francesco, e credo, da quello che ho letto, che sotto il nome di Spinelli si nasconda proprio lui, il suo “onnivorante”, inimitabile delirio letterario e poetico. Sbaglio?
Ahimè ti sbagli, Anna. Invecchiato e dimagrito non potrei nascondere nessuno, anche volendo. Sono il pesso’ Spinelli e, “agguantando agguantando”, sono ancora io