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Limoni amari: un’ intervista a Giorgio Bernardelli

di Silvana Rigobon

Immaginate un albero di limoni, che piantate nel giardino della vostra casa. Lo vedete fiorire e far frutti, lo vedete crescere, assieme ai vostri figli che ci giocano attorno.
La Storia, quella con la S maiuscola, decide per voi: dovete andarvene, lasciare la vostra casa, e con la casa il giardino, e quell’albero.
Non lo rivedrete più, quell’albero, perché quando ritornate in quella casa, vent’anni dopo, siete ciechi. Potete solo toccarlo, e piangere lacrime amare.
Se vi è permesso accarezzarlo, è solo perché la famiglia che abita in quella che un tempo è stata la vostra casa, comprende il vostro dramma.
Questa è una storia vera, quella di Ahmed al-Khayri, rifugiato a Ramallah: è una delle dodici storie raccolte da Giorgio Bernardelli nel suo Oltre il muro. Storie, incontri e dialoghi tra israeliani e palestinesi, premesso da una lettera del cardinale Carlo Maria Martini (L’Ancora del Mediterraneo).
Quella della casa dei limoni è una storia a lieto fine: quella casa è diventata la Open House di Ramle. E grazie all’iniziativa di due famiglie appartenenti a due popoli “incastrati in un abbraccio fatale”, dal 1991 è un centro per la coesistenza tra arabi ed ebrei.
Giorgio Bernardelli ha viaggiato in Israele e nei Territori Palestinesi come inviato del quotidiano Avvenire, durante la seconda intifada. E’ da questa sua esperienza che nasce Oltre il muro: un libro documentatissimo e avvincente, dove le difficoltà della vita quotidiana sono raccontate dal punto di vista della gente comune, senza scadere in facili sentimentalismi.
Quelle raccolte da Bernardelli sono storie di incontro, malgrado un muro che divide. Testimoniano l’esigenza di arabi ed ebrei di rileggere la storia raccontata a senso unico, la necessità di comprendere la sofferenza degli altri attraverso la propria. Storie che dimostrano che coltivando la memoria e guardando oltre il muro, si può provare, non senza difficoltà, a lenire lo sradicamento da luoghi significativi per la propria identità.
Ne parliamo con Giorgio Bernardelli.

Il muro del titolo è quello eretto degli israeliani per contenere le incursioni del terrorismo palestinese. Ma il muro di cui Lei scrive non è solo quello fatto di mattoni e di filo spinato.
Io credo che il problema del muro sia il fatto che lo si giudica giusto o sbagliato, ma non lo si guarda mai realmente da vicino. E invece sarebbe molto utile farlo. Perché vedendo i tanti paradossi che lo accompagnano (il numero dei coloni israeliani che continua ad aumentare anche “dall’altra parte”, la corsa degli arabi a cercare una casa nel quartiere giusto di Gerusalemme Est, l’incubo dei missili Qassam contro cui il muro non può nulla…) si capirebbe che la “barriera” è anzitutto un’idea: quella di risolvere i problemi separandosi, togliendo l’altro anche letteralmente dalla propria vista. Si tratta di una gigantesca illusione: è vero, gli attentati suicidi in Israele sono fortemente diminuiti; ma ci si può davvero sentire sicuri sapendo che quel muro che mi difende ha reso praticamente inaccessibile a chi sta dall’altra parte il campo che coltivava o il servizio sanitario dove venivano curati i propri malati? Le sorti di questi due popoli sono intrecciate: finché non si accetterà di guardare con coraggio ai problemi dell’altro non si risolveranno neanche i propri.

L’introduzione a Oltre il muro è una lettera che il cardinale Carlo Maria Martini Le ha scritto da Gerusalemme, in aprile. Una lettera appassionata, dove il Cardinale si sofferma su alcuni aspetti di una città dilaniata dalla violenza, ma anche aperta al “dialogo” e alla “riconciliazione”. Riconosce in questi due termini il fulcro del suo libro?
Sì, sono questi atteggiamenti a permettere di andare oltre il muro. Con una sottolineatura importante, però: noi abbiamo troppo spesso un’idea buonista di dialogo e riconciliazione, abbiamo in testa che “in fondo sarebbe tutto così facile”. Non è così. La pace costa, ha sempre un prezzo. Girando alla ricerca di queste storie mi chiedevo se non stessi cercando delle isole felici. Invece ho incontrato persone estremamente realiste. Gente che ha vissuto sulla propria pelle il conflitto, magari anche perdendo un padre, una sorella, un amico. E’ senza ignorare le proprie ferite che prova a dialogare con l’altro.

Oltre il muro raccoglie una serie di testimonianze di gente comune, ma anche di personaggi con cariche pubbliche, che, non senza fatica, si sono impegnate in prima persona per togliere, metaforicamente, alcuni mattoni dal muro che separa palestinesi da israeliani. Possono, questi mattoni sottratti al muro, costituire le fondamenta per una pace futura?
E’ l’unica strada che può veramente portare lontano. Penso a gesti come quello di padre Emile Shoufani, il parroco greco melchita di Nazareth, convinto difensore della causa palestinese, che in uno dei momenti più duri del conflitto, sceglie di portare ad Auschwitz un gruppo di arabi. Un gesto gratuito, senza richiesta di contropartite, per capire il dolore dell’altro e provare attraverso questa condivisione a gettare nuovi ponti. O al coraggio del rabbino Arik Askerman, che in una terra dove il nome di Dio spesso è invocato come giustificazione per annientare il nemico, dichiara in tribunale che demolire ingiustamente la casa di una famiglia palestinese è un’offesa ai principi insegnati dalla Torah. Sono testimonianze di frontiera, in cui la propria identità non è un ostacolo ma un’occasione per il dialogo. Senza questi mattoni non si costruisce la pace.

Il libro racconta anche di esperienze che toccano il mondo della comunicazione. Bitterlemons e Windows (www.win-peace.org) sono due progetti che hanno tutte le premesse per fare molta strada.
E’ sulla comunicazione uno dei muri più insidiosi: questo è un conflitto che si combatte anche attraverso le agenzie di pubbliche relazioni. Un esempio: quando parla del vertice del luglio 2000 a Camp David un israeliano ti racconta che il suo premier Barak aveva offerto ai palestinesi il 95% dei Territori. Un palestinese, invece, ricorda che avrebbero ottenuto uno Stato diviso in tre cantoni tra loro non comunicanti e con una capitale chiamata sì Gerusalemme, ma in realtà limitata ad alcune zone molto periferiche di quella che era la città araba. Entrambe le affermazioni sono vere. Il problema è che un israeliano e un palestinese non hanno mai modo di leggerle insieme. Ecco allora l’importanza di un sito come bitterlemons.org che mette a confronto le opinioni di chi sta da una parte e dall’altra della barricata. O di una rivista come Windows che, tra mille difficoltà, prova a far parlare tra loro i ragazzi israeliani e palestinesi.

Il sogno di una protagonista delle testimonianze da Lei raccolte è quello di mettere insieme donne palestinesi e israeliane a fare il pane. Un sogno semplice, estremamente simbolico. E’ il sogno di una donna palestinese che raccoglie gli orfani a Betania ed insegna loro a non odiare. Ci sono le premesse perchè questo sogno si possa realizzare?
Grazie anche al contributo di molti amici italiani quel sogno è già diventato realtà: il forno a Betania c’è. E nel giugno scorso, per un giorno, un gruppo di donne israeliane vi si sono recate proprio per compiere insieme questo gesto. Oggi la scommessa vera diventa moltiplicare quel pane, cercando di affrontare in profondità i bisogni e le paure dell’altro. Perché i simboli sono importanti. Ma dicono anche quanta strada resta ancora da fare.

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3 Commenti

  1. “Sì, sono questi atteggiamenti a permettere di andare oltre il muro. Con una sottolineatura importante, però: noi abbiamo troppo spesso un’idea buonista di dialogo e riconciliazione, abbiamo in testa che “in fondo sarebbe tutto così facile”. Non è così. La pace costa, ha sempre un prezzo”
    fa pensare al muro in casa Nazione indiana..

  2. bellissima intervista. Mi hai dato la voglia di andarmi a comprare il libro. Siamo troppo inondati da punti di vista e non abbastanza di storie vissute, senza parole superflue.

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