Il bandito della Barriera

bandito.jpgdi Maurizio Orlandi

(Ieri è stato pubblicato un breve pezzo su Pietro Cavallero. Ecco una nota del regista del documentario sul famoso criminale, dal titolo “Il bandito della Barriera”. FK)

La prima volta che sentii parlare di Piero Cavallero e di quella che tutti chiamavano la “ Banda Cavallero “, fu una sera del 25 settembre del 1967, il giorno della tragica rapina di Milano, quando durante la sparatoria che ne conseguì con la polizia, morirono 4 persone e altre 20 rimasero ferite.


E l’immagine che rimase, allora, impressa in me, bambino di 9 anni, fu quella di un bandito sanguinario, spietato, di “ un bandito che rideva, quando sparava a sangue freddo fra le vie di Milano…”.Questo era come presentavano il Cavallero giornali e televisioni. E questo è quello che la gente, ancora oggi, almeno quelli che non lo hanno conosciuto, ricordano di lui.
Questo è Cavallero.
Ho ritrovato Piero Cavallero molto tempo dopo, negli anni della mia maturità; quando ho deciso di entrare nella sua vita, per conoscere e raccontare questo personaggio, “a tutto tondo”, voglio dire nelle sue pieghe più segrete ed intime, per capire il suo drammatico percorso, sul piano umano, politico e spirituale.
E per fare questo, prima di iniziare il mio lavoro, mi sono posto una condizione necessaria, e cioè quella di partire dalla riflessione che la “ rapina in banca”, con tutte le sue più tragiche conseguenze che un fatto come questo comporta,  per quanto abnorme, voglio dire, essa sia, non è una cosa che sta sulla luna, ma fa parte di questa terra, della vita degli uomini, della vita di ognuno di noi.
Partendo proprio da questo presupposto, ho scoperto, piano piano, il Piero.
Ho scoperto, cioè, che la storia di Cavallero è una storia tanto simile a quella di tanti altri giovani, figli di quella Torino e di quel quartiere, la Barriera di Milano, che oggi non esistono più. Giovani appartenti alla generazione di un Paese che, proprio negli anni del “Boom” economico e “ delle magnifiche sorti e progressive”, cominciavano ad esprimere i primi sintomi di un disagio sociale, di una ribellione assurda e folle nei confronti di un mondo che, come sempre, per la povera gente, non cambia e non cambierà mai. Questo è stato anche Cavallero.

Dal punto di vista registico-narrativo, il documentario si svolge nel quartiere della Barriera di Milano ( la “barriera dl’emme”, come la si chiamava, allora, in dialetto torinese), in quel quartiere operaio e fortemente politicizzato, all’interno del quale, ancora oggi, il ricordo di Piero, nonostante tutto, è ancora vivo e positivo, comunque sia positivo, nella coscienza della gente. Ancora molto vivo, anche la Barriera di Milano è nella sua composizione sociale e nella sua struttura urbanistica profondamente cambiato: non ci sono più le fabbriche, nella Barriera, e non c’è più la classe operaia…
Il film è strutturato, diciamo, in quattro parti, che rappresentano i momenti più significativi della vita di Piero Cavallero; capitoli che sono stati costruiti seguendo il filo del racconto di 7 testimoni, tutte persone che hanno conosciuto Cavallero e che, spontaneamente, hanno voluto lasciare a me questa storia.
Le immagini utilizzate sono quelle girate, prevalentemente di notte, nei luoghi, diciamo, della “memoria”; in quei luoghi, cioè, dove si svolsero i fatti; immagini del “Presente” che si alternano con quelle del “Passato”: immagini fotografiche e di repertorio da me recuperate presso Circoli ed Associazioni torinesi.

(Nella foto: un’immagine emblematica del documentario)
 

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4 Commenti

  1. “Il male che hai fatto non si cancella. Non basta una vita in carcere. Ma non mi piace chi si pente per chiedere qualcosa, per ottenere la libertà. Il pentimento vero, quello che non cerca sconti di pena è tutto lì: riconoscere di aver fatto male a qualcuno, di avere sbagliato. E dimostrare che hai cambiato vita, che non sei più quello”.

    Pensate se questa bella cosa l’avesse detta così chiaramente anche Cesare Battisti. Forse non ce l’ha fatta perché non è un bandito ma un intellettuale.

  2. Ecco, caro Franz, io sono stato contento di leggere questo tuo ricordo vivido di un momento terribile: penso ai tuoi occhi di infante spaventato.
    Ricordo pure benissimo Cavallero e la sua faccia e il processo, e il film.

    Una cosa mi ha sempre colpito, Cavallero è stata una delle poche persone che in carcere hanno potuto “ravvedersi”.
    Si usa spesso la parola “pentito” ma il pentimento può essere davvero solo una comoda parola.
    I cristiani usano la parola “conversione” quasi solo con connotazione religiosa, ma la conversione, e lo dice il termine stesso, è una sorta di voglersi verso un’altra vita, un altro modo di vederla, praticarla e considerarla dal punto di vista etico e al contempo fare, compiere azioni volte al “bene”.
    Cavallero quando era a Porto Azzurro cominciò a mettere in piedi un giornale carcerario ad organizzare mostre di dipinti, svolse tutto un suo lavoro di “redenzione” ( termine troppo consumato) per i compagni di detenzione, e non mi pare che fosse religioso.
    Continuò da uomo graziato e libero.

    Nello stesso tempo sono rimasto sempre addolorato che alcuni brigatisti liberati non abbiano mai espresso chiaramente “pentimento” per aver creato morte e dolore a uomini, donne e famigliari delle vittime: ci hanno concesso sovente solo dichiarazioni ideologiche, tipo: era il momento sbagliato, non si poteva fare la rivoluzione.
    Mi pare che invece Franceschini abbia espresso tutto il suo vero rimorso di aver causato tanta sofferenza.

    MarioB.

  3. Scusatemi, mi sono sbagliato post, avevo commentato nel primo dedicato a tale argomento (3/4 prima di questo). Chiedo venia a FK. Mia svista notturna.

    Interessanti queste rivisitazioni di un passato non così lontano. Bisogna riflettere su questi aspetti storici dai più considerati marginali/secondari, se non esclusivamente cronacal/anedottici. Spesso è proprio nelle nicchie che si scopre il ‘tarlo’ che rode, ancora, il presente.

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