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Angelo Petrella, Fragile è la notte

di Guido Caserza

«Denis scartò il pacchetto e infilò una Rothmans in bocca (…).

Si alzò di scatto e aprì la finestra, sputando il fumo in direzione dei pini. La testa gli pulsava dalla mattina, aveva ingoiato due Aulin ma non avevano fatto effetto. Gli enzimi erano alti, il medico gli avva ordinato di darsi una calmata: “Cristo, piantala con quelle schifezze… Scopa di più o fai sport, magari ricomincia a giocare a tennis. Ma smettila col cognac.”

“È Macallan.”

“Quello che è. Mi hai capito.”»

Angelo Petrella, al suo primo cimento nel romanzo seriale, esibisce da subito, in incipit, il materiale narrativo di cui è composto il suo Fragile è la notte, primo episodio dell’ispettore Denis Carbone: altri tre ne seguiranno. Abbiamo, cioè, il tipico repertorio del poliziesco di commercio, con il poliziotto nicotinizzato e ulcerato da diuturne dosi di whisky. La sfrontata esibizione di topoi caratteriali ubbidisce in realtà a una precisa strategia testuale: Petrella mette subito in guardia il lettore; non aspettarti altro, sembra dirgli, in queste pagine non troverai altro che una carrellata dei luoghi comuni di cui sono infarciti i noir o le relative propaggini seriali. Ci sarebbe quanto basta per allontanare quel tipo di lettore-critico per cui il trionfo della trama sullo stile appare come un peccato capitale, anche moralmente connotato. A questo si aggiunga che all’origine della scrittura di Petrella c’è un’ossessione precisa: la conquista del lettore, se si vuole, in termini psicanalitici (ma di una psicanalisi selvaggia), del lettore-padre. Petrella sembra disposto a tutto, pur di blandirlo e conquistarlo. E ci riesce esemplarmente, propinandogli tutto l’armamentario del romanzo d’appendice rivisitato nei modi della narrativa seriale oggi dominante il mercato letterario ed editoriale.

Detto questo, occorre naturalmente aggiungere che Petrella è scrittore troppo scaltrito per soggiacere supinamente alle “normative” del mercato e della letteratura di genere. Egli, piuttosto, le usa come mattoni narrativi coi quali edificare una rappresentazione della realtà tutt’altro che banale. Il problema della rappresentazione è infatti problema capitale per Petrella, e ne diremo dopo.

Ma veniamo alla trama: l’ispettore Denis Carbone, coinvolto in un brutto affare di scommesse, è stato confinato per punizione nel commissariato di Posillipo, il quartiere bene di Napoli. Qui è ora costretto a misurarsi con casi poco significativi, topi d’appartamento e cose del genere, finché una mattina d’agosto il corpo di Ester Fornario, una signora dell’alta società dedita alla pratica del sesso estremo, viene trovato ai piedi della torre che domina la sua villa. A Carbone appare subito evidente che si tratta di omicidio. Il suo sesto senso gli dice anche che quell’omicidio è legato a un affaire che, come scoprirà il lettore, coinvolge i gradi più alti della gerarchia fino a un questore orditore di intrighi. A indagare sull’omicidio viene incaricata anche la squadra Mobile, in collaborazione, ma anche in concorrenza, con Carbone. Il quale scoprirà, celati in uno speccho di una misteriosa casa dirimpetto la villa di Ester, una serie di dischetti in cui sono custoditi segreti che dovrebbero rimanere tali. Va da sé che ai piani alti della gerarchia vorrebbero chiudere l’inchiesta con un colpevole di comodo, ma Carbone è il tipico eroe da poliziesco che non si ferma davanti a nulla, disposto a mettere a repentaglio la propria vita pur di scoprire la verità.

Come si snoda la trama e come si giungerà all’agnizione finale è naturalmente cosa che non può qui essere svelata. Appare comunque evidente, da quanto riassunto, come Petrella abbia giocato con gli stilemi tipici del poliziesco, mettendo in scena l’eroe solitario assetato di giustizia, i superiori corrotti, l’alta borghesia viziosa e il tipico intrigo che dà, verso l’epilogo, sullo spionistico.

È però proprio nel rifarsi al fenomeno estetico (e sociale, naturalmente) della letteratura di appendice, che Petrella marca la propria differenza e la propria arte. Come vuole il genere codificato, non manca nel romanzo anche la componente sentimentale: Carbone è infatti perdutatamente innamorato di Laura, la donna che lo ha lasciato anni prima e che ora è la moglie di Maurizio Albano, un pezzo grosso dell’Anticrimine e che sarà fatalmente l’antagonista del nostro ispettore. Ma la vicenda sentimentale, tipicamente romantica nel suo intrigo, è appena abbozzata, o emerge sporadicamente dai ricordi di Carbone. Ciò nonostante al lettore appare evidente il suo carattere ossessivo, talmente ossessivo da determinare l’andamente subnarrativo del romanzo e l’azione, in generale, del suo carattere principale. Direi che l’impossibilità di dimenticare la donna amata è la soap opera implicita dell’ordito. L’amore, ovvero la sua mancanza, è il vero motivo che spinge Carbone all’azione ed è per questo che la sua indagine si tinge di ineluttabilità. Al contempo è ciò che rende l’io dell’ispettore un io precario. Carbone non ha più io vero, reale, è in uno stato di morte in vita da quando è stato abbandonato dalla donna amata. Quest’uomo, che non ha più un io saldo e coerente, da cosa è spinto all’azione? Più che dalla sete di giustizia o dall’amore della verità, da quella figura dell’ansia che scaturisce tipicamente dal vuoto esistenziale provocato dalla frustrazione dei sentimenti amorosi. È questo vuoto a spingerlo all’azione o, detto in altri termini, alla fuga da sé stesso. Il suo essere non è nulla se Laura non lo prende in considerazione ed è, questa, una prospettiva shakespeariana, ed è in questo modo particolare in cui Petrella intreccia il motivo amoroso con quello investigativo che egli marca la propria differenza dalla narrativa di genere.

Ho parlato di prospettiva shakespeariana. Più su ho fatto cenno a uno specchio in cui Carbone trova dei dischetti. Tale specchio veniva impiegato per indicibili giochi erotici e pratiche estreme da Ester e i suoi accoliti, ed esso è un altro tema ossessivo nel romanzo, su cui l’elucubrazione investigativa di Carbone torna spesso. Mi sono chiesto il motivo per cui lo specchio risulti un tema ossessivo: non è tanto per il fatto che sia ricorsivo, né che sia per sua natura perturbante, ma perché esso funziona come riflesso e autointerrogazione di Carbone. L’ispettore, nel momento in cui ne fa un elemento cardine della propria indagine, ne fa anche, inconsapevolmente, lo strumento di una quête in interiore: chi sono? È la domanda implicita che l’ispettore rivolge allo specchio. Chi sono diventato? Chi ero? L’enigma di Amleto aleggia in quello specchio che, dunque, non è solo un espediente narrativo, ovvero lo strumento per la soluzione dell’inchiesta, ma, più significativamente, il simbolo dell’angoscia esistenziale del nostro eroe.

La capacità di caratterizzazione che contraddistingue Petrella passa attraverso questi dettagli, ed è notevole proprio per il fatto che vi riesce all’interno di un genere codificato ai cui stereotipi egli non rinuncia per precisa strategia testuale. Riesce, così, a rendere vivo e tutto tondo il carattere di Carbone pur non esplicitandone mai il rimosso, ma neppure gli aspetti psicologici poco meno che superficiali.

Alla domanda come Petrella riesca a raggiungere un tale risultato non ho una risposta precisa, ma credo che il ritmo narrativo vi tenga una gran parte. Petrella procede, in generale, per giustapposizione di brevi periodi, con archi sintattici stringati, adottando un ritmo che definirei giambico e che trasmette al lettore un senso di ineluttabilità. È anche per via di questo ritmo che Carbone appare come un eroe segnato da uno stigma che lo sovrasta, trascinato, più che dagli eventi, da sé stesso. Egli è un eroe malinconico, con lo sguardo rivolto al passato, il passato di un poliziotto dalla moralità tutt’altro che specchiata e quello di un amore tormentante: entrambi colorano di un pathos romantico la vicenda e fanno di Carbone un carattere letterario completamente riuscito. Per insistere su Shakespeare, la sua cifra dominante è la malinconia di tipo amletico, malinconia che, durante il procedimento investigativo, si amplifica nei sensi di colpa, poiché un effetto collaterale della sua indagine è stata l’uccisione di amici e colleghi.

Altro problema capitale, per Petrella, è la rappresentazione della realtà. Qui non è in gioco tanto il consueto tentativo di blasonare il genere poliziesco arricchendolo con la critica della società (cosa che è comunque presente nel romanzo, non fosse altro che per la rappresentazione della corruzione dei funzionari e dell’alta borghesia di Posillipo, definito «quartiere refrattario alla verità e alla giustizia»), quanto il problema di rappresentare una città come Napoli su cui si sono stratificati secoli di immagini stereotipate sia dalla letteratura che dalla narrativa turistica. Ovvero, come rappresentare una città che soffre di eccessiva rappresentazione, tanto che è quasi impossibile pensarla al di qua delle rappresentazioni che ne sono state date.

Petrella risolve il problema non affrontandolo di petto: Napoli, infatti, rimane sullo sfondo ed è evocata soltanto per rapidi scorci, anche in questo caso secondo una consuetudine narrativa che è tipica del nostro. Rapidi scorci che danno però al lettore un’immagine torbida della città del sole, qui trasformata in una città accidiosa, dominata, nel segno dell’akedia, da un disgustante demone meridiano.

Procedendo per svelte citazioni, il mare partenopeo appare come un «mare melmoso» (pag. 32 e, poco sotto, « Il mare…sembrava una cloaca»), all’orizzonte si stagliano «alberi flegrei, alti e moribondi» (44), Napoli viene vista, ovvero interpretata, come «una terra di nessuno abbandonata all’oscenità» (62), su cui grava «un’aria venefica» (81). È, detto icasticamente, un paesaggio che sembra «traboccare di malessere» (108), ed è corrispettivo metaforico di una città torbida, oscura, infetta, quasi una Parigi di Rocambole, che rovescia, e parodizza, l’abusato topos mediterraneo, ovvero, detto sbrigativamente, «le stronzate da cartolina» (56).

In conclusione, al lettore per il quale gli effetti di stile e l’originalità del linguaggio sono imprescindibili raccomanderei di fare tara alle proprie predilezioni e considerare che se lo schema narrativo di Fragile è la notte è un palese omaggio alle regole codificate e stereotipate del genere le implicazioni ideologiche e letterarie sono tutt’altro che scontate.

Guido Caserza

 

Angelo Petrella, Fragile è la notte, pagg. 160 – Marsilio Editori, euro 16.50

 

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Biagio Cepollaro, nato a Napoli nel 1959, vive a Milano. Esordisce come poeta nel 1984 con Le parole di Eliodora (Forum/Quinta generazione), nel 1993 pubblica Scribeide (Piero Manni ed.) con prefazione di Romano Luperini e Luna persciente (Carlo Mancosu ed.) con prefazione di Guido Guglielmi. Sono gli anni della poetica idiolettale e plurilinguista, del Gruppo 93 e della rivista Baldus . Con Fabrica (Zona ed., 2002), Versi nuovi (Oedipus ed., 2004) e Lavoro da fare (e-book del 2006) la lingua poetica diventa sempre più essenziale aprendosi a una dimensione meditativa della poesia. Questa seconda fase del suo percorso è caratterizzata da pionieristiche attività editoriali in rete che danno vita alle edizioni on line di ristampe di autori come Niccolai, Di Ruscio e di inediti di Amelia Rosselli, a cui si aggiungono le riviste-blog, come Poesia da fare (dal 2003) e Per una Critica futura (2007-2010). Nello stesso periodo si dedica intensamente alla pittura (La materia delle parole, a cura di Elisabetta Longari, Galleria Ostrakon, Milano, 2011), pubblicando libri che raccolgono versi e immagini, come Da strato a strato, prefato da Giovanni Anceschi, La Camera Verde, 2009. Il primo libro di una nuova trilogia poetica, Le qualità, esce presso La Camera Verde nel 2012. E' in corso di pubblicazione il secondo libro, La curva del giorno, presso L'arcolaio editrice. Sito-archivio: www.cepollaro.it Blog dedicato alla poesia dal 2003: www.poesiadafare.wordpress.com Blog dedicato all’arte: http://cepollaroarte.wordpress.com/
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