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I sogni non parlano se li svegli – Alba Metaponte

Tre poesie di Alba Metaponte dal libro

“I sogni non parlano se li svegli” (Edizioni Progetto Cultura, 2025)

 

Princìpi, precetti e regole

Io e mio padre arrivammo dal dottore. La sala d’aspetto era stracolma di gente. Non ci
sedemmo, ci sembrò superfluo. Se avessimo occupato altre due sedie, la nostra attesa si sarebbe prolungata. L’ergonomia ha fatto passi da gigante e il comfort delle sedute ci avrebbe procurato uno stato di relax eccessivo. Decidemmo entrambi di rimanere
protesi verso l’alto con il corpo eretto e gli occhi puntati al soffitto squamoso, un mostro di lana di vetro che raccontava con garbo, quasi in silenzio, tutti i discorsi assorbiti dalle pareti. Mio padre camminava avanti e indietro calpestando sempre le stesse mattonelle con un rituale antipatico. Io per conto mio tenevo la nuca al sole. Le entrate e i corridoi con molto traffico pedonale avevano semafori immaginari per evitare che le persone cozzassero in un calpestio senza sosta. La gente con problemi oculistici, vedeva solo il verde. Mi misi a contare i passi delle scarpe che uscivano, entravano e viceversa. La vita è piena di meraviglie come questa, la matematica dei passi. Le scarpe non lasciavano impronte, ma da una suola guizzarono esseri ricurvi a forma di cilindro o rotondi.
Alcuni disposti a cubo con colorazione di invertebrati marini. Correvano velocissimi in
tutte le direzioni lasciando una scia appiccicosa e multiforme. Una coppia formò una
pappetta grigia nel giunto aperto di un pavimento, si dibatteva e sembrava soffocare.
Non c’era ossigeno, solo frecce direzionali. Una si staccò, strisciò faticosamente
e finalmente si infilò nel taschino della giacca dell’infettivologo, salì pian piano per il
pomo d’adamo come scalando una montagna, ansimando plasticamente. Si fece
coraggio e con la leggerezza di un atleta si lanciò tra le fessure rosate dell’ugola. Il
medico ci chiamò per entrare.

 

Il mago

Il mago viveva in profonda solitudine, usciva solo per comperare cibo e rientrava
correndo per una strada decorata con docili alberi azzurri. A volte dimenticava qualcosa, ma non tornava mai indietro. Si vergognava molto della sua faccia da formichiere, per questo usciva con un mantello nero per nascondere il suo volto. Nessuno vide mai la sua faccia. Solo gli servivano gli occhi per non perdere la rotta. Le sue pupille si allargavano o si riducevano secondo le stagioni. La sua vita era una sequenza di colpi di scena, una liturgia senza regole che mutava in ogni istante adornata di candelabri, scritture sacre e varie decorazioni.
Il mago solo voleva essere mago e niente di più, però non confezionava figure di fumo
per chiunque, né faceva incantesimi per domare dragoni, e nemmeno innamorava
le api che gli pungevano il volto. Girava e rigirava fino a puntare la direzione opposta.
Il cappello gli rubava il giorno come un ladro, e lì solo appariva la sua notte, la sua
compagna con denti stellati, il suo nido affamato di buio. E mentre la luna ululava
ai lupi, lui faceva copie di se stesso.

 

Morte di un tasso

Giacevi dietro un sipario di asfalto, il tuo corpo era così pesante come imbottito di paura per qualcosa che non conoscevi. Macabra la primavera ti portava un feretro per il suo debutto. La morte è incantevole dicevano i corvi. “É laggiù, lo hanno lasciato sulla
strada”. Il silenzio non rispondeva e io neppure. Le voci non si fermarono: “É
circondato di formiche che accarezzano la sua immobilità, guardano le sue mani distese come croci, lo hanno lasciato solo come se non fosse mai nato”. La terra era imbevuta della stessa aura funesta che ricopriva la porta e le pareti della luna. La norte quel giorno cercava una forma per disegnare la sua immagine e la trovò nel tuo
mimetismo, nella tua intelligenza di architetto delle tenebre, nelle cavità del terreno, nel pianto dei tuoi fratelli. Sei diventato così piccolo come una goccia di sangue e le
mosche ballano davanti la tua bara di viaggiatore notturno. La notte come un sicario ti
fermò di colpo mentre con i tuoi piccoli passi di orso uscivi tra le ombre del mais a
cercare la tua libertà. Ascolta come si mescolano nel campo i venti, come piangono gli
uccelli verso il nulla creatore. La tua morte spaventò gli angeli che dormivano nella terra, sotto i tuoi corridoi di cieco, dove adesso le farfalle seminano vermi in un luogo
disabitato. Sotto il tuo corpo emerse la mia mano, ti ho guardato per un istante che
furono mille e le mie lacrime ardenti hanno bagnato il tuo corpo freddo, non ti
abbandonerò con questa cenere di ortica nel petto, con questo inganno dell’oblio.
Lascerò che i tuoi passi si propaghino nel ventre della terra, che spargano le tue radici, e aspetterò la prossima primavera per incontrarti nel fulgore di un fiore bianco di ciliegio, lo stesso fiore che ti ho lasciato un giorno di aprile imbevuta di pioggia e di lacrime.

 

 

 

 ———

Alba Metaponte è nata in Calabria e ha vissuto a Bologna, Roma, Santiago del Cile.  Ha tradotto importanti poeti latinoamericani tra i quali risaltano i cileni Vicente Huidobro, Pablo Neruda, Nicanor Parra, Oscar Hahn e Jaime Huenún; le argentine Alejandra Pizarnik e Olga Orozco; la uruguaiana Marosa Di Giorgio; la peruviana Blanca Varela, la messicana Rosario Castellanos, e molti altri.

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