L’ultimo uomo – racconto inedito di Arianna Starace
L’ultimo uomo
di Arianna Starace
(illustrazione di Luca Dalisi)
– Crede che non sia giusto?
Il generale si era tolto la maschera.
Era la prima volta che succedeva, da quando il prigioniero era rinchiuso lì. Il prigioniero non aveva mai fatto domande. Il prigioniero non aveva mai dato risposte. La divisa in tessuto antitaglio aveva sempre difeso il generale da capo a piedi. Il prigioniero aveva sempre pensato che fosse una misura di protezione, una tutela contro l’imprevedibilità della rivolta.
Forse solo in quel momento il prigioniero comprese la reale entità della propria impotenza. Non avrebbe colpito quell’uomo nemmeno se avesse avuto un’arma tra le mani e lui fosse stato nudo, perché da lì non c’era modo di scappare. Erano troppe le guardie per il solo, unico prigioniero di tutto il mondo. Non sarebbe servito a niente. Perché è questo il vero potere: rendere sterile ogni atto di rivolta con la consapevolezza che dietro il volto del potere c’è solo un altro volto del potere.
– Se non prova pena per le persone a cui ha fatto quello che ha fatto, almeno…
Il prigioniero era abituato ai discorsi sospesi del generale, a quegli improvvisi silenzi tra le parole. Avevano lo scopo di condurlo all’esasperazione. Eppure continuava a non parlargli. Mai.…
– almeno non prova pietà per sé stesso?
Il generale si rimise la maschera, si alzò dalla sedia, uscì dalla cella.
Finalmente solo, il prigioniero sollevò per la prima volta lo sguardo sugli oggetti che il generale aveva poggiato sulla panca prima di togliere la maschera. E capì.
Il generale gli aveva lasciato il margine di una scelta; una scelta simulata, concessa: una scelta imposta come ulteriore atto di potere. Un bisturi, nel caso avesse preferito il taglio; una boccetta che conteneva presumibilmente un farmaco da trapasso; una corda ben spessa da non spezzarsi sotto il suo peso.
Il prigioniero non pensava più a cosa avesse fatto prima di essere condotto in prigione, né riusciva a provare pietà per altri o per se stesso, né a desiderare davvero quella fine. Da quando era rinchiuso lì la memoria era stata costantemente schiacciata dalla sua volontà di rivolta, dall’ossessione di riconquista della libertà.
Voleva soltanto sapere come era diventato il mondo in quei decenni: se andavano ancora di moda i pantaloni a campana, come la gente acconciava i capelli, sentire odori dimenticati. Vedere la luce del sole poggiarsi a terra senza l’ombra delle sbarre.
E non le capiva più le parole del generale. Quale delitto aveva commesso il prigioniero, quale delitto più atroce del condannare un uomo alla vita che lui conduceva lì? Non contava più niente ciò che aveva fatto prima, per lui.
Eppure, qualcosa doveva essere cambiato in quei giorni.
Erano almeno trecentocinquantadue anni che grazie al Nuovo Corso la pena di morte era stata abolita in tutto il mondo. Lo sapeva bene, perché anche lui da bambino aveva partecipato ogni anno alla parata della Liberazione tra i piccoli Gavroche. Almeno trecentocinquantadue, pensava, perché non era ben consapevole di quanto tempo fosse passato mentre era rinchiuso lì.
Quindi, quando sollevò lo sguardo su quegli strumenti di morte, la vita sembrò tornare. Potevano significare solo una cosa: che il Nuovo Corso era in crisi, che si erano rese necessarie azioni più drastiche, che bisognava in qualche modo eliminare il prigioniero. Forse era stata reintrodotta nel Codice la possibilità di una pena di morte, anche se solo suggerita: un segnale di cedimento.
Era paradossale nutrire speranze nella reintroduzione della pena di morte, ma se qualcosa della sua vecchia anima rimaneva era l’istinto verso la bellezza della deviazione.
Nessuno venne più a portargli da mangiare. Il sole era salito su in alto per tornare giù almeno tre volte. Animato dalla sua nuova speranza, il prigioniero attese.
E attese.
E attese.
Non aveva quasi più la forza di muoversi, ma finalmente sentì il rumore della sommossa dalla finestra della sua cella, sentì le esplosioni, e i colpi di pistola, e i rumori sordi degli scontri, e respirò l’odore di polvere da sparo e di incendio. E fu allora che, finalmente, ricordò bene perché era lì.
Il Nuovo Corso era quanto di più vicino alla perfezione potesse esistere. Il Nuovo Corso era scientifico. Era un fulgido esempio di illuminismo e razionalità. E proprio perché lo era veramente, proprio perché questa non era propaganda, ma una solida realtà, proprio perché aveva garantito più di tre secoli di pace e prosperità, il Nuovo Corso non rendeva più plausibile per nessuno la volontà di dissentire, non rendeva più necessaria la minoranza.
Da almeno trecentocinquantadue anni non esistevano omicidi, aggressioni, violenze, sopraffazioni. Non esistevano più le prigioni, se non quella creata appositamente per un solo ribelle: lui. Non esistevano guerre, non esisteva povertà. Nessuno avrebbe osato opporsi al Nuovo Corso perché sarebbe stato da folli non ammettere la sua ineluttabile, lampante, cogente pace. E nessuno ammetteva né cercava più la devianza, l’opposizione, l’errore, la corruzione, la crudeltà. Contro cosa l’uomo del Nuovo Corso avrebbe mai potuto indirizzare le sue parole, i suoi atti? Il Nuovo Corso aveva tolto agli uomini ogni possibilità di scelta: ciò che rende uomo un uomo.
E il prigioniero, invece, era stato un uomo. All’inizio, uno tra i pochi. Ma, a giudicare dai rumori della rivolta che sentiva sempre più vicini, per le strade, all’ingresso della prigione, e infine per le scale, fino quasi al suo corridoio, e fino alla sua porta, doveva aver nutrito un foltissimo gruppo di uomini.
Perché la rivolta l’aveva creata lui, tanti anni prima.
E nella riprovazione generale era diventato l’unico detenuto di un intero mondo felice.
Capì in pochi secondi che aveva dimenticato tutto, in quei lunghi anni, perché il suo oppressore non gli dava alcuna possibilità di scelta, costringendolo a indirizzare ogni suo pensiero contro l’oppressione stessa. E pensò improvvisamente ai racconti di come era il mondo prima, alla fame, alle ingiustizie, al caos, alle guerre. Non ripudiava il Nuovo Corso in sé – come avrebbe potuto? -, ma come lo faceva sentire: un essere senza volontà propria.
E capì che ora quel mondo felice che veniva a liberarlo si stava ribellando alla sua stessa felicità, come aveva fatto lui, per un vuoto che nessuna pace di secoli potrebbe mai riempire.
Quando la porta si aprì, lui fu libero.
Libero di giudicare da solo l’entità della sua colpa. E fu allora che afferrò il bisturi e se lo conficcò nel collo.
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Arianna Starace nasce a Napoli nel 1988: decisamente troppo tardi. Si laurea in lettere classiche; invece di scappare su un altro pianeta persiste nell’errore con qualche anno di ricerca. Fortunatamente riesce a fuggire in una scuola in terre remote, dove fa l’insegnante. Ha scritto diversi racconti, pubblicati su riviste online (Metatron, Nido di Gazza), un racconto illustrato pubblicato su La Lettura del Corriere della Sera e un romanzo, ancora inedito. Gestisce un circolo letterario, L’Ippografo.