Sentimental journey

di Carlotta Centonze

Provo ad aprire gli occhi, ma un dolore azzurro mi abbaglia. Quando calo di nuovo nel buio, come una molla le narici si allargano a far entrare più aria possibile. Il rumore della goccia di liquido che sento scorrere nel braccio è cristallino, il suo odore asettico mi punge fino alle lacrime. «Non si agiti, che altrimenti il liquido si riempirà di bolle.» La donna che mi parla ha un accento flemmatico, come se quello che ripete la annoiasse a morte. «Ci avevamo provato col primo occhio, ma lei è così ostinato. Le hanno dovuto azzerare anche il secondo.» Ora sento il suo profumo, un décolleté alla magnolia, ricco e carnoso. L’aria mi entra nel naso a fiotti, in risposta alla richiesta del petto su cui agisce una pressione costante, insopportabile. «La sterilizzazione parte dalla vista, è l’unico modo per mettervi alla prova prima dell’intervento definitivo.» Più parla, più ho la nausea. Appena la sento spostarsi, il suo odore viene rimpiazzato da quello troppo intenso di fiori recisi. Mi fa venire voglia di morire, su questo letto dalle lenzuola tirate e senza pieghe. Penso al mio corpo come a un imbuto, dentro ci passa un fiume schifoso, mi puntella e mi investe con la forza di un rigurgito acido e il suo puzzo marcescente mi cala in un sonno tondo come un uovo.

Il treno della metropolitana viene risucchiato dal buio della galleria, viaggiare è l’unico modo di sentire che i miei pensieri si spostano. L’aria che soffia dal tunnel è pesante del bruciato dei freni e dell’irripetibile mescolarsi delle nostre esalazioni.Sono in piedi vicino a un impiegato, ha la camicia zuppa di sudore e il fiato acre, diventa così insopportabile che mi sposto.
Mi siedo davanti a una ragazzina di tredici anni, è vestita per dimostrarne di più. Porta i capelli lunghi e folti sopra il viso, indossa un vestitino a quadri che sono sicuro sappia di sapone e sacchetti di lavanda.
Sono tentato di chiedere a sua madre di pagarla per lasciarmi la figlia a disposizione per una mezza giornata in studio.
Vorrei fotografarla, magari con Chiro. Poi cambio idea. Ultimamente appena concepisco un’impresa mi viene subito il desiderio di abbandonarla. Non credo sia rassegnazione o indolenza, piuttosto una persistente noia che mi impedisce di fare il minimo programma.
Il vagone piomba improvvisamente nel buio totale, l’aria si riempie di quell’olezzo ripugnante, mazzi di fiori che appassiscono.
Mi assale il panico, non so come farlo smettere.
Allora ho un’idea, apro la finestra, metto la testa fuori e poi mi lancio con tutto il corpo nella notte artificiale e profondissima.

Quando mi sveglio, mi ci vuole un po’ per capire dove sono. L’ospedale è dietro casa mia, non ho impiegato molto tempo ad arrivare e consegnare la busta che ho ricevuto nella buca delle lettere. Una convocazione d’urgenza ti piomba addosso e la giornata è da buttare. Ho maledetto il Ministero del Costume e ho preparato la borsa con un cambio.
Ora sono qui. Non vedo niente, se non nella mia testa, e finisco per pensare al passato, non avendo nulla da fare.
La donna di ieri non è ancora venuta. Mi rendo conto che vorrei fosse qui per coprire questo puzzo di fibra vegetale in decomposizione con il suo aroma familiare, di pane e olio di mandorle dolci.
Mi vengono in mente i suoi capezzoli, è lì che di sicuro si mantiene la nota più delicata del suo corpo. Pallide, maliziose, dolci roselline che solleticano il palato.
Ne ho visti di tutte le tipologie, li ho fotografati mentre il desiderio mi annebbiava la vista, ma questi non devo vederli per capirli, o almeno credo.
Mentre scatto delle immagini dei miei pensieri cercando di cristallizzare le pose delle sue gambe aperte verso di me, mi ricordo che ho sentito il suo odore nel buio della galleria, mentre sognavo.
Forse anche nel sonno le infermiere spiano per controllare l’esito della sterilizzazione?
Mi abbandono allo sconforto, e niente mi sembra più triste di non poter ammirare quei capezzoli.

Sto camminando sul lungomare inondato di sole.
Il mattino è gentile, canto una vecchia canzone, che forse ho appena inventato.
Mi ricordo che devo correre, gli altri mi aspettano. Quando arrivo al vicolo dove ci riuniamo sempre per tirare con la fionda, mi rendo conto che non vedo più nulla. Provo a urlare, ma non esce alcun suono.
Riconosco l’alito caldo di Abe, un fiato che sa di brodo di pollo anche se sta mangiando una frittella del venditore ambulante. Dietro al mercato, dove giochiamo, l’acqua si concentra in pozze tiepide che esalano i liquami degli scarti vegetali – cipollotti, funghi – ma anche delle budella animali – di galline, anatre e maiali.
Quell’odore mi commuove, per ragioni inspiegabili è come se creasse un tutt’uno olfattivo con le minestre bollenti della nonna, il vapore speziato che sale fino al soffitto in nuvole spesse.
Al buio non so usare le bacchette, allora provo a prendere gli spaghetti ficcando la mano intera nel piatto, sorprendendomi della mia stessa idiozia.
La mano, scorticata, puzza come una braciola di maialino da latte.

Non mi sono mai vergognato di dire che ho iniziato a usare la fotocamera per immortalare le donne con cui riuscivo ad andare a letto. Portavo poi le prove ai miei amici, che trovavo seduti nella nostra stanza, troppo piccola per starci in tre.
Ho sempre pensato che la vista conducesse tutte le mie azioni, ma non ne sono più sicuro.
«Lei reagisce benissimo alle cure, è uno dei migliori pazienti a sottoporsi alla prima fase del programma. Sta dando ottimi risultati.»
L’infermiera mi tocca dolcemente la fronte con la mano, il suo calore è rassicurante.
Vorrei che si sdraiasse vicino a me, per poter poggiare la testa sul suo petto e respirare il suo corpo, il collo, le ascelle.
Non so cosa dirle, le sue parole suonano false, come se le avesse ripetute troppe volte per dargli ancora un senso.
«Cosa succederà ora?»
Spero che non si sia accorta dell’angoscia nella mia voce.
Anche se quello che mi ha detto fosse falso, voglio coltivare l’illusione di essere davvero il suo paziente preferito.
«Non c’è fretta. Nei prossimi giorni le spiegheremo con calma la procedura.»
«Per quanto tempo dovrò stare ancora qui?»
«Per tutto il tempo necessario. Dovremo aspettare che la sua attività onirica si annulli, in modo da interrompere qualsiasi stimolo visivo del suo cervello. Vedrà, le piacerà e non vorrà più tornare indietro.»
Capisco che non era una coincidenza che i miei sogni fossero sempre più oscuri.
Non ci sono più dubbi che l’infermiera abbia visto le immagini prodotte dalla mia coscienza addormentata, e la cosa non mi dispiace.

Sono in un locale pieno di uomini.
L’unica ragazza che è nel bar è nuda e cammina da un lato all’altro del lungo tavolo, avanzando leggera, una vera coquette. Gli uomini la guardano e la toccano sulle gambe. Lei allora si china e le allarga. Loro scrutano in mezzo alla fica, schiusa come un frutto maturo, e avvicinano il naso e l’occhio alla fessura umida. Si spintonano per osservare, mentre la ragazza li lascia fare paziente. Un uomo le allarga le labbra tirando la pelle lucida e molle, vuole vedere meglio. Lì per lì non capisco cosa li attira, ma quando è il mio turno ne sono ammaliato e ci guardo dentro sperando di scorgere le mucose, di trapassare le viscere e scoprire infine l’ultimo segreto rimasto intatto, cioè il mistero del tempo.

La donna da una diventa molte, legate e vibranti. Calato nel buio d’improvviso, come un gattino cieco mi spingo anche io verso le loro cavità corporee, annusandone l’umidità stantia, cos’è questo odore di uovo? Una di loro partorisce una piccola sfera, e così tutte le altre. Lecco la pelle con i peli e il sudore eccitante delle ascelle e dell’inguine, le bocche piene emanano un lieve sentore di carne cruda, le nuche profumano di cuoio capelluto. Sto per lanciarmi sul culo e sui piedi di una ragazza bellissima, dopo che la vista improvvisamente è ritornata nitida e la vedo accucciata.
Fotografo quel momento in cui sembra che sia già morta: un feto, un uovo perfetto e bianco.
Ora che la vedo da vicino, la riconosco.
Un dolore dolciastro al petto e allo stomaco si espande in tutto il mio corpo.
Izumi.
Amore mio, sembri una barchetta sul fiume, il tuo alito di vegetazione mi sveglia il ricordo di tutta la vita insieme, ne ho scattato ogni momento, scoprendo che non potevo pretendere di conoscerti.
Vorrei abbandonarmi al tuo calore, al profumo dei tuoi angoli che è l’unica cosa che di te conosco bene.
Invece posso solo guardarti, e questo non basta affatto.

«Si svegli.»
Apro gli occhi, ancora intorpidito nel dolore ovattato del sogno. La vista mi è tornata, non è un buon segno.
Vedo l’infermiera per la prima volta, è brutta. Disprezzo le donne così poco curate e allo stesso tempo desiderose di attenzioni. Da quando sono qui non ha mai abbandonato quel suo tono accondiscendente, come se il trattamento riservato a me non fosse lo stesso che per tutti gli altri pazienti.
«È contento, vedo.»
«Veramente non so cosa pensare.»
«Meglio così, non c’è tanto da fare. Almeno ci abbiamo provato.»
Il suo viso non ha nulla di interessante, è una di quelle persone che danno l’impressione di non lavarsi mai i denti, il mio cervello ne ha già creato la puzza. Non sento più la fragranza di pane dei seni caldi. Tutta la sua figura mi crea una nuova nausea che mi schiaccia lo stomaco, non posso sopportare il suo patetico bisogno di essere guardata.
«Posso andare via quindi?»
«Nel pomeriggio le firmeranno le dimissioni. Sarà libero, almeno fino all’operazione definitiva.»
Mi sforzo di essere gentile e, anche se non so fingere, sembra essersela bevuta.
Resto da solo nella stanza che odora della mia urina, è da qualche giorno che non mi lavo.
Le luci mi infastidiscono, chiudo gli occhi e ripeto una parola qualsiasi come un mantra, per liberarmi da ogni pensiero.

Sulla spiaggia, il vento trasporta il fetore delle alghe depositate, la salsedine mi investe a zaffate scompigliando i miei pochi capelli.
Quando Izumi è morta, ho eiaculato cinque volte in tre ore.
Ogni volta mi sembrava di sentirmi meglio, di allontanarmi altrove.
Guardo il sole appoggiarsi sulle case vicino al mare, un tuorlo delicato sulle palazzine scolorite, la sua luce arancione è così bella che mi fa piangere. Ho attraversato la città per arrivare qui, e anche le camicie degli impiegati, milioni di camicie tutte uguali, persino quelle mi hanno fatto commuovere.
Il mondo è così bello che ti fa male.
Lo guardo e penso che, finché ci sono, ho un’intera città da fottere.

(l’immagine: illustrazione di Chiara Ghidelli)

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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