Les nouveaux réalistes: Lorenzo Mineo
Con la testa sott’acqua
Di
Lorenzo Mineo
Me ne stavo a bordo piscina, nella casa di campagna della mia amica Marta, con le gambe a mollo e la leggera sensazione di trovarmi fuori posto. A dir la verità avrei voluto essere al mare, forse perché sono nato in una città di mare e in vacanza non sopporto di stare altrove. O forse sono solo una di quelle persone che preferisce il mare quando sta in piscina, il riso quando mangia la pasta, il treno quando prende l’aereo, eccetera eccetera.
Non era un’estate come tutte le altre. Era l’estate della laurea, e questo faceva una bella differenza. Nel giro di qualche mese, Bruno si sarebbe ritirato dal negozio e avrebbe deciso se venderlo o lasciarlo a me. Sperava che mi sarei fatto le ossa lavorando con lui per un po’. Appena sarei stato pronto, avrebbe lasciato a me la proprietà, proprio come suo padre aveva fatto con lui, e il padre di suo padre ancora prima.
Certo, avrei potuto rifiutare… chiudere la storia di famiglia e tanti saluti al negozio.
In pratica, alla fine delle vacanze mi aspettava una scelta, la cui importanza era direttamente proporzionale alla mia impreparazione a prenderla: avrei raccolto l’eredità di tre generazioni o avrei cercato un’altra strada? Se la prima opzione non mi fosse parsa particolarmente interessante, la seconda mi avrebbe lasciato in uno stato di paralisi e indecisione cronica. Quella mattina, dicevo, me ne stavo a bordo piscina, ma avvertivo piuttosto di essere seduto sulla bocca di un fiume. Era un fiume di cui avevo sempre conosciuto il corso e fino a quel momento non avevo dovuto far altro che seguire la corrente. Soltanto che adesso stava per sfociare in acque incognite. Sapevo di dover intervenire, decidere IO verso quale sbocco orientarlo. E forse, a pensarci bene, a farmi sentire fuori posto non era tanto il desiderio di essere al mare, quanto la paura di ritrovarmici dentro senza aver ancora imparato a nuotare.
Comunque, stavo rimuginando su tutto questo, quando uno SPLASH in lontananza aveva interrotto i miei pensieri. Immersa nell’azzurro, avevo riconosciuto Marta avvicinarsi dall’altro capo della piscina, per poi riemergermi accanto al grido di «UN MINUTO E SEDICI SECONDI!», accompagnato da uno sguardo fisso sull’orologio subacqueo.
«A che pensi?» aveva detto, venendosi a sedere.
«A niente.» avevo risposto, non proprio sicuro di saperle spiegare la metafora del fiume e tutto il resto.
«Dai Massimo, non dire cazzate!» aveva detto dandomi una leggera spinta sul braccio. «Se non avessi niente a cui pensare non te ne staresti immobile alle 7 del mattino a fissare l’acqua mentre sei in piena vacanza.»
Non ci avevo messo molto a confessare. L’insistenza di Marta riusciva sempre a far vacillare le mie resistenze.
«È che mi sento confuso. Ora che è finita l’università devo fare una scelta. Mio padre mi ha chiesto se voglio andare a lavorare con lui, nel negozio di famiglia. Potrei fare carriera, seguire le sue orme.»
Avevo lasciato cadere un piede nella piscina, producendo un piccolo tonfo.
«Ma non so se mi va» avevo concluso, sentendo montare in me il rifiuto di diventare come l’acqua che si spostava sotto il mio peso: privo di forma, disposto ad assumere quella che mi veniva imposta dall’esterno.
«Non sai se ti va o semplicemente sai già che non ti va?» aveva chiesto Marta con l’aria diffidente di chi non si accontenta di risposte generiche.
«Tu mi conosci.» avevo detto. «Ho studiato economia solo perché mi sembrava la più semplice tra le lauree che la mia famiglia considerava accettabili. E adesso, anche se non me ne frega niente del negozio, è una scelta che mi rassicura. Dovrei soltanto seguire un percorso già tracciato, come ho sempre fatto. Così posso continuare a non chiedermi cosa voglio diventare.»
Marta aveva sorriso (un sorriso di sufficienza, di quelli che si rivolgono a chi si pone problemi inesistenti? O un sorriso intenerito, di chi mostra empatia per le fragilità degli altri?) e sfiorandomi il ginocchio con la mano ancora gocciolante, aveva detto:
«Diventare, diventare, diventare. A me sembra che la maggior parte delle persone alla nostra età si ponga le domande sbagliate. Cose tipo pagarsi gli studi, trovarsi un lavoro decente per arrivare a fine mese.»
Aveva emesso un lungo sospiro. «Se c’è una cosa che mi spaventa nella vita, è il pensiero di non trovare mai un grande amore. Non mi importa di nient’altro.»
Diceva così, le gambe a mollo nella piscina, gli occhialini da nuoto ancora addosso che le coprivano gli zigomi sporgenti, il costume nero aderente che accentuava i lineamenti rigidi del corpo.
Forse neanch’io mi preoccuperei di trovare un lavoro se avessi una piscina così, pensavo. Forse cercare l’amore è un lusso per ricchi, la gente comune vive quello che le capita e nulla più.
«Forse non potremmo semplicemente farci un bagno e goderci le vacanze?» avevo detto, improvvisamente spaventato dal circolo vizioso di domande esistenziali innescato da Marta.
Così a fare SPLASH ero stato io stavolta, aspettandomi di essere seguito.
E invece Marta non si muoveva. Restava accovacciata a bordo piscina, nella stessa posizione fetale in cui mi aveva trovato.
Stavo già prendendo il largo, quando la voce insistente della mia amica mi fermò dopo appena due bracciate.
«Guarda che non te la cavi così, Massimo. Ti ho appena svelato la mia più grande paura. Adesso tocca a te»
Era piuttosto tipica di Marta, questa brama febbrile di andare al dunque senza lasciar nulla di inevaso. A dir la verità era una caratteristica della nuova Marta: quella che aveva imparato ad andare all’arrembaggio della vita, invece di restare sempre in attesa. Da qualche anno aveva perso quell’insicurezza costante che ci accomunava ai tempi del liceo, che ci portava a indugiare su ogni scelta: dai vestiti da indossare fino ai ragazzi/ragazze da frequentare. Questa sorta di indecisione perenne era stata l’affinità che ci aveva spinto a corteggiarci timidamente tra i banchi di scuola, in un tempo lontano che a ripensarci sembrava la vita di un altro. Alla fine, da buoni indecisi, non eravamo mai arrivati a nessuna conclusione, se non quella che potevamo soltanto essere amici, se non altro per aver trascinato troppo a lungo il nostro flirt adolescenziale.
In ogni caso, era stato all’università che qualcosa in lei era cambiato. Sembrava più risoluta, nel ritmo dinamico della sua vita, scandito dalle nottate sui libri, dal nuoto cinque giorni a settimana, ma anche dalle albe passate a fare serata e dalla sua totale noncuranza del giudizio altrui. Forse era stato lo studio della filosofia ad aiutarla a superare le vecchie incertezze, dandole una certa inclinazione nel coniugare pensiero e azione. Forse era semplicemente cresciuta. E adesso, Marta la filosofa, Marta l’adulta, mi sfidava a viso aperto, chiedendomi di affrontare le mie paure con la sua stessa determinazione.
Cos’era a spaventarmi sopra ogni altra cosa? La domanda si presentava ai miei occhi in tutta la sua spietata concretezza. Così, non avevo trovato nulla di meglio che provare a schivarla: avevo preso fiato per andare sott’acqua e restarci il più a lungo possibile. Dovrebbe funzionare in questo modo anche nella vita di tutti i giorni, credo. Dovrebbe esistere il diritto a starsene con la testa sott’acqua ad ogni domanda indesiderata, ogni appuntamento con le nostre paure e responsabilità.
In apnea, mi sembrò per un momento che il mondo in superficie si fosse dissolto, un po’ come le bolle che risalivano a galla al ritmo lento del mio respiro. Da quella distanza anche la domanda di Marta sembrava meno spaventosa. Provai a concentrarmi, mettere in fila le mie paure più recondite. Eppure, nella mia mente c’era spazio soltanto per una sequenza sparsa di ricordi, riaffiorati confusamente, senza che potessi controllarli davvero: la campanella dell’uscita di scuola del martedì, il giorno della settimana in cui veniva a prendermi mia nonna; la prima volta che Bruno mi fece fare il giro del negozio, e mi chiesi come facesse a resistere tutto il giorno tra l’odore di ruggine e il rumore dei pacchi sbattuti sul pavimento; il viale di pini dove abitavo da bambino, sfondo del mio primo bacio, poi interrotto dal tremolio della gamba che aveva spaventato la ragazza; gli scherzi telefonici alle medie con Giulio e quella volta che stavamo per essere sospesi, ansimanti per ore nello studio del vicepreside; la prima volta che vidi Marta in classe, e per attaccare bottone le chiesi in prestito un temperamatite.
Che restava di tutto ciò, mentre la mia vita era a un passo dal prendere una nuova direzione? Ecco la mia grande paura, a un tratto mi sembrò di averla davanti agli occhi: che tutti questi ricordi si sgretolassero senza possibilità di recupero, schiacciati da un futuro dove ogni cosa era destinata all’oblio. Ma che potevo fare per evitarlo?
Sarei rimasto per chissà quanto tempo in questo stato meditativo, se non fosse terminata la mia resistenza all’apnea. Dandomi una spinta dal fondale, ero riemerso in superficie, col fiatone e una faccia impallidita che aveva portato Marta a ridermi in faccia al grido di «Madonna che pippa, 40 secondi!», perdendo in un colpo solo tutto il suo aplomb da filosofa.
Certo, avevo appreso con un certo disappunto di aver resistito appena 40 secondi invece dei lunghi minuti percepiti, ma quel fiatone era valso a qualcosa: ero emerso dall’acqua con una nuova consapevolezza.
«La mia paura più grande è dimenticare il mio passato!», avevo detto con voce sicura e una punta di euforia per aver trovato una risposta che mi pareva di discreto spessore. Con mia grande delusione, Marta aveva sbuffato (uno sbuffo annoiato, di quelli che riserviamo agli argomenti privi di interesse? O uno sbuffo irritato, di quelli che rivogliamo soltanto alle persone con cui vale la pena arrabbiarsi?). Poi, scuotendo la testa, aveva detto:
«Sei proprio come tutti gli uomini, un eterno bambino che si rifiuta di crescere.», rivelando in un attimo tutta la banalità della mia risposta, che poco prima m’era parsa tanto profonda.
«Il passato è passato, Massimo. Dimmi piuttosto, cosa pensi di fare per apprezzare il tuo presente, invece di crogiolarti nella nostalgia come fai sempre.» mi aveva incalzato la mia amica. Era così che funzionava con lei: proprio quando credevi che il dibattito fosse finito, lo rilanciava raddoppiandone la complessità.
«Di sicuro passare una vita dietro un bancone a fare calcoli senza importanza non mi aiuterà ad apprezzarlo» avevo risposto di getto, con una prontezza che mi aveva sorpreso. Ma Marta non sembrava ancora soddisfatta.
«Non ti ho chiesto cosa pensi di non fare. Ti ho chiesto cosa pensi di FA-RE.»
Aveva scandito in sillabe la parola fare, come a non volermi lasciare scampo.
Non ero pronto a una domanda così netta. Mi faceva sentire impotente: uno stupido corpo galleggiante alle prese con problemi più grandi di sé. Stavo per andare ancora sott’acqua, ma d’un tratto Marta aveva deciso di trattenermi, stringendomi forte il braccio.
Restai in superficie per un po’, spiazzato dal suo gesto. Girai di scatto la testa per sfuggire al suo sguardo inquisitorio.
Oltre il muretto, un panorama di alberi e cespugli si allungava per miglia sull’orizzonte, producendo uno strano contrasto visivo con la piscina artificiale da cui l’osservavo. Mi sembrò d’un tratto che tutta quella vegetazione a perdita d’occhio assomigliasse alla lunga distesa di tempo che mi si prospettava davanti dopo la laurea, ancora piena di possibilità e transizioni, lontana da direzioni definitive
.Distolsi lo sguardo dal verde e mi voltai verso Marta. Era davvero così importante trovare la risposta giusta? A pensarci bene, quando era era stato il suo momento di confessare le sue paure più intime, era stata lei a scacciare via quella preoccupazione per il futuro che adesso mi gettava addosso con tanta insistenza. Forse non era davvero così risoluta come credevo. Forse sperava di avere da me risposte che anche lei non trovava.
Risalii a bordo piscina e mi sedetti accanto a Marta. Dopo quell’immersione, avevo come la sensazione che fosse un’altra. Anzi, che fosse la stessa di un tempo: come se avessi ritrovato in lei quelle fragilità e insicurezze dei tempi di scuola. Neanche mi ero accorto che nel frattempo si era tolta gli occhialini. Adesso i suoi occhi blu esaltavano i tratti affusolati del volto. Il costume nero le aderiva perfettamente, facendo emergere le linee toniche del suo fisico. D’un tratto, mi sembrava bellissima. Mi faceva venire voglia di chiederle un temperamatite. O di fare finalmente qualcosa in più.
Con un velo di rossore sulle guance, Marta sembrava accorgersi di una luce insolita nel mio sguardo, mentre mi avvicinavo a lei, con la sua domanda che ancora mi rimbombava ancora in testa.
«Cosa fare, cosa fare, cosa fare. A me sembra che la maggior parte delle persone alla nostra età si ponga le domande sbagliate. Secondo me conta soprattutto insieme a chi si fanno le cose».
Dicevo così, appoggiandole sul ginocchio la mano ancora gocciolante.
