Les nouveaux réalistes: Giorgio Cassano

Le cose che lasciano un segno
di
Giorgio Cassano
Un grido assordante attraversa tutto il corridoio, dopodiché qualcuno spalanca la porta di camera mia con un calcio.
Fabrizio Meneghini, alias il Menga, alias il mio migliore amico, entra con una pistola giocattolo puntata alla tempia e mi dice che la morte non lo preoccupa perché finché siamo vivi la morte non c’è e quando arriverà, noi non ci saremo più. Mi punta la canna della pistola in faccia e mi dice:
– E tu, hai paura di morire?
Tutto quello che riesco a mettere a fuoco è il pezzo di plastica arancione fluorescente che fuoriesce dalla canna. È una calibro 6 mm, prodotta dalla Plastik S.r.l., ha un caricatore estraibile ed è riempita da 30 pallini gialli di gomma dal diametro di 0,6 cm. Lo so perché la pistola è mia, acquistata qualche settimana fa durante il periodo di Halloween, per completare un travestimento da Vincent Vega, uno dei protagonisti di Pulp Fiction.
– Allora? Non mi rispondi? Dimmi, danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?
Con la mano sposto la pistola e gli dico che manca di originalità, perché questa battuta l’ha copiata dal film “Batman” di Tim Burton. Mi stropiccio gli occhi. La sveglia sul comodino segna le 16:30. Dunque, ricapitoliamo. Io mi sono appena svegliato da un riposino pomeridiano post-Università con il Menga che mi punta una pistola di plastica in faccia.
Poteva andare peggio.
Fuori dalla finestra, verso l’orizzonte, la vista dal terzo piano di uno squallido appartamento in periferia mostra solo una folta massa di cemento e case popolari. È una giornata nuvolosa, probabilmente a breve pioverà. Il vento muove vorticosamente le fronde degli alberi e dei cespugli del giardino in cortile. Tipica giornata di Novembre.
Poteva andare peggio.
Mi alzo dal letto e chiedo al Menga chi cazzo lo abbia fatto entrare. Lui mi risponde che è stata mia madre e che è stata tanto gentile da chiedergli di svegliarmi, perché aveva un appuntamento dal dentista e doveva proprio scappare. Vado un attimo in cucina e ritorno con due lattine di Coca-Cola.
Io non lo so ancora, ma fra sette mesi Fabrizio Meneghini, alias il Menga, alias il mio migliore amico, si ammazzerà.
Prenderà un fucile.
Premerà il grilletto.
Il proiettile gli fracasserà il cranio e gli spappolerà il cervello sul muro e scomparirà per sempre.
Intanto, sotto di noi, nel cortile, dei bambini iniziano a giocare con un vecchio pallone di cuoio. Usano gli zaini come pali e si organizzano in due piccole squadre da tre. Io prendo una Lucky Strike, mentre il Menga si rolla una sigaretta, inumidendo la cartina con la lingua. Ci sediamo al tavolino bianco fuori dal balcone di camera mia.
C’è un vecchio detto che dice che il diavolo sta nei dettagli. Beh, probabilmente è vero. Quei continui riferimenti alla morte. Questa improvvisata in camera mia, ora. Gli sguardi assenti. Erano dettagli inequivocabili, che non ho colto. Avrei dovuto accorgermene prima.
Avrei potuto fare qualcosa.
Un altro detto dice che la storia non si fa con i se e con i ma.
I dettagli fanno la differenza.
Fra il bene e il male.
Fra il vero e il falso.
Fra la vita e la morte.
Le mamme dei ragazzi, uscite sul balcone, strillano ai loro bambini di smettere di giocare e di tornare in casa, perché fa freddo e se continuano a sudare si ammaleranno.
Io e il Menga creiamo una piccola cappa di fumo grigio e denso. La Coca-Cola, che beviamo a lunghi sorsi, rilascia la sua frizzantezza sulle pareti della gola e ci disseta. Dobbiamo sbrigarci, gli altri ci aspettano.
Del giorno in cui è morto, ricordo perfettamente la rabbia che mi avvolse. Non accettavo l’idea che gli altri andassero avanti con le loro vite.
C’è un detto che dice the show must go on.
Le persone continuavano nella loro routine. La tv continuava a trasmettere i suoi insulsi programmi e quiz televisivi. Il mondo continuava a girare come se nulla fosse.
Eppure per me era diventato tutto superfluo.
Come affrontare queste perdite non te lo insegnano da nessuna parte.
Ci dimentichiamo spesso quanto è piccolo il valore delle nostre vite nel grande schema delle cose. Se avessi l’occasione di tornare indietro, direi al Menga che non ho paura della morte.
Ho paura dell’effetto che fa su chi rimane.
L’effetto farfalla, in matematica, è un’idea secondo cui piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema.
Quello che è successo dopo la sua morte, è stato un graduale disfacimento di tutte le relazioni personali che mi circondavano. Un’onda d’urto che ha scombinato tutto.
I rapporti familiari.
I rapporti di amicizia.
Nulla è rimasto come prima.
Buttiamo entrambi la cicca nel posacenere in metallo. I bambini smettono di urlare e di sudare e tornano in casa. All’orizzonte, oltre i caseggiati, le nuvole si colorano di un nero più intenso. Iniziano a cadere le prime gocce di pioggia.
Se avessi l’occasione, probabilmente cercherei di fotografare mentalmente questi momenti.
Il Menga che mi sveglia con una pistola in faccia.
Io e il Menga seduti al tavolino.
Io e il Menga che fumiamo.
Intrappolare gli istanti per sempre, senza farli invecchiare. O cambiare.
Mentre la pioggia si fa incessante, il Menga mi dice:
– Ho paura di essere dimenticato.
Usciamo di fretta, correndo sotto gli ombrelli. Gli altri ci aspettano in Biblioteca.
Quello che ti posso promettere è che io ricordo. Tutto.
Il seno di Caterina è sodo e accogliente e io ci rimango con la testa dentro, schiacciata nell’oscurità, attento a non muovermi troppo per non sfiorare i capezzoli rosei e turgidi.
Il cortile della Biblioteca comunale è pieno di ragazzi e ragazze che si incontrano all’aria aperta per prendere una pausa dallo studio. Davanti a me ci sono Giulia, il Menga, più in là c’è Carlo, io sto sul petto di Caterina; le sue braccia sottili mi stringono i fianchi. I suoi capelli biondi ricci e lucidi, modellati con un gel che si chiama nel gergo schiuma modellante, mi solleticano il collo. La sua mano, con le dita affusolate, mi accarezza la testa con un movimento circolare.
– Devo essere sincera con voi – dice, a voce alta. – Questa volta sono positiva.
Dalla posizione in cui mi trovo, sento il suo cuore battere ritmicamente, mentre pompa il sangue in circolo nel corpo.
– Ho preparato tutto un mese prima dell’appello – continua – Ho letto un articolo a riguardo. Statisticamente parlando, il quarto tentativo è quello con la più alta probabilità di passare questo tipo di esame.
Caterina rovista nella sua borsa in pelle ed estrae una Winston Blue. Fa una lunga boccata e poi fa fuoriuscire il fumo. Percepisco il suo petto alzarsi e poi abbassarsi. Sono tre anni che frequentiamo questo posto. Ogni anno ci prefiggiamo gli stessi obiettivi e puntualmente non li raggiungiamo mai. Caterina prova ogni semestre a dare l’esame di Fisica Tecnica e Impianti e ogni volta o viene bocciata o non si presenta. Io, il Menga, Giulia e Carlo abbiamo dato cinque esami in quattro. Siamo ormai un anno fuoricorso. Anzi, forse quasi due. Cala il silenzio. Io mi stringo ancora di più nel petto di Caterina, chiudo gli occhi e mi metto a riflettere. Riflettere é facile al buio, abbandonato completamente a qualcun altro, quando l’unica prospettiva che ti si palesa davanti é che tutto quello che sei non è altro che un fallimento che non riuscirà mai ad essere fiero di se stesso.
C’è un detto che dice chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Siamo tutti dei perdenti qui.
Carlo spegne il mozzicone per terra e dice che ieri a suo padre hanno asportato un pezzo di polmone. Aveva un tumore causato dal fumo. L’intervento si chiama lobectomia polmonare. Si effettua isolando e sezionando le arterie, le vene ed il bronco corrispondenti a un lobo del polmone. Si fa un’incisione di 3 o 4 cm, dopodiché si inserisce una telecamera speciale e gli strumenti per asportare la malattia. Apro gli occhi e mi giro a guardare Carlo. I suoi occhi sono lucidi. È inevitabile piangere quando ti rendi conto che la vita è destinata all’oblio totale. Tutte le persone che ti circondano, anche quelle che ami di più, sono destinate a morire. E non c’è proprio un cazzo che tu possa fare. Di fatto, abbiamo una sorta di data di scadenza stampata nel DNA. Per questo non riusciamo a concepire perché qualcuno debba scomparire prima del tempo, anticipandola, magari per una causa esterna, per una malattia o per un suicidio. Intorno a noi, sulle scale antincendio di metallo e le panchine di legno, una trentina di studenti parlano e discutono. C’è chi beve del caffè, chi fuma. Un paio di coppiette si sbaciucchiano avvinghiate.
Il Menga dice:
– A volte mi chiedo perché ci sbattiamo così tanto. Insomma alla fine la vita si riduce a questo no? Sopravvivere per non crepare. Siamo noi a complicare il tutto.
Io non penso che sia uno dei dettagli a cui dovevo stare attento. Penso che il Menga abbia ragione. Penso agli animali. Penso che per loro la vita è lineare e chiara: si nasce, si cresce, ci si riproduce e poi si muore. Noi abbiamo complicato tutto. Abbiamo inventato la povertà, il Capitalismo, i mutui a tassi agevolati, i lavori part-time e full time, la bancarotta, l’inflazione, la guerra, la bomba atomica. Einstein diceva che l’uomo ha inventato la bomba atomica, ma nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi. L’ha detto proprio lui che sapeva del Progetto Manhattan. Penso al paradosso insito nell’uomo, tanto attaccato alla vita quanto ingegnoso nel trovare nuovi modi per farla terminare prima del dovuto. Penso che Einstein sia stato proprio uno di quei topi che ha aiutato a costruire una trappola per i suoi simili. Penso che é tutto una gran bella fregatura. Alzo la testa dal petto di Caterina e mi ricompongo al mio posto, estraendo una Lucky Strike dalla tasca interna del giubbotto e l’accendo con il mio zippo in metallo mezzo rotto. Osservo una per una le persone che ho davanti. Le loro menzogne, le loro ansie, si riflettono nelle mie e io non vedo altro che queste attorno a noi. Nel mezzo, un’unica verità. Studiare, fumare, condividere le nostre esperienze, tutto questo ci serve per dare un senso alle nostre esistenze, per allontanare l’angoscioso pensiero che in noi non c’è nulla di speciale perché siamo fallaci, patetici e poco rilevanti come tutti gli altri esseri umani. Questo magone si ripercuote nelle nostre vite continuamente, non se ne va mai, e tutto quello che rimane è solo una sensazione, amara come il sentore di tabacco bruciato nelle bocche a causa delle troppe sigarette consumate, che qualcuno ci stia premendo un grosso coltello da cucina contro la gola e ci stia urlando di darci un contegno, di fare qualcosa di vagamente produttivo piuttosto che piangersi addosso, perché il tempo è agli sgoccioli e ormai sta per scadere. Giulia alza gli occhi verso il cielo e io sento Carlo singhiozzare e vedo il Menga accendersi l’ennesima sigaretta e tutto ad un tratto persino l’agonia scende al rango di evento senza importanza, davanti all’idea che questo gruppo, questo piccolo, patetico, irrilevante gruppo di persone è tutto quello a cui possiamo aggrapparci. Un centro caldo e accogliente all’interno di un mondo freddo e crudele.
