➨ AzioneAtzeni – Discanto Decimo: Pierangelo Consoli
Ruggero parla a se stesso: “Fuggi”. Dopo trentaquattro anni di strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura. In cambio sarò libero. Da Il quinto passo è l’addio, di Sergio Atzeni.

È sordo, disse, sfiorandogli un braccio. Puoi smetterla di bisbigliare. Urla pure, se vuoi, tanto non ti sente. Il bambino si sporse dalla barca, sfiorò il mare con due dita e se le portò alle narici. Chiuse gli occhi. Era scuro, il mare, nero, come d’inchiostro. Mi chiamo Ruggero, si presentò e il bambino disse: lo so. È tuo padre?, chiese poi. Mio padre, rispose il bambino, no, e poi sorrise, nascondendo la faccia nell’incavo del braccio come un uccellino. Che fate? Siamo marinai, rispose. Mentre si accorciava le maniche della camicia. Era scalzo, il bambino, con dei calzoni tagliati fino alle ginocchia. Capelli corti, radi sulla testa, neri. Scura anche la faccia, da magrebino. L’uomo, seduto a prua, remava. Era piuttosto anziano, con la pelle dura, le rughe a solchi sotto gli occhi e sulle guance. Un ciuffo che gli copriva la faccia, gli occhi neri, un maglione dello stesso colore. Dove stiamo andando?, volle sapere Ruggero e allora il bambino si rivolse all’uomo che remava e quello mosse la testa oltre la prua, intendendo dire che si andava ancora a largo, verso l’orizzonte, in un punto in cui non si vedeva terra. Il cielo era lavanda e senza uccelli, senza le nuvole. Un lavanda molto tenue, omogeneo, come il dentro di una conchiglia. Per un istante Ruggero pensò che fosse un coperchio e se vi avesse scagliato contro un sasso, quello sarebbe tornato scortato da un tonfo sordo. Senza onde, senza vento e senza uccelli, oltre le loro voci, l’unico rumore che si sentiva era quello cadenzato delle vogate che fendevano il mare. Ruggero si guardava intorno, cercando di orientarsi. Dove siamo?, provò a chiedere e il bambino, paziente, disse: in mare. Lo disse con una naturalezza che avrebbe potuto offendere, eppure Ruggero non si offese. Il marinaio remava senza sosta, senza sentire la fatica. Il bambino, ogni tanto, gli sorrideva. Quando arriviamo?, chiese poi e l’altro disse: presto. Improvvisamente e una alla volta, dal fondo del mare, comparvero delle bottiglie, bottiglie grosse, altre più piccole, bottiglie da fiaba, da pirati, di quelle in cui si accasano le storie degli amanti e degli ossessionati. Una, poi due, poi troppe, talmente tante che il mare ne sembrava invaso. Una meravigliosa distesa di bottiglie ingolfava i remi mentre il marinaio, impassibile, continuava a vogare. Il suono dei colpi divenne un tonfo di cocci nell’acqua colma di vetro. Di dimensioni e colori diversi, le bottiglie galleggiavano placide e immobili, emerse dal fondale tutte insieme. A Ruggero sembrò incredibile e si guardava intorno osservando quelle bottiglie sbocciare sul pelo scuro del mare. Continuarono a navigare lenti, fino a quando fu evidente che il livello dell’acqua stesse diminuendo. Il bambino allungò un braccio, prese una bottiglia e gliela passò divertito. Ruggero si accorse che conteneva un messaggio, tolse il tappo di sughero e lesse: Con gli occhi della memoria vola per i vicoli del paese dove ha vissuto gli ultimi tre anni, gli pare di udire il ronzio di un calabrone in un pomeriggio silenzioso… Il marrone del fondale si affacciava alla superficie e la barca si arenava dolcemente come raccolta da mani di madre premurosa. Incuriosito, Ruggero, adesso che la barca rallentava, a sua volta si sporse e prese la prima bottiglia che gli capitava. Era una bottiglia bianca, trasparente. Il bambino ne prese un’altra, mentre Ruggero si apprestava a leggere: Gli occhi di Monica color carbone… Ruggero era disorientato mentre il bambino gli porgeva un altro foglio che diceva: Il ventuno di ottobre, seduti a un tavolino del caffè Genovese, immobili guardano la panna sulla cioccolata e lei sussurra: «tu non mi credi». Sono collegate, disse il bambino quando si accorse che Ruggero non capiva. Lui, cercò di spiegare, le scrive ogni giorno. Scrive le frasi come gli vengono. Intanto la barca si fermava seguendo l’inerzia e si piegò un pochino. Davanti e ai lati, adesso, avevano una distesa immensa di sabbia bagnata, una battigia, che tale rimaneva per chilometri e chilometri. Erano a terra ma non c’era niente intorno, come se il mare, improvvisamente, si fosse ritirato. Le bottiglie erano, adesso, poggiate sulla sabbia. Il Bambino scese dalla barca, con i piedi che affondavano appena sulla sabbia bagnata. Vieni, lo invitò, e quando vide che non si muoveva, disse: togliti le scarpe. Non ti servono più. Ruggero si sfilò gli scarponi, si tolse i calzini. Anche i piedi del vecchio marinaio erano nudi e bianchi come fogli di balsa. Lui non viene?, chiese al bambino e quello gli disse di no. Torna indietro, lo avvisò, deve cercare ancora. Ruggero saltò giù dalla barca e sentì il calore della sabbia sotto i suoi piedi. Un calore insolito e piacevole. Le bottiglie giacevano sul fondale, con dentro l’anima arrotolata. Ruggero avrebbe voluto prenderle tutte, aprirle e schiudere i fogli, liberare tutte quelle parole perché aveva la sensazione che quella storia, sparpagliata e confusa, aveva bisogno di essere ordinata e doveva farlo lui perché, in qualche modo, lo riguardava. Il bambino cominciò a camminare, ma Ruggero non si muoveva. Rimaneva tra le bottiglie chiuse fino a quando non si abbassò per prenderne una. Il bambino vide che estraeva il messaggio e, mentre leggeva, Ruggero s’incupì. Il chiarore dell’alba permette a Ruggero di guardare il colore degli occhi della madre. Nero. Dopo aver letto quelle righe, mentre piegava il foglio in quattro parti, Ruggero sentì salire dallo stomaco una tristezza che sopraggiungeva improvvisa e paralizzante. La barca, alle sue spalle, si mosse e il marinaio riprese a remare. Ruggero vide le palanche affondare nella sabbia e fare leva tra le bottiglie. Vide le mani del marinaio che stringevano i remi, la schiena che s’incurvava e la scialuppa muoversi lenta come i pensieri al mattino presto. Era fermo, con i fogli piegati stretti al petto. Fermo tra la barca che si allontanava e il bambino che lo attendeva. Fermo tra quelle pagine ancora chiuse nelle bottiglie, pagine non proprio sue, che raccontavano una vita che cominciava a ricordare. Sentiva, sotto i piedi, un calore innaturale. La tristezza nello stomaco che si scioglieva. Cominciò a piovere, prima alcune gocce e poi altre. Il cielo era ancora dello stesso colore, gli uccelli erano assenti, la sabbia sembrava pulsare, le bottiglie adagiate tremare e la sua tristezza, dallo stomaco, era arrivata ai polmoni e poi alla gola. Le gocce di pioggia presero a scendere più forte, fino a schermare il suo sguardo. Il bambino rimaneva ritto sulle gambette e gli sorrideva, mentre la pioggia si univa alle sue lacrime mascherando la gioia di venire al mondo.

* Azione Atzeni- mode d’emploi
di
Gigliola Sulis e Francesco Forlani
‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, ‘Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012
Si può seguire il PODCAST su:
⇨ Youtube
⇨ SPOTIFY
