Overbooking: Mota e Antonio Moresco

La grandine e i gigli
Note tra “La luce inversa” di Mota e “La lucina” di Antonio Moresco
di
Miriam Corongiu
C’era una volta, la Luce. Impossibile non rimanerne folgorati.
Anche quando inversa, fantascientifica, anche quando piccola. Lontana, fioca.
Una Luce che dall’alto di veri e propri fari letterari, eretti per rischiarare le maree nere dell’infanzia violata o le colpe ipogee dei corpi abusati, si fa meravigliosa e terribile come l’Angelo di Duino. “Perché il bello – ci rivela Rilke – è solo l’inizio del tremendo”. E gli esseri umani sono soltanto soglie di sangue tra realtà e immaginazione.
C’è una solida tettonica a placche che muove insieme, attraverso subduzioni o reciproci sfioramenti sotterranei, l’incredibile esordio di Mota e l’ormai classico moreschiano.
Due opere molto diverse, certo, ma entrambi dantesche, catabatiche.
Opere ctonie che fioriscono dal trauma.
Opere che ricostruiscono la nostra capacità di apprendere la violenza, di sentirla e di sublimarla nella compassione o nell’agnizione, una capacità del tutto atrofizzata dal dato cronachistico, dall’inutile lucore del drama contemporaneo. Dalle statistiche, dal racconto sfilacciato, mai troppo esplicito, degli esperti.
Da Mota e Moresco, invece – io l’ho vissuto – non c’è nessuna possibilità di nascondersi. La violenza è lì, viva, eterna, incorruttibile stella nera. Trama e ordito di due testi straordinariamente potenti, ci costringe alla resa dei conti.
Se la favola antica e moderna de “La lucina” arriva al nostro inconscio quasi esotericamente, sottilmente, rispolverando il fine ultimo della favola stessa, ne “La luce inversa” è l’ipotesi di un futuro salvifico, concretizzato dall’invenzione tecnologica, a polverizzare tutte le nostre fortezze interiori. La verità di ciò che accade mentre accade si manifesta per lampi nel nostro cielo, nel cielo dei ragazzini brutalizzati, destinati a rimanere tali – piccoli e marcescenti – per sempre.
Il punto è: cosa siamo noi adulti se non ragazzini solo un po’ meno smarriti? Sostiamo sgangherati in questi due romanzi, dentro pagine e pagine di letteratura altissima, e lì ci scopriamo in affanno mentre risaliamo a fatica la corrente della nostra stessa infanzia, ognuno con il suo carico di offese, di cieca e ingenua fiducia nei padri, di proiezioni violente nelle nostre emozioni.
Torniamo, in queste letture, a non poterle governare, le emozioni, a non poterle sopportare, che siano rivestite della levità moreschiana o della ruggente complessità di Mota.
Torniamo, per evocare Moresco, a essere gigli. Gigli spezzati dalla grandine all’alba della loro stessa fioritura, calici bianchi tracimanti sangue, appena inventati dalla vita, dalla letteratura, e già recisi come Eurialo, papavero virgiliano, immagine di fanciullezza negata.
Oppure, in preda al panico, corriamo a invertire il movimento, a farci grandine battente tra le parole di Mota. Fuori dalle norme, oltre i compromessi: basta con l’adesione umana, con questa burocrazia dei corpi fragili. Io volevo essere una bestia.
La religione dell’eccesso in Mota sta così alla dimensione del sottobosco in Moresco, ed entrambe si consacrano alla solitudine perfetta di una vita condotta sui monti (vale per Mota), o della letteratura come voce di un narratore unico (Moresco). Realtà, immaginazione: una sola soglia di carne. Citandoli e mescolandone le carte: lunghi inverni muti, i loro, dove la neve emette un rumore di catastrofe soffice.
Silenzio. Ritiro.
Il desiderio di isolamento serve, così, a non sostare davanti all’Esistere. Perché là fuori la vita ci chiama a vivere, ad ammettere la nostra presenza di sangue, a sentire la forza gravitazionale della sofferenza, perfino ad alleggerirci attraverso la gioia o a riconoscere i nostri corpi nella passionalità di un solo, breve momento.
Ma noi bambini e bambine violate non possiamo guardare altro che il bianco. I colori ci accecano. Che non c’è davvero differenza, nel groviglio oscuro dei boschi e del trauma, tra ciò che è vivo e ciò che non lo è.
In questo non-essere-mai-più può intervenire, allora, solo la letteratura: un disperato fantasticare.
Chiaro, le differenze sono accese. Illuminano.
Antonio Moresco sembra disseminare nel paesaggio, nel carosello delle stagioni e in ogni forma di vita animale il senso ultimo di ciò che è umano: un tasso non riesce ad attraversare la strada/possibile che non esca un suono dal cane con le zampe rotte?/le rondini curano la loro follia con la follia del volo. Vivere è un gesto assurdo che si persegue fino a morir(n)e. Una pletora di sensazioni, di domande – le dolci cantilene interrogative di Moresco – mediate dal sogno e da indistinti confini ovidiani tra il dentro e il fuori della presenza narrativa.
Nell’affrontare il tema del ricordo, Mota, al contrario, predilige ciò che è tattile, corporeo, concreto fino alla deiezione, abietto, per poi risalire la china lirica attraverso un senso vivissimo della metafora: le ciabatte, allora, fanno rumore come uno spettacolo di delfini o Martin e Siddiq pesano quanto due bambini ancora da attendere […] due deboli lampadine amniotiche.
Le due opere dialogano, però, indubbiamente. Specie sul finire della narrazione, in un crossover che è richiesta di contatto puro con le lettrici, i lettori.
I testi vanno simultaneamente oltre la dissoluzione della famiglia tradizionale, dell’infanzia o del ricordo di quella infanzia a cui dovrebbe essere consentito l’accesso nella sacralità e mai nella profanazione (nella casa con la lucina, l’uomo Moresco entra solo su invito); si portano molto oltre la cifra dell’odio cieco o della malinconia. E scorgiamo, al diradarsi delle nebbie emotive, le nostre/le loro, una piccola folla di manine tese.
Una resa assoluta alla luce. Alla luce della verità su noi stessi e sul mondo.
Occhi aperti, ora, che forse lo erano già.
Nella sperimentazione della Luce Inversa appare una casa.
Nella casa sulla montagna appare una Lucina.
Una casa – scrive Mota, suggerisce Moresco – che è anche la nostra.
Con un’idea di condivisione del vivere e del morire, di riconoscimento dell’Altro che abita in noi, termina così l’espiazione di colpe mai commesse, di colpe create ad arte da violatori e violenze. Termina l’esperienza della scissione: l’adulto si riconcilia con il bambino, il corpo perde tensione, il confine il filo spinato. Si annulla la soglia tra realtà e fantasia. Tra Morte e Non-Morte.
È solo dopo aver innescato la vertigine che ci porta sull’orlo dell’abisso (Danilo Kis) che le penne magistrali di Mota, di Moresco, ci trattengono:
Vieni!
Gli do la manina.
E adesso che siamo a casa, vi prego.
Non lasciateci fuori.
Non è mai tardi, ci dicono, per smettere di non-vivere.
Per afferrare la mano che arriva.
Per entrare in casa.
E accendere una lucina.
