Costellazione OR
di Lidia Riviello
attorno a Come l’amore di un timpano e di una pupilla,
edizioni Argolibri 2025

Incredibile ma vero, come è vero l’incredibile: sono qui accanto alla trapunta — non piumone — la trapunta linguistica , quella del calore nato dal proprio strato di avanzamento organico, perché la: la trapunta “trasforma” il calore del corpo in un microclima caldo vicino alla pelle, questa pelle , quella di Rossella Or che è pelle di visone , animale agile e solitario e visione ( prima) pelle di mano libera tanto libera che si muove, si snoda fino a far nascere nodi gordiani di interazioni linguistiche ed espressive inaudite, mai sentite prima.
Stà mano può esse fero o può esse piuma, e forse entrambe son , così è se vi appare, ma questo corpus, libro e persona insieme, sono una trapunta, un tessuto-testo siderale. Questa artista è dislocante, incommensurabile, ubiqua, e chi ha occhi per intendere, o chi rinuncia a leggere per comprendere, può avventurarsi in questo capolavoro come in un arcipelago lontano, con quell’idea di capolavoro come lo intendeva Oscar Wilde, pezzo staccato dal tutto.
Eccoci accanto, comunque, alla costellazione OR, visibile a occhio nudo…semivestito.
Leggo il suono testuale di Rossella e penso al verso di Dylan Thomas tratto da ‘ Twenty-Five Poems, … ‘ la palla che lanciai quel giorno nel parco non è ancora caduta al suolo’ lo scozzese scocciato, di scotch e questo libro, lanciato quel giorno nel parco, non tocca ancora il suolo, perché qui non ci sono suoli. O come direbbe Totò, in Totò cerca pace, ‘non ci siamo potuti assediare perché non abbiamo trovato sedie’. E quindi? Sembra il gioco delle sedie vuote, ricordate? Occupare le sedie, come occupare i posti vuoti dei linguaggi con la propria tenera fracassata armatura di codici ed enigmi.
Questo non è un libro in sé, ma un libro in sé per tre, per quattro: un meccanismo geniale con il quale un libro può ancora essere pensato, domandato, incaricato di diventare o di smettere finalmente di doverlo diventare. Chissà.
Comunque è uno stato di grazia e croce e delizia poter stare ai limiti, nei dorsali di questa creatura. C’era una volta… «Un re!» diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Ecco, il legno è il materiale iniziatico con cui mi sono addentrata o exitata , nell’esito sempre di uscire ed entrare, da…? in/ da questo libro: le grandi intuizioni, le saldature dell’impermanenza e le fragili evocazioni della permanenza, sillabate, strozzate, gutturate, mugugnate, completamente spalancate sull’abisso del nodo e del dono in gola, sciolto dal ritmo infinito dei mantra degli atti unici.
Qui si gioca la rappresentazione ai limiti nel limite del limite dell’oggetto-soggetto umano, troppo post, troppo umano, un codice che si aggiunge a pupilla e timpano.
Penso a Pinocchio che torna legno, buffo, fragile e resistente, e a quella consapevolezza che la completezza sta nel legno, la vera sua carne, sottratta per scolpire l’umano robot.
Il legno è resistenza, è vivo fin dall’origine, ha elasticità, capacità di isolamento, calore e naturalezza. È uno dei materiali più antichi utilizzati dall’uomo per costruire, scaldarsi, proteggersi, creare arte e oggetti sacri.
Poi penso a un mito nordico: l’albero cosmico Yggdrasil, un frassino gigantesco che sostiene i Nove Mondi, le cui radici affondano nel regno dei morti mentre i rami toccano il cielo degli dèi.
Questo mi ha colpito e mi fa pensare alle pagine di questo organismo come al recente scoperto Sukunaarchaeum mirabile, che ridefinisce i limiti della vita cellulare. Con un genoma così piccolo, molto vicino a quello dei virus, S. mirabile mette in discussione le distinzioni classiche tra organismo cellulare e virus ed è un esempio estremo di vita minimalista: non ha un suo metabolismo completo e dipende quasi totalmente dall’ospite. Così tanto prossimo e seducente il riflesso dell’ospite’dentro le pagine di ‘Come l’amore di un timpano e di una pupilla’.
Questo fa riflettere su cosa significhi essere un “organismo vivente indipendente”. Questo libro è un organismo vivente indipendente, se dipende è per noia o per allegria, per ozio di forma e tornando a legno nel senso che gli dà Kant: nato dal legno storto dell’umanità, ma sempre legno.
E ancora penso al Barone Rampante che rifiuta il piatto di lumache e sale sull’albero da cui non scenderà più e ancora a Pinocchio quando punta lingua e piedi: ‘no no no, questo paese non fa per me. Questo sembra ripetere anche Rossella: questa poesia non fa per me nella sciamanica gestualità delle parole perfette, una parola di meno e tutte le altre se ne vanno come i topi e i bambini di Hamelin. Ma quale poesia fa per noi oggi ? Quella che ci fa altro da noi? Questa. Il critico teatrale Nico Garrone indicò Rossella come «un immaginario incontro nell’aldilà tra i fantasmi di Eleonora Duse e Antonin Artaud». Al di qua l’incontro diventa immaginario compiuto. Il legno e poi il timpano, la membrana elastica che separa l’orecchio esterno da quello medio, trasformando le onde sonore in vibrazioni meccaniche. Il suo colore naturale è grigio-perlaceo, e la pupilla, che non è una struttura solida, ma un foro nero che assorbe la luce. Pupilla, diminutivo di pupa, cioè bambolina, in riferimento al piccolo riflesso di sé che si vede negli occhi altrui. L’amore, qui, non fa una piega; ne fa infinite e non le spiega.
La caduta in scena di questo libro rappresenta la caduta delle rappresentazioni tradizionali di poesia, teatro, musica, arte, danza, mimica, improvvisazione e gesto, e al contempo ne è la ricostruzione struggente.
Liquefare con il calore, raffreddare con la vertigine della parodia della ricostruzione: così sembra che l’asticella della lingua si spinga tra parodia di una ricostruzione impossibile e la possibilità di farlo come se fosse niente, semplicemente ricordo.Movimenti sottili e un sinistro in pieno al centro fanno riflettere sul nostro sfinimento artistico, la più grande provocazione intesa come richiamo a voce.
Penso al Boléro di Ravel, che non è un’opera lirica ma un balletto, un brano orchestrale che adesso a ‘risentirlo’ sembra scritto per anticipare questo libro tra ossessione e desiderio di non essere né l’uno né l’altro.
Il tema si ripete sempre uguale, senza cambiare tonalità, armonie o struttura. Questa ripetizione ipnotica è come crescendo esotico, dove il crescendo erotico diventa inedito ricordo, non ossessione mentale ma passione del pensiero che ritorna e aumenta d’intensità. Un lunghissimo crescendo che tende alla perdita di controllo, come disse Ravel del suo Boléro, appunto.
Liberazione, climax, rottura dell’equilibrio si trovano nelle pagine di Rossella.
Se nel Boléro la scena iniziale e il movimento erano altamente simbolici, con la danzatrice sul tavolo che attira l’attenzione, qui la ritualità dello sguardo è oltre il ponte della pupilla, oltre l’acustica dell’origine dei suoni oltre l’, ipnosi, ripetizione rituale, una perdita progressiva e repentina ripresa di identità plurime.
La ripetizione non aiuta qui, in questi testi sembra ci si ripeta ma nessun sintagma è uguale all’ altro altera la percezione del tempo, dissolve l’identità dell’ascoltatore e introduce una forma di trance leggerissima e collettiva. è un battito rituale: regolare, impersonale, inevitabile.
Il tema tipo: l’onere di restare onirici rimane identico, ma ogni ciclo aggiunge uno strumento lingusitico, un battito, , fino a creare una massa sonora, impersonale, post archetipica. L’io non è Dio -niso, ma l’ingranaggio del rapporto fra non io e non tu.
Penso anche alla maschera di Buster Keaton leggendo Rossella Or. Condividono una somiglianza: un Sisifo comico che usa registri diversi, spostando il peso della lingua fino a renderla quasi impalpabile.
Il corpo di questo libro è una macchina poetica, una gag liricamente sovversiva, piena di inganni, godimento della versificazione e della prosa, della scena e del gesto.
Meccanismi perfetti, coreografie linguistiche e fisiche studiate come esperimenti matematici, biologici, fisici, spirituali e politici. Rossella utilizza oggetti, edifici e macchine come partner di scena: scale, porte, pioggia, gravità, spiagge, teatri, metropoli, case, interni ed esterni, sempre adattandosi, controllando il crollo e preservando il sogno.
Come Keaton, Rossella realizza tutte le acrobazie sintattiche da sola, rischiando la vita della prima parola, sperimenta illusioni ottiche, effetti speciali, sovrimpressioni di linguaggi eterogenei e frizione fortissima.
Lavora sulla profondità dello spazio scenico, salta dentro il testo, cambia scena, tutto sincronizzato perfettamente con il movimento del corpo.
Questo libro è un congegno, un monstrum smisurato che stride se lo chiami poesia, ma che si apre come il gelsomino notturno e reclama la sovrapoesia, la strapoetizzazione. Il meccanismo richiama Baudelaire, Švankmajer, il teatro, il cinema, l’esperienza ai tropici di Levi-Strauss: organismo totale, poesia totale. Qui siamo nella poesia autostop.
Il colpo della scena, la colpa della scena, essere e non essere insieme: frequenza dell’ossimoro non solo nella sua accezione, ma nell’eccezione di lingue mutiformi e stratificate che ossidano, assetano la mancanza, producendo torsioni linguistiche.
La lingua viene vista, chiusa negli occhi, pensata, agita, parlata, ammutinata, mossa in scena, interrotta e ripresa: comicità, autorironia sacra, assurda felicità di non essersi fermati. Qui c’è una ricerca di poesia che stravolge e ripara.
Cos’è un capolavoro? Può essere artistico, come la Cappella Sistina; figurato, come un software ingegneristico perfetto; o ironico/paradossale, per qualcosa di disastroso o assurdo: “Hai rotto tutto? Un vero capolavoro!”.
Questo libro è un capolavoro ironico-paradossale, un lavoro sul bizzarro, ricerca della meccanica morfologica di ogni fiaba nata nell’orto, dove Maramamo non muore quando il ritornello lo costringe, ma quando incontra il suo coro, e quindi la morte diventa spettacolo di danza.
È il controarchetipo di tutti i libri: l’onirico qui non è astratto, ma comicità, strappo, muscolatura. Fa homo sacer, l’uomo vivo ma morto civilmente, una vita fuori dalla legge. Agamben definisce l’homo sacer come l’uomo che lo Stato abbandona, non lascia andare, che non appartiene più né agli dèi né agli uomini, ma resta come pura vita su cui il potere esercita il suo dominio.
L’iper-cultura di Rossella è laterale, periferica, sul bordo: il bordo è nei suoi linguaggi, ma siamo noi la lingua nel ritorno al presente. La poesia diventa performativa, come in un testo di Suheir Hammad, che in Gaza Suite scrive:
“non so nulla sotto il sole dall’altra parte del muro… alcuni devono morire in una coperta sintetica… sono arrivata all’Apocalisse quotidiana… una scala abbandonata a se stessa… linea piatta, urla live streaming.”
Ecco, che l’apocalisse di Rossella Or è una condizione della lingua tra pause e ininterrotti, linguaggi plurimi, crolli e apici del bizzarro, tra sogno del corpo e bis -sogno della parola, tra comicità e gravità, ma sempre còlta in flagrante.
