Lingue di vetro. Le creature abissali di Francesco Cavaliere
di Gabriele Doria

Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo.
Gianni Celati, Verso la foce
Per Ugo di San Vittore (1096 circa – 1141) il mondo sensibile è come un libro scritto dal dito di Dio, in cui le creature hanno un ruolo analogo ai caratteri alfabetici.
Ai primordi, vige la lingua degli innocenti: chi nomina le cose le fa così essere. In una lingua di vetro, Adamo dona alle cose identità nominale e sostanziale.
Dopo la caduta, invece, il linguaggio mostra la sua natura impotente: il vetro si frattura, si moltiplicano i termini. Devono essere istituite convenzioni, per poter comunicare. La Torre di Babele è il simbolo di questa impotenza: i piani – cioé i termini, si continuano a moltiplicare. Con angoscia mista a eccitata frenesia, non se ne vede una fine.
Ciò che vogliono gli uomini, non più innocenti, sarebbe quindi non propriamente sfidare dio, ma avere un nome.
In quello che forse è il suo capolavoro, Cuore di vetro (1976), Werner Herzog pone, come a priori drammaturgico, che quasi tutti i suoi attori recitino in stato di ipnosi, ipnotizzati da lui stesso, e che in questo stato vengano addirittura improvvisati dei dialoghi. Il regista avrebbe anche voluto ipnotizzare gli spettatori, comparendo di persona all’inizio del film. La storia parla di un veggente (curiosamente, uno dei pochi che non recita da ipnotizzato) che predice un’apocalisse a venire, in una Baviera allucinatoria, aperta sulle grandi voragini dell’Universo. Nonostante ciò e proprio per questo, il film risulta uno dei più utopici, oltre che magici e misteriosi, nella monumentale opera del regista tedesco.
I personaggi delle storie di Francesco Cavaliere (artista, performer, musicista, scrittore), sembrano emergere proprio da queste utopie da primo-ultimo giorno dell’umanità, come dimentichi di un nome, sotto le voragini di cieli solidi, fatti a incastri; (s)passeggiando fra monologhi esteriori e impalcature celestiali, tracciano geografie sinestetiche, a-sistematiche, in cui il punto di vista viene continuamente smosso; tutto vibra.
Non sorprende, partendo da qui, che il romanzo Popoli di vetro (ViaIndustriae Publishing) sia il risultato, o meglio uno dei punti in cui sfocia un progetto polimorfico, Abyssal Creatures, grande saga ispirata alla flora degli abissi iniziata a marzo 2024 al festival O Museu como Performance al Serralves di Porto, e proseguita da Urban Glass (New York) e alla GAM di Torino.
Il centro del progetto è rappresentato da tre sculture in vetro di Murano, tre creature, verde, arancione e blu, Sàbanas I, Aliquomàs, Enquomanàsc. Assemblate come vasi comunicanti, in esse l’artista riversa una composizione sonora, come insufflando una vita “di stasi e ventilazioni” , una linfa che le farà “illusoriamente vivere”.
L’opera nasce “dalla necessità di pensare e fermentare il suono che c’è dentro alle cose, il suono dentro ai corpi sconosciuti. Mi piace pensare ad un orecchio interno, l’orecchio che vive con il suono piuttosto che a un padiglione esterno che lo accoglie” racconta l’artista ad Artribune.[1]
“Le sculture concave in vetro soffiato di ‘Abyssal Creatures’ sono come dei fondali che si aprono e collassano dentro se stessi. Dei vasi senza fondo, senza fine. Il suono che vi cresce dentro è sistema circolatorio linfatico, non organizzativo e sistematico per l’ascolto. Dove i miei mezzi di espressione tecnica finiscono, la parola tenta in qualche modo di sopprimere al vuoto che resta, completare il discorso. Per questo la scrittura si associa alla scultura, non per spiegarne il processo, ma per aggiungere vita a ciò che c’è già”
Il progetto si completa con un LP per Xong Collection – dischi d’artista.
Popoli di vetro è un romanzo che sembra si ascolti. Ricca e precisa è la sua tassonomia sonora, la descrizione di suoni che improvvisamente condensati carezzano o feriscono come ghiaccio, crescono, cadono, si inabissano cambiando colore e odore, rimbombano, si inerpicano fra le pieghe dei corpi, orientano l’andatura, il ritmo.
In quanto opera letteraria, Popoli di vetro apparterrebbe al (de)genere, impuro per statuto, del romanzo d’artista, che pure se privo di certificati e alibi di non-esistenza, potrebbe volendo venire negletto in un canone abissale: qualche titolo, tra Il Corpo certo o il luogo di una perdita di Magdalo Mussio, Messner di Patrizia Vicinelli, Neurosentimental di Stelio Maria Martini, L’homme qui descend quelque – Roman metamitique di Emilio Villa. Un corpus sommerso.
Sono opere che si autodenunciano come frammenti, che rifiutano il termine certo e stabile di un nome, di un genere, tutte incompiute perché infiorescenze di un progetto più ampio, spesso esistenziale, e per questo tutte a loro modo microscopiche e vertiginose.
Ma il fatto di appartenere a un progetto artistico più ampio non deve far passare il libro di Cavaliere per semplice partitura sonora, commento o innesco.
La storia segue (?) il protagonista Metastasio /Tan, l’incaricato di una ditta specializzata in vapori per i riscaldamenti interni. Il suo compito è controllare che la pressione e la stabilità delle sostanze – idrogeno e gas ionizzati- siano corrette prima della partenza, su vagone, per tragitti sotterranei.
Il frammento “Da quando avevo mangiato il vetro l’acqua la guardavo spesso. Sembrava che un ago ci si infilasse dentro.” vale come un’intera biografia.
In un viaggio allucinato il protagonista incontrerà una signora con un cane che è “l’ultima guerriera di luce”, cieli che crollano, movimenti teogonici, ascensioni e cadute in baratri di cristallo nero profondissimi, sdoppiamenti, uomini di terracotta, animali notturni che divorano l’oscurità, un inscatolarsi di stanze custodite da una cavalletta, personaggi che “staccano i loro contorni dall’aria” per poi sparire, conciliaboli di nubi che attraverso ampolle di Helmholtz cercano di tradurre in parole le voci di venti estinti, una biblioteca dentro alla quale scorrono due fiumi gemelli, e infine, una Torre di Babele in fiamme. Metastasio si troverà a sprofondare per “dinastie di galassie imperiali astratte e rovesciate, di vetro scurissimo, che soffiano l’una nell’altra come una bocca di vaso che risuona al vento”.
Metastasio/Tan si muove continuamente, tra i suoi due propri nomi, tra la narrazione che salta – tra la terza e la prima persona, sviluppata in interi paragrafi in corsivo -, tra le moltissime scale che ossessivamente appaiono nel libro (reminiscenze fra la scala celeste di Giacobbe e Dante), e non dà mai l’impressione di spostarsi davvero, sempre ridestandosi da un sogno, da una caduta, da una fantasticheria.
“Quando si avvicinò alla sfera, la sua mano si trasformò in cascata e il bulbo di un fiore rosso screziato da minuscole strisce verdi si allargò tra le tempie della sua testa.”[2]
La letteratura è fatta di sopravvivenze, anzi, di fantasmi infestanti: pescando a caso frammenti di frase da William Burroughs, (da I ragazzi selvaggi), come“ottenuto l’indirizzo di quel mattino tardivo” o “scalcia la rosa a quattro zampe” o “è stata una finestra di risate a scuotere la valle”, ci accorgiamo di come questa tonalità di fondo possa già fornire al romanzo di Cavaliere un modello araldico di frase, pure negli abissi (acquatici) che separano le genealogie. Il testo è d’altronde trapunto di stupore, di un incanto della scrittura per se stessa. Sovviene Cortàzar: “Bisognerebbe inventare lo schiaffo dolce, il calcio delle api. Ma a questo mondo le sintesi ultime sono ancora da scoprire. Peccato […], avremmo bisogno della luce autenticamente nera.” laddove c’è “qualcosa di così contraddittorio” da non potere essere altro, infine, che “la verità”. Cut-up di vetro? Cadaveri squisiti[3] di Murano? Uno scherzo, certo.
Fondazione Serralves, Porto, ph: Silvia Fanti
Qualsiasi traditio, qualsiasi parentela letteraria, già traviata norma, finisce inevitabilmente in rovescio, sussulta, trasale: la scrittura di Cavaliere si accanisce quietamente contro il proprio buon senso, ricalca la sua automatica capacità di descrivere, sembra già in stato di ipnosi e finisce per ipnotizzare chi guarda.
Sembra di essere continuamente alla vigilia di una svolta, di una rivelazione, eppure non si svela nulla: perché il re nudo è infine sempre rivestito dalla membrana dell’occhio, dalla sua inevitabile curvatura. Occhio e vetro, si sa, sono inevitabilmente uniti dalla lacrima: il cineasta Alberto Grifi racconta[4] che quella primitiva retina primordiale in grado di capire se il buco della tana fosse ostruito o meno (se la luce riuscisse a passare o no) aveva bisogno di essere pulito continuamente, così la necessaria secrezione porta alla sua evoluzione biologica; questa secrezione, evoluta in membrana di protezione, ha cominciato via via a fare da lente, a mettere a fuoco le immagini, ed è diventata, infine, l’occhio.
“Sembrerebbe insomma che all’origine dell’occhio ci sia una lagrima.” dice il cineasta riprendendosi e riproiettandosi in mille frammenti di vetro, prismi da cristalli del lampadario, mezzi “casalinghi”, “giocattoli” di un cinema che fu (tra cui il cosiddetto “effetto acqua”, usato per “la soggettiva del pesce o di quello che affoga”).
Le parole alludono, continuamente eludono, significano e tradiscono indizi, il lungo monologo che infine è il romanzo dà l’idea di un lento formarsi direttamente nella testa delle immagini, nella pelle del vetro, laddove c’è solo materia vibrante. Allora ciò che leggiamo sulla pagina non è altro che il resto di questa vibrazione, di questa respirazione che non può arrestarsi o finire invischiata nei caratteri , in ciò che non si può dire: è il suo inseguirsi, non a scanso d’equivoci ma sempre a favore dell’equivoco.
Nel vetro, insegna Duchamp, c’è sempre una possibilità.[5]
A Fedora, una delle città invisibili di Italo Calvino, nelle sfere di vetro custodite nel grande palazzo di metallo al centro della metropoli, si vedono i modelli di altre Fedora, rappresentazioni di possibilità inespresse o irraggiunte. Ogni visitatore può così specchiarsi nella città che corrisponde ai suoi desideri. Il gran Kan, conclude Marco Polo, dovrebbe includere nella mappa del suo regno, oltre alla metropoli originaria, ognuna delle piccole città di vetro “non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.”
[1]L’opera “Abyssal Creatures” di Francesco Cavaliere presentata a Bologna | Artribune
[2] Popoli di vetro, p.15
[3]Mi riferisco alla nota pratica surrealista.
[4] Nel capolavoro “Transfert per kamera verso Virulentia” (1967)
[5]Mi riferisco al celebre episodio in cui La sposa messa a nudo dagli scapoli,anche, opera meglio nota come Grande Vetro, subisce dei danni accidentali durante un trasporto, a cui l’artista decide di non porre rimedio accogliendo il caso come attante alla produzione di un’opera mai realmente conclusa. Questo, in un primo momento. Poi decide di sostituire il vetro. E di dedicarsi agli scacchi.
