La morte e il lambrusco
Perché insegnare Storia è una caccia nel fango
di Francesco Bertani
La strada è come quando c’è la neve: deve fare attenzione a dove lascia la prima impronta. Così sta fermo e attento. Ha una scarpa slacciata e da dietro le lenti spesse mi osserva con un timore coltivato dalla quinta elementare. Sulle medie, i maestri gli hanno raccontato di tutto.
“Allora?” – lo incoraggio – “chi hai intervistato?”.
Camillo risponde con un sussurro. Ha intervistato il nonno: “mi ha parlato del 1944. A marzo in cantina sono esplose due damigiane di lambrusco. Quel giorno i fascisti hanno ucciso suo papà”.
Due anni e diversi mesi dopo, c’è una certa stanchezza. È appena finito il quadrimestre e nell’ultima verifica i bolscevichi non hanno fatto prigionieri. Manca davvero poco al suono della campanella e Camillo guarda fuori dalla finestra. Dai primi giorni del primo anno, Camillo è cambiato tanto. Ma ancora adesso, se lo richiamo perché si allacci questa o quell’altra scarpa, la mia voce si va a perdere immancabilmente nel vuoto.
Comunico che a breve faremo un’uscita in centro nel quartiere delle barricate contro i fascisti di Balbo. Una mano si alza. “Nella primavera del 1944” – dice Marta – “i fascisti hanno ucciso il bisnonno di Camillo”. Lo dice mentre scribacchia all’interno di uno stencil. Per un attimo c’è silenzio. Poi avviene quello che a scuola ha i contorni del miracolo: ci scopriamo tutti sul pezzo, presenti all’appello di un ricordo ben piantato nella memoria collettiva.
Gira la ruota del calendario. Ecco che arriva maggio con il suo profumo di tigli. Vorrei scrivere una lettera per congedarmi dalla classe di Camillo, ma non trovo il tono giusto. Mi viene in aiuto una poesia di Chandra Livia Candiani che a un certo punto dice: “non voglio insegnare, voglio accompagnare”. Chi lavora a scuola sa che sono parole autentiche. E che suonano ancora più vere se si rimescolano le carte e si immagina che siano gli studenti a dedicarle ai professori. La voce di Marta, per esempio, continua ad accompagnarmi. Mi chiede se riesco a immaginare un insegnamento della Storia che abbia lo stesso potere della testimonianza di Camillo. Quello di accendere il senso di un sapere che rimane. Penso a questo sapere e cerco di definirlo. Mi concentro sul contrasto tra la morte e il lambrusco. Poi prendo un foglio e lo divido in tre parti. Per ciascuna un aggettivo. Allora scrivo: concreto, vicino, icastico.
Credo che la concretezza abbia a che fare con il tempo. Dopo l’intervento di Marta è infatti emerso che molti ricordavano la data del 1944 perché la collegavano al suo aspetto stagionale. Per alcuni studenti di campagna ancora oggi periodo di imbottigliamento, per altri più cittadini segno di rinnovamento, marzo agganciava il fatto storico all’esperienza diretta. Il senso di una morte nell’alba della primavera aveva dato concretezza alla linea cronologica: architrave fondamentale, che spesso dimentichiamo popolato di giorni e notti; di aspetti meteorologici; dell’eterno movimento della ruota dei mesi.
Mi sembra importante insistere sul respiro del tempo. D’altra parte, gettare un ponte tra cronologia ed esperienza significa aprire la pista a ulteriori esplorazioni. Potremo, innanzi tutto, sondare la differenza che separa il nostro sguardo da quello delle epoche o dei gruppi sociali del passato. Cosa poteva significare, durante l’ellenismo, un’eclissi lunare alla vigilia di una battaglia? Come interpretare gli eventi notturni nei contesti in cui il buio era il dominio del diavolo? Per le società contadine – abituate a dare valore al tempo in base al momento dell’anno – le vicende invernali non avranno assunto tratti diversi rispetto a quelle occorse nelle stagioni produttive? E che dire dei matrimoni, dei lutti e dei commerci e del loro suscitare sentimenti diversi a seconda delle variabili biografiche degli attori? Promuovere in questo modo una didattica del quando: indagare la parte del giorno, dell’anno o dell’esistenza al centro della nostra attenzione. Riempire di vita la linearità del tempo per avvicinare le classi ai molti Altri del passato.
Dopotutto è semplice: quel che è vicino ci riguarda. Il guaio è che spesso poche cose risultano distanti come le narrazioni storiche a taglio politico-militare. Chiaro che la Storia dei grandi fenomeni sociali, dei grandi scontri e concordati conta. Ma forse arriva meglio se non la guardiamo dall’alto. Se per proporla ci accovacciamo – con un’immagine proposta da Carlo Ginzburg nel saggio Spie. Radici di un paradigma indiziario – nel fango della Storia, alla ricerca di impronte che parlino ai nostri immaginari.
Di volta in volta, si tratterà di fare come i cacciatori e di scegliere una pista. Così lo scorso anno la mia vecchia prima media ha trovato nella terra l’impronta zoppa di una strega. Quella traccia le ha parlato. E da quel giorno è iniziato un percorso che attraverso le lamie antiche e le masche medievali è arrivato a illuminare gli atteggiamenti delle fonti e rivelarne le implicite direttrici culturali. In futuro, la parabola potrà incrociare le riforme religiose del Cinquecento e del Seicento, risalire le epoche fino a raggiungere l’adesso e la retorica che ancora investe le presunte devianze femminili nel discorso occidentale.
In effetti, una didattica della vicinanza può insegnare agli studenti che anche noi stessi siamo parte della Storia. Che le nostre idee, i nostri schemi per leggere il mondo risentono dei tempi che ci hanno preceduti. Che tutte le vite umane fanno parte della Storia. Per i giovanissimi anche questo vuol dire costruire significato.
Un approccio didattico che metta al centro le persone è ciò che auspica Carlo Greppi quando nel suo Storie che non fanno la Storia parla di “umanizzare la Storia”. Non soltanto affrontare le biografie dei personaggi illustri, ma anche andare alla scoperta di quelle vite che non avendo fatto nulla per essere ricordate – impigliate quasi per caso tra le maglie delle fonti – risultano testimoni quanto mai affidabili dei propri mondi e delle proprie realtà sociali.
È poi nel dialogo con questa Storia umanizzata che fiorisce la ricchezza della Storia locale. Molti libri di didattica mettono in evidenza che storicizzare il paesaggio porta vantaggi non solo nell’ambito pedagogico, ma anche in quello dell’Educazione Civica. Il discorso, ad ogni modo, a me sembra pure estetico: svelare le memorie sedimentate nel paesaggio significa fare spazio a nuove letture del quotidiano. “Bassa è bassa”, dice in Pianura Marco Belpoliti della terra di Camillo. Ma le voci della Storia – come quella di un bisnonno ucciso nei campi fuori dal centro – gettano linee verticali sull’orizzonte della pianura. Ascoltiamo dunque Luigi Ghirri, che in un saggio raccolto in Niente di antico sotto il sole riflette sui paesaggi familiari dei propri viaggi domenicali a pochi chilometri da casa: “isolate dal contesto abituale della realtà circostante, riproposte fotograficamente in un discorso diverso, queste immagini si rivelano cariche di un significato nuovo”.
L’immagine delle damigiane che esplodono dà un impatto visivo alla testimonianza di Camillo. Lo fa attraverso l’intreccio di colori di segno opposto: l’allegria del vino e la tristezza dell’oppressione; l’effervescenza del lambrusco e il peso della violenza. Sembra quasi Calvino, quando nelle Lezioni americane parla di narrazioni icastiche, nitide e memorabili: capaci di svegliare in pochi tratti l’elettricità del contrasto.
Tra le narrazioni icastiche, la prima che mi viene in mente inizia con la chioma rossa che fuoriesce dalla tomba di una bambina sepolta in un convento colombiano. Ci troviamo nel romanzo Dell’amore e di altri demoni. Qui Márquez ripercorre il mito di Sierva María de Todos los Angeles: venerata nei Caraibi per le sue azioni miracolose. La tensione tra morte e giovinezza che attraversa l’opera di Márquez rappresenta la cifra della storia di Antigone: mito che alle medie fa il proprio ingresso in Epica, spesso al primo anno, più o meno sotto Natale.
Il mito non è la Storia. Ma nel corso della Storia, il carattere icastico del racconto mitologico ha sempre fornito griglie per interpretare le difficoltà. Soltanto negli anni Duemila, Antigone ha segnato il discorso pubblico sulle vite dei migranti; ha alzato la propria voce contro i soprusi subiti dai braccianti; ha denunciato gli effetti del razzismo e della globalizzazione. Temi, questi ultimi, affrontati in chiave ecologista nel potente discorso Esta locura tiene que acabar (https://vimeo.com/419316632) dell’Antigone amazzonica impersonata da Kay Sara. Proiettate alla LIM, le parole di Antigone in difesa dell’Amazzonia gettano sulle classi una specie di incantesimo. Mentre Antigone parla, i ragazzi restano in silenzio, ascoltano, s’interessano. La fine del discorso sfuma ogni volta in un applauso che quel giorno porteremo tutti a casa.
Come Sierva María, anche l’Antigone amazzonica è figlia del colonialismo. La sua è una storia di violenza: nasce dalla scoperta europea del continente americano. Ed è proprio nell’affrontare un tema come le scoperte del Cinquecento che l’ora di Storia può offrire alle classi un regalo tra i più preziosi: l’abitudine a domandarsi come fanno a sapere le cose. La Storia del confronto tra due mondi allo specchio ci permette infatti di scoprire i meccanismi che nei secoli hanno regolato la nostra conoscenza dell’Altro. Approfondiremo dunque quella che per Serge Gruzinski è La macchina del tempo: strumento creato dall’Occidente per manipolare la Storia dei popoli non occidentali. In questo senso, potremo parlare di Cortés, che nell’appropriarsi dei miti amerindiani li ha trasformati in profezie sull’arrivo degli Spagnoli. Oppure ci concentreremo sui colonizzatori che – tagliando e ricucendo le testimonianze degli indigeni – hanno inventato racconti che l’Europa avrebbe chiamato Storia. E che in parte stanno ancora lì: sui libri di testo, nel cuore di una disciplina che lungo il proprio arco ha conosciuto ogni tipo di sfruttamento. Ma che allo stesso tempo – mediante la ricerca e il confronto scolastico – può diventare luogo di relazione autentica e fare di sé l’antidoto contro le proprie distorsioni.
Scivola ancora il tempo e già avanza un nuovo anno scolastico.
Sono passati più o meno cinque mesi da quando ho scritto la lettera per la classe di Camillo. Quel pomeriggio, ho iniziato a rendermi davvero conto di quanto – nella didattica della Storia – gli elementi del paesaggio cambino a seconda del punto d’osservazione. Questa presa di coscienza mi ha aiutato a capire meglio le ragioni di una postura bassa e sporca: china sulle tracce rimaste intrappolate dentro il fango del passato. Sarà poi vero che muoversi per sterrati vuol dire mettere in conto la possibilità dell’inciampo. Ma anche qui trovo Camillo, con la sua scarpa slacciata durante l’esame orale. Dopo il colloquio, l’ho preso in disparte e gli ho detto: “Camillo, pure oggi: la scarpa!”. Allora, finalmente, mi ha risposto: “ma prof, non l’ha davvero mai capito?”. Poi, con un sorriso: “una scarpa slacciata è il mio portafortuna”.
