Idolina Landolfi: «Ma la mia testa? Dove metterai la mia testa?»

di Elena Frontaloni

 

I Racconti delle notti di Idolina Landolfi[1]

“Che colpa ne aveva se scriveva, e scriveva, senza sforzo alcuno, così? Ha valore ciò che viene troppo facile?”. Sono righe tratte da Tenebre, un brogliaccio autobiografico inedito di Idolina Landolfi (Roma, 1958-Firenze 2008), scrittrice oltre che traduttrice, critica letteraria, curatrice dell’opera del padre Tommaso e d’altri – due su tutti: Corazzini e Lautréamont. Descrivono quello che, approssimando, si direbbe l’avvio della vocazione alla letteratura da parte di una figlia d’arte e invece Idolina Landolfi racconta più esattamente come un cedere (forse felice, forse di valore: il giudizio è sospeso), a “una parte immemore”, a “una sorta di smemoratezza, di cieco abbandono (vogliamo dire incoscienza?)”: “solo modo, del resto, per osare”, vale a dire per sfidare, con azzardo sornione, dimentico del movente, il “groviglio inestricabile” dei perché insieme alla colpa atavica della letteratura.

Il passo è riportato da Ernestina Pellegrini nella postfazione a una raccolta di racconti fantastici che l’autrice propose ad alcuni editori, e che esce solo adesso per Effigi, a cura della stessa Pellegrini e di Giovanni Maccari. Il titolo della raccolta, assonante con quello dell’inedito sopra citato, quasi fosse lo sbrogliarsi di un filo nero in fuga dal suo altrettanto tenebroso gomitolo di partenza, è Racconti delle notti – battono sotto questo titolo i modelli, assunti e diluiti nel testo, delle Mille e una notte e dei Notturni Hoffmann. La scelta di alcuni temi e il loro trattamento non sorprendono conoscendo altri precedenti libri di Idolina Landolfi, ancora una volta libri di racconti (genere prediletto), dove lune, apparizioni di trasparenze e sibili nel buio, sentinelle, antiche dimore, raccontatori in taverna non si sa se vivi o morti e dormienti per incanto o per scelta vengono spesso convocati dentro pagine colte, coltissime, e però mai grevi o compiaciute: streganti, semmai, in corrispondenza d’amorosi sensi con quelle di Tommaso Landolfi (dagli scintillii sabbatici della Pietra lunare al virtuosismo arreso e antagonista dei diari), nonché capaci creare alchimie tra gli animali e i presagi di Poe, il diavolo narratore Gaspard La Nuit, il seriocomico, spassionato indagare sulle miserie umane delle Operette morali di Leopardi (la costellazione di nomi venne citata da Mario Luzi a proposito di una raccolta del 2004, Matracci e storte).

L’architettura del libro, che peraltro mostra la progressiva emancipazione di Idolina Landolfi, negli anni, da maschere e preziosismi in favore di uno speditissimo mixage di plurimi strati e riflessi linguistici, dà conto della sua finitezza. Sono dieci racconti, si diceva, che dei meccanismi del fantastico dimostrano padronanza assoluta (lo straniamento, il capovolgimento di reale e sognato, la prossimità confusa tra vivi e morti); in più, tutti i racconti si concentrano su vigliaccherie, indifferenze e atti di violenza subìti da donne, ma narrati attraverso la voce di chi sopravvive all’ammutolire di Shahrazād e non sa far altro che rimuginarne le gesta: uomini che di questi delitti miseri e crudeli si sono macchiati; passanti inconsapevoli, però curiosi e volgari; narratori posti come onniscienti ma palesemente orientati e inaffidabili (il rapporto tra credito e critica rispetto all’avvento del soprannaturale sempre a favore del credito), o anche, in indiretto libero, la bigia detentrice del potere di continuazione biologica sociale e psichica per eccellenza, nonché l’idolo polemico di molte scritture di Idolina Landolfi che è la madre de La Vendetta. La notte è sin dai primi racconti, contemporaneamente sia il momento del giorno in cui accade il fatto da cui prende avvio la narrazione (La sconosciuta della Senna, colpevole lezione di anatomia di un medico legale sul corpo di due gemelle); la condizione del luogo, oscuro, in cui avvengono i fatti (Gulliver, storia di una violenza su una bambina da parte di un adolescente che si rivede nel padre innamorato della bambina stessa); l’ora o l’atmosfera che accoglie il racconto del narratore (Dal treno, allucinata confessione di uomo che uccide la fidanzata); lo stato dei personaggi (La gatta nera, rapsodia sull’artista “notturna” e felina Leonor Fini o L’insperabile, storia di una donna che si fa ibernare perché il giovane uomo che ama giunga alla maturità e la scongeli – forse amaro controcanto in prosa all’ultima e unica, anche questa postuma, raccolta poetica di Idolina Landolfi, Non mi destare, amore). Tutti i personaggi dei racconti sono peraltro colti nel confronto con un doppio, un’ombra inquietante e inquieta: tenzone che si risolve sempre a favore del doppio notturno, nell’approdo a uno stato di sospensione tra morte e vita, tra veglia e sonno, tra desiderio di nuova e “segreta vita” e percezione del “lato opaco delle cose”.

Al centro della raccolta, sesto dei dieci testi, c’è la chiave di volta del libro: Notte dell’anno. È la notte di capodanno; in una imprecisata taverna un imprecisato uomo è invitato da altri a raccontare una storia prima che arrivi l’alba, perché nella notte dell’anno le storie diventano vere; l’uomo all’inizio si nega, perché questa è una “fola”, “i desideri non si realizzano, i sogni non si avverano” e “le favole non esistono”. Tuttavia inizia a raccontare in cambio di una bevuta, per testimoniare una mancanza: “se non si è in grado di sconfiggere la morte di una creatura amata non si è fatto nulla, non si vale nulla…” e sulla base di alcuni convincimenti: “i brividi non sono soltanto quelli causati dal terrore […] esiste il meraviglioso in ogni cosa”; inoltre: “i nostri morti siamo noi”. Il suo racconto tratta di una “ragazza”, o meglio di una “giovane donna stregata, che viveva da sola in una vasta dimora decadente”, maltollerata e sfuggita dalla gente intorno, in compagnia di gatti presentati come magici e sensitivi, in realtà dai comportamenti molto realistici. A un certo punto la ragazza abbandona la casa, i suoi gatti muoiono, la casa crolla, e dopo un lungo vagabondare ritorna a vivere, adulta, a un passo dai luoghi della sua giovinezza: riconosce che “la sua vita altrove non era stata vita. E che il nocciolo di lei [il suo vero ‘fantasma’] era rimasto lì, prigioniero”; la donna si avvia verso la sua antica dimora, la luna si districa da una nube che l’ha finora inseguita oscurandola e “inzuppati di luna risorsero accanto a lei la casa, il cortile di ciottoli bianchi, le siepi di rose, il glicine nodoso che da anni, credeva di rammentare, un male aveva stroncato”, insieme ai suoi gatti festanti (Om, Minù, Muzza, Musi, Kali). La storia è conclusa e arriva la luce del giorno: la taverna del narratore e dei suoi compari (è nel frattempo arrivato un altro uomo, ritardatario perturbante, che entra all’improvviso, definendo quella notte adatta a “conciliaboli di streghe”) si mostra quel che è: una stanza vuota, dominio di ragni, ingombra di carte ingiallite, ricettacolo di passeggeri infelici, scrittori-lettori fantasmi.

Oltre al fantastico riccamente tradizionale perseguito da Idolina Landolfi, che trascorre e, rapido, delude tutti i generi (dall’idillio, alla favola, alla “veglia” con narrazione punteggiata di commenti da parte degli ascoltatori della narrazione stessa) e che rannida i suoi brividi e la sua stravolta pietas anche in due brevi righe di descrizione di un sogno o di un paesaggio marino o selvatico, c’è in questo testo centrale della raccolta la tensione etica e filosofica della scrittura di Landolfi, c’è la protagonista moritura tipica dei racconti, la “ragazza stregata” che ha dimestichezza con “le cose segrete”, c’è lo sguardo meschino, fintamente diurno, della “gente” (dei giornali, della famiglia, delle proiezioni egoistiche di sapienza sugli animali); c’è, per finire, “l’autobiografia profonda” (scrive Pellegrini), vale a dire non psicologizzante, scontrosa e pudica, tipica delle pagine dell’autrice, che alcuni potrebbero riconoscere in numerosi tratti della stessa ragazza stregata. Notte dell’anno è dunque la punta del libro, quella in cui si celebra, per bocca di un narratore uomo, il trionfo amaro dei fantasmi scritti; di qui in poi i racconti scendono con sempre maggiore enfasi nel dettaglio dell’inermità e l’ottusaggine dei morti, “che chiedono, chiedono sempre”, e del parallelo orrore che i sedicenti vivi infliggono loro travisandoli, intrappolandoli nei loro ricordi, incontrandoli per caso nelle loro manovre di autoconservazione. Segue infatti il racconto La Vendetta di cui si è già detto, storia con focalizzazione multipla e ondivaga del suicidio di una ragazza, inutile perché la nemica madre lo interpreta col buon senso della sua propria bigia sopravvivenza (e dunque scambia il sentimento del suo fantasma con la paura dei ladri), e subito dopo il racconto di un’altra notte, La notte di Natale, dove Maria, viva, decide di vivere dormendo per incontrare continuamente nel sogno “lui”, un uomo più vecchio intrappolato nel suo amore, già morto, e stare insieme nel luogo in cui i vivi e i morti si incontrano, “smemorato e vaporoso, fatto di piccole cose futili, di figure intravviste con la coda dell’occhio”, luogo nel quale i vivi non possono niente, nemmeno “spostare una sedia”. Infine Maria muore (lo sappiamo dal fatto che “lui” la aspetta per la notte di natale ma “lei” non arriva, mentre il coro della gente glossa le res gestae della morta: era una mondana, conosceva persone importanti, o ancora, no: “era un’isolata, un’asociale”); e la morte in questo racconto non è una catabasi, ma, in linea col Landolfi padre lettore di Leopardi (Nasce l’uomo a fatica, in Viola di morte), un attraversamento, una nuova uscita dal grembo crudele della veglia che sinistramente coincide con lo scorrere della vita tutta verso la stretta della fine del respiro (“è uno spasimo, come quando un nuovo essere si strappa dalla viscere di chi lo ha generato […] un dissidio, un lacerazione; si crea una pervietà nella quale si è forzati a passare, con infinito dolore”). Dal Landolfi padre poeta Idolina Landolfi narratrice prende il “la” e va avanti, dice il seguito: lo strisciare di Maria, che vuole ricongiungersi a “lui”, tra una caverna e l’altra tentoni, l’incontro di “creature con ali brune” che vogliono ostacolarla, con la fanciulla muta che ha impresso in fronte il nome del suo pianeta natale, con luoghi ameni ricchi di fiori e colori dove torna nell’animo bambina e poi ancora l’ingresso in cunicoli bui come “budelli vivi” che la espellono; infine l’approdo in un oltretomba pagano, rovinante e parallelo, da bambina rifinita – timorosa della punizione della madre perché ha deturpato la vita con la morte –, nella “soffitta polverosa della sua casa, con le mura che si sgretolano e certe cavità in cui i piccioni depongono le loro piccole uova” e con “lui”, all’inizio del racconto “padrone di un regno inaudito”, che si mostra “diverso” dalle notti dell’incontro in sogno: stanco, “grande insetto intontito dal sonno”, spalanca le braccia e imbozzola Maria nella sua giacca-ragnatela. Un abbraccio sonnolento, smemorato, dentro una casa in rovina, è quello a cui punta una vita di dedizione e una fuga dentro la vita (o la morte, poco importa), e il narratore onnisciente e orientato rivendica la fatica e la velocità dell’impresa del ricongiungimento col tenero, tenebroso covo dell’uomo nero: “a volte accade, che si faccia più in fretta [a incontrare da morti i morti]; non paia superbia, ma dipende solo da noi”.

Da questa inerme eppur reclamata distinzione quanto a tenacia nel rapido ritorno all’oscuro, prendono il via per contrasto gli ultimi due racconti, Le cose e Nox aevi, che fronteggiano con insistenza e, si direbbe, anche con curiosità il mondo di esseri umani – lavoratori, vicini di casa, malati cronici – all’apparenza poco o per nulla inclini a commerci col mistero diffuso in ogni dove, come invece palesemente a volte appaiono le cose (“a volte, in condizioni di particolare gravità, gli oggetti fanno udire la propria voce. Avviene quando si compiono atti di tale perfidia o violenza da far rivoltare persino la sorda materia”) e gli animali. L’effetto di meraviglia non è attutito da questa ambientazione dimessa e atona, da questo sensibile aumento di voci narranti o commentanti volgari e sciatte, ma viene semmai fatto brillare all’incontro col vero e con la sua cognizione. Così che l’antico busto in terracotta di una donna morta cui il marito impazzito di dolore ha ucciso il figlio prima di chiedere a uno scultore di immortalarla per averla con sé per sempre, scoperto da due facchini-muratori che stanno sgomberandone la casa anni dopo dall’atroce fatto, può trasformarsi in furia davanti ai loro occhi perché aprano la finestra, facciano entrare la luce e le permettano di dissolversi in minuscoli frammenti, mentre ciò che resta del bambino morto, un pugno, rimane a terra, e viene sollevato dai facchini come ciottolo nero e irriconosciuto (“Lo sguardo della statua che avevano creduto assorto in una cara visione è invece scolvolto, perduto, e contiene una muta, fortissima richiesta d’aiuto; che giunge alle loro menti in un ululato, con l’angoscia dei secoli e l’infinito agognamento, la rabbia dell’impotenza. È la finestra sigillata ch’ella fissa, e sembra che l’interno del suo essere tenda a quel varco, a quella fuga”, Le cose). Allo stesso modo, il vicino di casa di una donna cieca e rapitore del suo cane-guida, nonché narratore dell’ultimo racconto, Nox aevi (fine del tempo, fine del mondo, o ancora: la notte della schiuma dei giorni), può domandare, ma solo perché sollecitato dal comportamento del labrador (che istintivamente abdica alla vita da cane padronale, apparentemente più libera, che il rapitore gli vorrebbe consentire – non per buon cuore, ma per proiezione di desiderio di affetto e di libertà –, e torna docilmente dalla sua padrona imperiosa, bisognosa, non vedente, dunque a suo modo notturna): “chi lo ripagherà della pura devozione che assai caro gli costa, del sacrificio della sua breve vita – tanto più breve della nostra? Non ha che questa, e per loro non esiste neppure il paradiso, affermano i preti. È gratuita effusione di sé, un dono gettato al vento… Ma, direte ancora, non è forse così per chiunque viva?”.

[1] Il titolo della recensione è tolto da I. Landolfi, Non mi destare, amore, raccolta di versi di Idolina Landolfi pubblicata postuma nel 2010 con i disegni di Giuseppe Salvatori (Il Bisonte, Firenze, 2010).

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. È poeta, scrittore, regista, performer e redattore di «Nazione indiana». Ha co-diretto la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci(Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli), La specie storta (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano), L’Ufficio delle tenebre e il saggio Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita (Tlon Edizioni). Ha curato il progetto Ogni creatura è un popolo (NERO Editions)e per Argolibri, l’inchiesta letteraria La radice dell’inchiostro. La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. Con le sue opere ha partecipato a festival e spazi come Biennale Venezia College, Mostra internazionale del nuovo cinema, Rencontres internationales paris/berlin, Centrale Fies. È il vincitore di FONDO 2024 (Santarcangelo Festival), uno dei direttori artistici della festa “I fumi della fornace” e dei curatori del progetto “Edizioni volatili”. È laureato al Trinity College di Dublino e dottorando allo Iuav di Venezia.
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