Le verità elementari di Percival Everett

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di Marco Rovelli

Leggi “Ferito”, l’ultimo romanzo di Percival Everett, pubblicato ancora una volta da Nutrimenti, e resti sorpreso. Ti aspetti ancora un testo frammentario, disseminato, traversato da riflessioni linguistiche e filosofiche, da flussi torrenziali: un romanzo che si dice “sperimentale”, insomma. E invece, stavolta, una narrazione lineare, una storia che ti tiene passo passo, fino allo scioglimento atteso. Una storia, però, incatalogabile: c’è la frontiera del west, con un “rancher nero” protagonista, con cavalli e pick-up (del resto è la vita di Everett, questa, ché lui in un ranch ci ha vissuto davvero), ma non è un romanzo “western”; ci sono gli elementi classici per la costruzione di una storia “thrilling” – un omicidio che apre il racconto – ma non è un thriller, perché l’autore ti fa intuire che cosa sta per accadere, e tu lettore sai che cosa ti aspetta, ed è su altro che poni l’attenzione; il ragazzo ucciso è gay, e il romanzo, che prende spunto dall’omicidio di Matthew Shepard nel 1998, parla dell’odio per i “diversi” (“E’ un paesino normale. Quasi tutti bianchi. Gli indiani sono trattati di merda. Insomma, l’America”), ma non è – o almeno non è solo – un romanzo “sociale”. Forse il modo più fecondo di leggere questo libro è legarlo a quelli precedenti, per cogliere, contro l’apparente contrapposizione, una assoluta omogeneità sostanziale. Negli altri libri la continua sperimentazione linguistica non faceva che giocare il postmoderno contro se stesso: se postmoderno è giocare con le superfici e con l’ironia, in un continuo pastiche di frammenti senza centro ove non è possibile individuare un nucleo sostanziale di “senso”, Everett ha sempre usato le superfici e l’ironia per andare “al fondo delle cose” – e al fondo delle cose ci sono Verità: amore, dolore, morte. Anche in “Ferito”, come nel precedente “La cura dell’acqua” (un grandissimo libro sul Male, dove uno scrittore di romanzi rosa nascondeva lo stupratore che aveva ucciso sua figlia in una cantina), c’è una profondità spaziale in gioco. Là la cantina, qui la caverna (“Ciò che mi piaceva di quella caverna, o forse di qualsiasi caverna o dell’idea stessa di caverna, era che si trattava di un posto dove la luce esterna cessava di avere un’influenza”). E’ nello spazio fondo e buio della caverna che accadono le cose che contano: l’amore, la morte. In quell’internità (bandita dal postmoderno) si conosce l’amore, si salva una vita, si trova un corpo morto. Si tratta di scavare, insomma, di andare oltre ogni gioco di lingua (“il linguaggio è un universo immorale”) per fare spazio alla verità dei sensi e del corpo. Fare spazio a quelle verità “elementari” (in quanto elementi di senso della vita) che emergono quando – come conclude Gus, lo zio del rancher nero, ed è l’ultima frase del libro, ad aprire ancora una volta un universo di sensi – “è finito il tempo di parlare”. Quel silenzio “profondo” – dove si sfida la paura del buio – è lo spazio della narrazione e dell’amore: “E’ bello amare qualcosa di più grande di noi senza averne paura. Qualsiasi cosa valga la pena amare è più grande di noi. E’ così”. Ma nessun misticismo, qui, solo i fatti elementari della vita: “Io non capisco niente di religione, ho risposto. So che questa è la mia vita e questa è la mia casa”. La ferita del titolo, allora (e ancora, qui, una continuità assoluta con “La cura dell’acqua”), è il legame supremo, la comunicazione profonda tra gli esseri umani – quell’apertura al fatto nudo (e impossibile) dell’esistenza che, sola, è comunicazione, e vita.

 

 

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2 Commenti

  1. Bella recensione, complimenti. Ho amato molto questo libro, il suo essere tanti libri insieme, come scrive appunto Rovelli. Peccato che il mio non sia stato il “modo piu`fecondo” di leggerlo, visto che e` il primo di Everett che leggo, ma spero di colmare presto la lacuna :-). Comunque lo consiglio a tutti.

  2. […] Percival Everett non ha mai molta voglia di parlare, e in generale è uno scrittore riservato e amante di una privacy completamente aliena alla sua vocazione o professione. Questo non è un incipit per dirvi che con noi si è lasciato andare ad una logorrea incontrollabile ma è per portarvi nel mondo di un autore capace di segnare il suo passaggio con poche pietre chiamate parole. Il suo nuovo romanzo Ferito pubblicato in Italia sempre da Nutrimenti è il quarto capitolo di un’avventura nell’uomo e dell’uomo, stavolta alle prese con paesaggi sconfinati, omosessualità e laceranti verità. […]

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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