Anything Else: il circo si è chiuso l’11-9-2001

di Simone Ciaruffoli

woody-jason.jpgQuest’ultimo di Allen rischierà di passare quasi inosservato, quanto meno farà la figura del prodottino composto nei ritagli di tempo, tra una causa in tribunale e una seduta dall’analista. Ci piacerebbe però cercare di prendere una posizione che oltrepassi serenamente la masnada di articoli concentratisi sulla sempiterna difficoltà del regista di uguagliare o avvicinare le opere di almeno un decennio fa. E per fare questo dovremmo rinsavirci dai (pre)concetti passatisti dell’alleniano doc che sonnecchia in noi e lasciarci andare a una decisiva torsione del nostro sguardo in favore di qualcosa di diverso, o almeno di inaspettato.

Questa non vuole essere una recensione di Anything Else, non ne possiede il piglio né (forse) il giusto distacco per intessere un discorso obiettivo. Piuttosto desidera farsi, dismessi i panni ingombranti del critico, riflessione con il cuore in mano sull’operato di un regista che non ha mai cessato di mettersi in discussione, costruendo sulle proprie paranoie il set di un film lungo una vita.

Se alla nostra nascita fossimo stati dotati di un kit di sopravvivenza con annesso ri-avvolgitore della nostra vita, un arnese tipo il telecomando del videoregistratore, probabilmente ora staremmo lì a compulsare zapping per cercare uno snodo narrativo dal quale rimettere in moto una situazione, un evento incagliato in qualche crocicchio decisionale: le volte che abbiamo detto di no a un caro, gli appuntamenti mancati, ma anche decisioni ben più importanti, quasi vitali. Mi viene in mente un racconto di Buzzati nel quale un uomo veniva messo di fronte al suo passato, a tutte quelle soluzioni che avrebbe potuto prendere, così da evitare storture e rimediare.

Ma niente kit per noi comuni mortali, solo ripensamenti e derive nostalgiche. Deve aver pensato la stessa cosa Allen con questo film, deve averci pensato su e deciso di voler “rimediare” non dico alle ossessioni di una vita, ma almeno alla sua poetica cinematografica, che da quelle stesse ossessioni è stata sempre alimentata. Una sorta di sublimazione filmica, diciamo così.

E infatti quello che fa è cercare di (ri)portare sulla “strada giusta” un giovane aspirante scrittore (giovane aspirante scrittore lo era anche Allen), senza tentennamenti, con una presunzione che sa di radicalismo sfrenato, affinché lo stesso non commetta gli stessi errori. Insomma una sorta di giovane alter-ego da svezzare prima del tempo. Prima che quel tempo venga a reclutarlo nelle volute della solita pellicola di un film già visto.

Non si era mai visto un Allen così deciso, infatti. Che dispensa consigli su come trattare le donne, su come decidere di vivere, con slanci inaspettati non soltanto verbali. Come dice giustamente il collega Simone Emiliani su Sentieri Selvaggi: l’avete visto lo sguardo del regista un momento prima di sfasciare l’auto del parcheggio? L’avete mai visto un Allen così? Personalmente credo che quello sguardo insieme alla successiva azione violenta, ancorché ridicola, e forse proprio per questo più forte, sia una delle immagini più violente di questi ultimi periodi di cinema.

Non c’è dubbio, New York (e non solo) non è più quella di prima, di conseguenza il suo regista, quello di Manhattan, per capirci meglio, raffredda la sua poetica e apre una squarcio mai pensato.

Se non in miseri momenti il regista perde per strada quella irriverenza ludica, quel gigioneggiare bambinesco, quella tenerezza che nelle precedenti opere avevano proiettato sullo schermo la risultante di uomo di mezza età alle prese con un mondo fatto di negatività in fondo amiche. Un circo di parate pessimistiche ma pur sempre allestite all’interno di un circo. Guardatelo in Wild Man Blues, per esempio. Ci sono momenti che dichiarano chirurgicamente quanto il regista si sia costruito, in maniera quasi imbarazzante, un’epidermide protettiva contro gli oggetti, i segni e le persone che lo circondano. Tanto da svelarlo, in fondo, per quello che è: un bambino mai cresciuto in una città mai cresciuta.

Ma su Anything Else il circo ha chiuso i battenti assieme all’11 Settembre 2001. New York cresce, diventa grande all’improvviso (anche se la sua Mela lo era già da tempo) accompagnata dalla paura che i limitari di quel circo non riaprano più. Non si era mai visto infatti un Allen bramante Los Angeles come quello di questo film. Vi ricordate cosa pensava il regista della Città degli Angeli in Io e Annie e con quanta velocità si premurava di abbandonarla? E chi se lo dimentica!

Se ricordiamo bene ce lo aveva già preannunciato il regista da Venezia. Se Michael Moore sta su una sponda del fiume Hudson (tanto per non uscire fuor di metafora newyorkese, anche se lo sappiamo bene: New York non è solo la metafora) Allen sta dalla parte opposta. Se Moore disarmerebbe l’ America senza colpo ferir, l’ebreo (probabilmente proprio di quelli che “cominciano tutte le guerre”) la ricoprirebbe di piombo.

Quello di AE è un Allen ferito a morte e straziato nell’orgoglio. Un uomo che nell’inciviltà del suo tempo ha covato una dose di odio che ormai difficilmente può essere contenuta nelle battute di un film. Che non può più essere allusa solamente nell’HELP sul cielo di Celebrity, ma deve necessariamente sfogarsi in un gesto di ordinaria follia come quello del parcheggio. Non basta più predicare, redimersi alla freddura da inane cabarettista, sembra dirci il regista.

Woody Allen in questo film sembra perfino perdersi in una città che non vuole più riconoscere e dalla stessa essere riconosciuto. E’ accolto nel suo ventre come ogni cittadino, barbone o poco di buono, ma vagabonda come un ebreo errante che avesse offeso il suo Dio (offesa dalla quale nessun ateo può esimersi), come un fantasma che nessuno può vedere (tranne la sua proiezione giovanile). Sembra infatti un fantasma, o forse il simulacro di se stesso quello che si aggira per i tracciati di Central Park senza avere una meta e senza dalla stessa provenire.

Da dove infatti proviene il professor David Dobel? Dove abita? Perché la narrazione non si preoccupa di contestualizzarlo in maniera soddisfacente? Proviene dalla giungla, nella quale i suoi balocchi militareschi troverebbero giusta soddisfazione? Dallo stesso Central Park?

David Dobel ha già perso la cittadinanza newyorkese, per caso?

Magari ne sapremo qualcosa di più dal suo prossimo film. Aspettandolo forse con la stessa curiosità che ci attanagliava un po’ di anni fa…

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5 Commenti

  1. Caro Cianufoli,
    le scrivo da appassionato di cinema. Lei parla nel suo intervento di un film che non ho visto, e forse non vedrò nemmeno. Non ne ho lo stimolo, ma lei non c’entra, sia ben chiaro. Non ne ho lo stimolo semplicemente perchè del Woody Allen che non cessa mai di mettersi in discussione, come lo descrive lei qui, francamente non ne posso più. Può darsi che io parta da un preconcetto dettato soprattutto dal fatto di NON aver visto quest’ultima opera del bardo di Manhattan; e dunque può darsi che io abbia torto nell’avere il mio bravo (o forse cattivo) preconcetto, e non abbia voglia di andare a vedere quest’ultimo Allen after Sept.11th incazzato duro (detto in estrema sintesi) che lei ci descrive. Può darsi che questo Allen fuori dai denti e dai gangheri come mai prima, mi par di capire, possa anche piacermi. Può darsi di no.Problemi ovviamente miei. Resta il fatto che Allen secondo me sa fare di meglio, di molto meglio che autorappresentarsi. Non è solo un grande attore, una grande maschera di sè stesso (a differenza di Nanni Moretti) ma, soprattutto, è un grande regista. Ora torno a Moretti, precisamente a quello della “Stanza del figlio”, e lo paragono con Woody: se Moretti in quel film avesse messo, chessò, Fantastichini al posto suo (e quindi non il solito Michele Apicella) il film (esangue e anche un pò scontato, diciamolo) ne avrebbe a mio avviso senz’altro guadagnato. Ma Allen non è Moretti. Allen è un pazzo-scatenato-geniale del cinema off (ma anche IN) Hollywood. Però, e qui sta il punto, si è autorappresentato direi a sufficienza in circa trent’anni di carriera.Su altri fronti ha ottenuto secondo me risultati alterni: tanti fa con il bergmaniano Interiors ha fatto bene, con Hannah e le sue sorelle invece ha annoiato (me e tanti altri)in un modo che non dimenticherò tanto facilmente… Tanti anni dopo, di recente, ha composto invece una grandissima variazione, secondo me: quella di “Accordi e disaccordi. Un film assolutamente straordinario, con Sean Penn che interpreta una sorta di Felice Gimondi della chitarra jazz:sempre secondo a Eddy Merckx/Django Reinhardt. Ora chiedo a lei, sommessamente e seriamente: era autorappresentazione anche quella di Accordi e disaccordi o era forse, quella, piuttosto, semplice narrazione? Allen è un narratore a tutto tondo, un narratore vero, non un Henry Miller cinematografaro con più senso dell’umorismo e meno copule. IL cinema, secondo me, è narrazione PALESEMENTE visionaria. Si “vede” meglio il film del romanzo da cui è tratto, per intenderci. Non è mia intenzione sputare sentenze, voglio solo riaffermare un mio gusto: il WA nevrotizzato (in qualunque salsa lo vogliamo condire) può stancare, dopo tutti questi anni. “Citarsi addosso”, proprio. E questo mi fa un pò pensare, perchè il Woody narratore di storie come quella di Accordi e disaccordi, il Woody vero poeta del cinema, è a mio avviso qualcosa di più forte, di molto più forte, anzi di fortissimo.
    Tutto questo detto senza intenti polemici ma solo per capirne, da lei e da altri, di più. E per confrontarci.
    Grazie,
    Franz

  2. Caro Franz,
    scusi il ritardo ma sono fuori casa da un po’ di giorni, e dovrà (spero) scusarmi anche per la sintesi di questa risposta, le scrivo infatti da un terminale pubblico della Fnac di Milano.
    Certamente mi trova d’accordo su diversi aspetti del suo scritto. Quello di AE non è una gemma nella cinematografia del nostro ma nemmeno un brutto anatroccolo. Credo però che sia cosa intelligente prenderlo come una variazione non cinematografica, (forse) nemmeno poetica, ma “umanistica” certamente sì. In questo film WA sembra stanco (più di prima), paradossalmente sembra esausto anche del cinema e soprattutto del suo fare cinema. Non è certo un WA cinefilo quello di AE, non è sicuramente il WA bambino con le sue nevrosi anche divertenti e divertite. Qui siamo davanti a qualcosa di diverso, e dinnanzi a un cambio di direzione. Non so verso dove o cosa ma un cortocircuito deve aver manomesso e fatto slittare il lavoro (?), l’esistenza (?) del regista. Lei poi mi chiede se quel gran film di “Accordi e disaccordi” può essere considerato alla stregua di certe altre opere “autorappresentative”. Le rispondo di sì, senza alcun dubbio. Perché chi rappresenta il Django Reinhardt se non l’amato Fellini, meglio, l’amato Bergman del jazz? Nel film c’è tutto il dualismo artistico di Allen, la paura di non essere all’altezza della vita, ma nemmeno dell’arte, del cinema e della musica in particolare. Emmet sviene alla vista di un personaggio che sappiamo bene rappresentare non soltanto un individuo ma simbolicamente anche uno specchio puntato direttamente nell’inconscio alleniano. Una sorta di sindrome di Stendhal: l’opera rappresenta sì la sua immensa emozionante bellezza, ma anche i limiti di chi la osserva. Ma questo è ancora un Allen innamorato della musica, del cinema, che omaggia attraverso la lavandaia Ettie le pellicole dei Trenta. E’ ancora un uomo che sa rappresentare filmare la Bellezza, un regista innamorato che con dolcezza sceglie per il visual della locandina l’Emmet sulla luna. Ecco, ancora un uomo con la testa sulla luna. Su “Anything Else” Allen invece scende dalla luna e mette i piedi per terra. Smette di sognare (e quindi di fare cinema nel modo più Innamorato e, come giustamente dice lei, nel modo più “PALESEMENTE visionario” possibile) e filma senza retorica la Bruttezza. La violenza. Forse il controcampo del suo cinema vecchio stampo. Non è un capolavoro questo “Anything Else”, tutt’altro, ma sicuramente rappresenta oggi la sveglia di un uomo-regista che a parte vere chicche (non dimentichiamo anche “Henry a pezzi”) sta-va girando (in senso non solo filmico) un po’ troppo su se stesso. Ora devo scappare, spero di esserle stato in qualche modo adeguato.
    Grazie

  3. Caro Simone, grazie molte per la sua sintesi. Dunque AE è “la sveglia di un uomo-regista che stava girando (in senso non solo filmico) un pò troppo su se stesso”. Questa cosa che lei ha scritto mi ha fatto riflettere. Dunque AE è un film che non rappresenta solo Allen, è qualcosa di più, forse rappresenta un generale malessere che Woody, da par suo, INTERPRETA. Mi corregga se sbaglio. E’ interessante e molto bello anche quello che lei dice di Accordi e disaccordi. E dunque è chiaro: che si tratti di quel film “innamorato” o che si tratti di AE, Allen rimane un AUTORE. Anche perchè mette se stesso in prima linea, sempre e comunque. Più che autorappresentarsi, forse, si espone. Con coraggio.
    Non mi resta che andare a vedere Anything Else, dunque.
    Grazie ancora.

  4. No Franz, non sbaglia, almeno a parer mio. E in questa sede sembra mettersi in discussione come padre nella sua ultima occasione, come se il mondo stesse per finire e con esso anche le possibilità di spiegarsi una volta per tutte. Allen come si sa ha un figlio prodigio, un genio che ha 9 anni era già iscritto all’università. Ma questi non ha un buon rapporto con il padre, anzi. Con questo “Anyting Else” Allen sembra quasi cercare di riconsolidare un rapporto con quel figlio troppo intelligente. A mio modesto parere AE è un film per il figlio, sui figli, quanto “Buongiorno, notte” lo è sui padri. Qui Allen dispensa consigli come non aveva mai fatto. Ci dice che ci vuole coraggio ma bisogna sapercela cavare da soli nella vita, solo così possiamo demonizzare la morte. AE è tutto un dipendere e dipendersi. Il ragazzo interpretato da Jason Biggs non riesce a stare da solo, dipende prima dalle ragazze e poi da Dobel; la fidanzata dello stesso ragazzo idem, compulsamente cerca la spalla di un uomo; il personaggio interpretato da Danny De Vito muore d’infarto quando Biggs gli confida di volerlo abbandonare per andarsene a Los Angeles; la madre della ragazza si attornia di ragazzi molto più giovani di lei e si accasa con la figlia. Come con “Henry a pezzi” la morte è dietro l’angolo, e saperla vincere da soli non è semplice. A questo proposito e tanto divertente quanto emblematica la scena in cui la madre chiede aiuto ad Allen anche per spostare il pianoforte. C’è dietro Jung (il rapporto di Jason Biggs con l’analista lo dice bene), c’è dietro la Morte e dietro ancora, o forse avanti, un insegnamento da portare a termine. Come ho detto la cinefilia di Allen qui è presto scongiurata, ma a ben vedere un piccolo ulteriore film ce lo mostra. Che sta tutto nella storia anti-alleniana inventata a Jason Biggs. Immaginata e raccontata solo per renderlo una volta per tutte indipendente da tutto e tutti. Vattene (da solo) finché puoi, sono disposto ad inventarmi anche che ho fatto fuori un poliziotto e che Los Angeles è una grande città. Se non è questo un film (nel film) per un-il figlio…

  5. Interessante davvero la sua interpretazione (privata, di Allen) nell’interpretazione (critica). Come se il cinema fosse l’unico mezzo possibile a WA per comunicare con il suo vero figlio, di cui avevo sentito parlare tempo fa anch’io. O WA vuole comunicare anche a noi questo suo disagio? Come “terapia”? Materia soprattutto per psicoanalisti, questa, mi pare. Questa ipotesi mi fa uscire dal cinema per entrare in un tunnel di riflessione umana che mi pare agghiacciante:un autore di cinema si serve della sua arte per comunicare al figlio con una sorta di lettera filmata, però aperta al pubblico. WA, a quanto ho capito, è in un certo senso costretto a farlo; per quel suo senso di inadeguatezza ai maestri e alla vita di cui lei ha accennato prima parlando di Accordi e disaccordi. Insomma, forse l’ha sempre fatto. In questo caso avrebbe potuto usare carta e penna per scrivere una semplice lettera al figlio, ma non ha potuto. Si tratta, mi pare, questo, di un dramma personale che il film può svelare allo spettatore alleniano e allenato. E’ una ulteriore chiave di lettura, questa. E’ d’accordo?
    Grazie

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