Meditazione su Lapo
La cocaina l’ha inventata Dante

di Giorgio Vasta

Lapo Elkann, il brand communicator della Fiat, ricoverato in ospedale per overdose di cocaina. Giorni fa il caso Calissano. Prima ancora, come esordio di questa striscia di eventi, l’intercettazione audiovideo di Kate Moss in pieno “cocaine break”.

Sta succedendo qualcosa, si sarebbe indotti a pensare. Siamo di fronte a uno sdoganamento, alla messa in torsione di un tabù sociale, o per lo meno al suo fare insistentemente pressione per perforare un divieto. La cocaina, la sua cultura e la sua retorica, ci affronta.

Oppure non sta succedendo assolutamente niente.

Provo, in maniera del tutto estemporanea, a unire i puntini, a collegare questi tre epifenomeni, questi sfoghi della cronaca, a ricavarne un disegno e a tentare due tre microdeduzioni.

1.
L’affaire cocaina, in questo momento, svolge una funzione detector. È un marcatore chimico, come il bario che ci fanno bere quando dobbiamo fare una lastra dello stomaco, qualcosa che serve, se osservato attraverso un adatto dispositivo di visione, a osservare un’oscurità, un recesso, quello che a occhio nudo, e senza mezzo di contrasto, non si vedrebbe.

La discussione sulla cocaina mette in crisi il sistema sociale della comunicazione televisiva perché porta in primo piano il fenomeno della doppia morale. Quella di chi, puntando il dito o tendendo la mano (gesti solo apparentemente dissimili: entrambi – è fondamentale rendersene conto – sono gesti che separano, fisicamente e moralmente, chi parla da colui del quale si parla), definisce la differenza tra noi e l’altro. Una differenza che nella risolutezza di quel gesto – che pure spesso ipocritamente concede qualcosa alla fragilità umana e alla proprietà commutativa dell’esistenza (quello che adesso sta accadendo a te potrebbe un giorno – un giorno, forse, forse, un giorno, ma non contarci – accadere anche a me) chiarisce che si tratta di un distinguo per lo meno antropologico, se non ontologico.

Io, qui, adesso, sono estraneo, sono immune, alla tara della quale si sta parlando. Invece tu, lì, adesso, sei coinvolto e sensibile a detta tara. Tu sei dentro, io sono fuori. Fino a ieri tu eri, come me, come noi, soggetto, rispondevi alle interviste e andavi alle feste, mentre adesso – piccola magia di questo sterminato palco – sei oggetto. Oggetto, quotidiano, di conversazione. Di analisi, di commenti salaci, di comprensione e di compassione, di battute discriminatorie. Ma, quel che conta, oggetto. Accortamente infantilizzato, strategicamente medicalizzato, e complice, con il tuo sguardo pulcino (inerme, vittima – ah, le cattive compagnie!), dell’inquadratura che viene a stanarti.

La cultura della doppia morale, però, prevede che il censore sia a sua volta suscettibile di censura, ragione per cui gli è necessario tenere il più accuratamente possibile celato il doppio fondo, l’accesso allo scantinato morale, ciò che lo renderebbe simile, se non identico, all’oggetto in discussione.

Questo meccanismo era chiarissimo a Jean Genet quando scriveva Il balcone, macchina teatrale – non esattamente dissimile dal nostro sistema socioculturale – che per funzionare esige la compresenza di due diversi ordini di realtà (la doppia morale ha sempre bisogno di due diversi ordini di realtà, diversamente percepiti e giudicati – o di una sola realtà dimidiata), e più sinteticamente a Fabrizio De André quando, nella Città Vecchia, a proposito del vecchio professore canta Vecchio professore cosa vai cercando in quel portone / forse quella che sola ti può dar una lezione / quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie / quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie.

Ed è quindi altrettanto chiaro, a De André, che la doppia morale struttura se stessa secondo due opposte e complementari organizzazioni del mondo, una diurna e una notturna.
In maniera più bruta e istintiva questo deve essere evidente anche per la macchina di commento perpetuo televisiva: durante il giorno si produce il fatto, durante la notte se ne discute.

A questo punto sarebbe bello potere applicare artificialmente, al fenomeno della doppia morale, il principio di simmetria che Ignacio Matte Blanco fa valere per l’inconscio: Il sistema inconscio tratta la relazione inversa di qualsiasi relazione come se fosse identica alla relazione. In altre parole, tratta le relazioni asimmetriche come se fossero simmetriche.
L’esempio classico è sempre lo stesso: se Francesco è figlio di Giuseppe, allora è altrettanto possibile che Giuseppe sia figlio di Francesco.
In questo modo il confine tra i due ordini di realtà richiesti dalla logica della doppia morale verrebbe meno, un flusso di realtà si mescolerebbe all’altro e la doppia morale verrebbe sconvolta da questa nuova traumatica indiscernibilità.

(scrivendo in tempo reale, mentre la notizia è calda e in tv, questa sera, non si parla d’altro, ascolto adesso Vespa dichiarare che Lapo Elkann sarebbe stato colto da malore mentre si trovava in compagnia di due travestiti, di un transessuale, non è molto chiaro. Mi dà da pensare – e forse varrebbe la pena di scavare un solco laterale a questo ragionamento e poi percorrerlo – il fatto che l’affaire cocaina si scateni a partire da uno scenario di questo genere. La donna morta nell’appartamento di Calissano era, se non ricordo male, brasiliana. Brasiliano, stando a Vespa, sarebbe anche il transessuale che ha chiamato il 118 per avvisare di quello che stava succedendo a Elkann. Il denominatore comune è quello dell’esotismo, questa vecchia bestia di attrazione, che al nostro Occidente biancastro ha suggerito sempre tantissimo (l’attrazione di Charles Baudelaire per il “profumo esotico” di Jeanne Duval vale, tra le altre, da matrice). Mi incuriosisce di più, però, specialmente rispetto al discorso di prima, l’elemento isolato, che non ricorre nel caso di Calissano ma solo in quello di Elkann, ovvero la presenza di un transessuale. Al di là del fatto che la transessualità è, se collegata al già descritto esotismo, il valore aggiunto, l’esponente ennesimo al quale elevare l’attrazione per l’altro, a essere interessante è la natura mercuriale del transessuale, perfetto tramite tra giorno e notte, tra pubblica moglie e prezzo notturno, una sorta di psicopompo al quale le circostanze attribuiscono il ruolo di condurre la barchetta fragile del nostro corpo e della nostra visione del mondo da un luogo all’altro, dal principio alla fine, o viceversa)

In televisione, però, le cose non vanno in questo modo. La doppia morale non è indotta al collasso, il dito resta puntato, la divaricazione tra noi e lui è inesorabilmente la base a partire dalla quale si costruisce il discorso, il già detto commento eternamente perpetuantesi. Bruno Vespa – e in chiave brizzolata spettinata anche Enrico Mentana – è il guardiano della soglia. Concentrato nel ribadire il valore indiscutibile di un assetto morale quasi perfettamente aderente al senso comune, sta a lui decidere chi sta da una parte e chi sta dall’altra, chi – anche per un breve tempo, a mo’ di giro turistico – deve precipitare all’inferno e chi, invece, può continuare a sedere comodamente alla destra del Padre.

Tornando al nostro specifico, vale a dire all’affaire cocaina e all’idea per la quale la cocaina fa irruzione nel discorso televisivo portandosi addosso un potere in teoria eversivo, c’è ancora da fare una precisazione.

Il discorso sulla cocaina, proprio perché condotto da personaggi che fondano la propria r-esistenza sociale sulla doppia morale, ha la capacità di marcare il complesso ramificatissimo e intricato sistema di collusioni sul quale sembra reggersi una parte significativa della nostra macchina sociale.
Io so che tu sai che io so, scioglilingua pronominale tutto italiano e al contempo sintesi precisa di cosa si può intendere per collusione reciproca, appare come la condizione di rapporto dominante. La tua vulnerabilità sociale, se solo la cantina venisse penetrata dalla luce del sole, è speculare e compenetrata alla mia. Per questa ragione io, nel puntare il dito e nel tendere la mano, sarò sempre immerso in un sottinteso role-playing, tuo vicinissimo complice, e non derogherò mai alle regole del gioco, anzi, proprio nel momento in cui mi farò vicino al tuo volto con la mano dura pronta a schiaffeggiarti e a ordinarti il pentimento, con l’altra, senza farmene avvedere, ti farò segno di stare tranquillo, di stare, appunto, al gioco, queste sono le parti che ci sono toccate e i ruoli vanno portati fino in fondo.

2.
La ricorrente attenzione di queste ultime settimane nei confronti dell’affaire cocaina, sembra rendere nitido un altro fenomeno.
Nella misura in cui anche la cronaca è prodotto, ogni prodotto richiede – o meglio impone – il proprio testimonial.
Kate Moss in un modo, Paolo Calissano e Lapo Elkann in un altro, Diego Armando Maradona, in passato, in un altro ancora – limitatamente a quanto riguarda la cocaina – sono buoni se non ottimi testimonial della cronaca riguardante il pericolo delle droghe pesanti e delle indagini e delle riflessioni a esse relative.

La connessione tra personaggio e notizia si fa sempre più forte, e la notizia – esasperando il discorso – sembra esistere nella misura in cui esiste un personaggio che gli è connesso.

Coerentemente a questo rinnovato modello di esistenza della notizia diventa necessario dotare la notizia stessa, con il suo testimonial, di una serie di apparati imprescindibili.
Uno o più claim, ad esempio.

Martina Stella, ex fidanzata di Elkann, subito raggiunta dai giornalisti, precisa che lei e Lapo si sono separati “per impegni e inclinazioni differenti”. Si tiene comunque aggiornata sulle condizioni dell’ex fidanzato, ci tiene.

Subito raggiunta dai giornalisti: dal momento che la notizia, in questi e in altri casi, è formula, anche il linguaggio che la introduce sarà calibratamente formulare.

3.
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

Nel Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io è riassunta tutta l’estetica cocainomaniaca, tutta la sua feroce sensorialità e tutto il suo scatenamento immaginifico: dal vorrei assunto fin dall’inizio come sostanza psicotropa in grado di innescare visioni molteplici in successione, di unione, di comunione, di intensissimo legame solidale, all’essere presi per incantamento, l’istante in cui la perfetta obliqua inalazione del verso si fa sogno denso, leggero; dal vasel-vascello – esilissimo, di cartavelina, un’imbarcazione pesante un grammo, indifendibile eppure salda nel modellarsi docile tra vento e mare – che contiene e muove l’euforia, alla fuga deragliante e incoercibile del polisindeto onnivoro, che corre attraverso tutto il sonetto come una malattia della pelle, una varicella, un morbillo, un prurito dilagante, tutte queste proliferanti e esantematiche, fino al plazer di matrice provenzale, lieve e giubilante, sintetizzato in una striscia granulare di parole che sono come una bocca in fuga, un pac man incursore carambolante generatore divoratore di immagini di piacere.

Questo sonetto dantesco è cocainomorfo perché da grande sonetto alcaloideo qual è racconta il desiderio di farsi avulsi dalla storia, scollati, mancanti alla storia, e, contemporaneamente, dalla non storia eletti, distinti, precisati, e concentrati solo in un ragionar sempre d’amore che è un ininterrotto fare l’amore, godendo dell’amplesso del verso, delle sue scoscesità e dei suoi risucchi, delle impennate carnali e dei gorghi abissali, muovendosi rapidi sulle tumescenze senza impigliarsi, e premendosi sopra con gli occhi e la nostra voce che legge nella bocca o nella testa, come se tutto il sonetto fosse cosparso di microscopiche interstiziali vagine, tutte e simultaneamente penetrabili dalla voce e dalla lingua e dal senso.

Questo sonetto dantesco è l’Ur-cocaina linguistica perché tra l’i’ vorrei del primo verso e l’i’ credo dell’ultimo, tra questi due dolcissimi argini porosi, c’è tutto lo srotolarsi del desiderio cocainomane, il suo elencarsi, il suo catalogo, la forma di una vita ideale che ha fame di essere terrestre e reale, di stare da qualche parte, di accadere, di non risolversi impotente nella scolastica e in sé avvilente evocazione e nella natura asintotica del linguaggio, che si sporge infinitamente verso le cose senza riuscire mai a toccarle ma che, al contrario, mette loro, alle cose, alla vita, le mani addosso.

Questo sonetto dantesco è una forma di cocaina poetica perché è insieme eccitante e lenitivo, tossico e curativo, a seconda della diversa individuale capacità d’assunzione della sostanza e del suo grado di concentrazione. Nel deliquio cocainofilo, un millimetro sotto le palpebre, galleggia un desiderio di armonia, una nostalgia di concordia, che travolge piano, nella forma della frase e nella sua costitutiva transessualità (perché la frase, sia chiaro, è transessuale), ogni pretesa e pretestuosa differenza di genere, perché la grande poesia è senza sesso e tutta sesso, e il noi finale non ha sesso e ha tutti i sessi.

Questo sonetto dantesco, infine, come la cocaina è un nascondiglio nel quale andare a rifugiarsi in pochi, essere in pochi, stare nel pochi come in una piccolissima radura di senso a lentissimo rilascio, nell’orgoglio del noi finale, e molto probabilmente nel tre, come nel vuoto di fonazione e di senso che si spalanca al centro del testo, nella parola sempre, vivendo sempre in un talento, la parola sempre, questo cratere nero nel quale tutto precipita e si perde e poi si arrampica con velocità animale e ritorna fuori e si riallunga in schiuma e va ancora avanti a ritmo di febbre e di brusio, di cosa organica, vivente, mobile, sonoro, perché l’intero sonetto è anche cosparso di minuscoli pigolii, di un chioccare sordo e impetuoso, o di zampette mobili rampicanti rintoccanti, un sillabico tip tap tic toc rasp rasp, leggendo sembra di attraversare un fiume saltellando sui sassi tondi che sporgono dal pelo dell’acqua, ogni sasso una sillaba, ogni passo un movimento verso qualcosa che sembra stare dopo la poesia dopo le parole, ma poi forse non è così, ed è questa la ragione del senso di gioia e disfacimento e impazienza che prende alla fine del sonetto cocainomorfo, quel sentirsi felice e incapace, come per ogni felicità, da sempre e per sempre incapace.

Nota: devo il ragionamento del punto 2. a una conversazione con Chiara Stangalino.

Print Friendly, PDF & Email

24 Commenti

  1. Testo molto violento e nella sua rapidità illuminante. La prima riflessione che facevo ieri con Riccardo, un amico torinese cui devo molte chiavi di lettura della città riguardava un rapporto tra la storia antica e quella contemporanea. In fin dei conti Gianni Agnelli faceva anche di peggio alla stessa età, ma dietro di sè aveva, proprio come per i Kennedy una macchina organizzativa capace di montare e smontare mediaticamente ogni defaillance. Il fatto che la cosa sia trapelata così naturalmente, può essere di duplice segno: Uno che i patriarchi di un tempo non controllano più nulla, due che nuovi patriarchi stanno subentrando. Sinceramente non lo so. Bisognerebbe chiederlo a Robertino Saviano, per capire come funzionano le cose nel sistema camorra, che non dimentichiamocelo ha un fatturato di gran lunga superiore al PIL.
    effeffe
    ps

    Alle citazioni proposte avrei aggiunto il maestro Ettore Petrolini

    Ogni cuor si accende ed arde
    Perché ci ho gli occhioni belli
    Le basette a la Bonnard
    Ed i gesti alla Borelli
    Misterioso come Ghione
    Gastone – Gastone.
    Bice
    Solo lei mi fa felice
    Gemma
    Ama solo la mia flemma
    Rina
    Lei per me la cocaina
    Se la prende a colazione
    pensando
    a Gastone.

  2. L’etica manichea si contamina, si contraddice, travasando dalla mano destra alla mano sinistra cio’ che per secoli è rimasto diviso.
    le condizioni umane esistenziali sfuggono alle categorie sociali.
    Che differenza c’è tra Lapo, il cocainomane dal collettobianco e la ragazzina alterata?
    dal punto di vista intimistico nessuna.
    Quindi, si sta aprendo il varco alla dicibilità della devianza, come valore globalizzato, come elemento legittimato dall’eroe dell’impresa sacra italiana o giustificato dal bravo ragazzo della soap opera.
    Direi molto volgare, subdolo, pericoloso; quasi a voler orientare il senso comune verso questo vissuto come normalità.
    Nel 68 si usavano questi espedienti per liberarsi di menti geniali capaci di sovvertire l’ordine precostituito.
    Ora si compie lo stesso svendendo uno stile di vita glamour, trend, vincente, potente……
    l’esotismo, veicolo di devianza allontanata, mi ricorda la Carmen di Bizet , dove appunto, la gitana, permette di mantenere le distanze alla borghesia francese perbenista tardoromantica verso desideri e pulsioni disidicevoli.
    E’ la stessa logica del trans moderno.Va bene tutto, purchè lontano estraneo, disconoscibile.

  3. per me il problema potrebbe tranquillamente risiedere nella qualità delle sostanze che girano: forse lapo non ha il fiuto del nonno materno.
    personalmente, confermo una differenza abissale tra la cocaina sudamericana e quella che adesso si trova in piazza (quasi esclusivamente di laboratorio) – effetti più blandi e meno coinvolgenti costringono i consumatori ad incrementare esponenzialmente l’assunzione delle sostanze.
    il cocktail di cui si parla, poi (bamba+bonza) è vecchio come il cucco ed è conosciuto come ‘speed-ball’. per averne referenza rivolgersi alla buonanima di belushi, o a river phoenix.

  4. La coca che gira per l’Italia non è di laboratorio, non esiste coca di laboratorio o meglio ha altra definizione. Qui è questione di taglio, si usa dal calcio per i cani alla farina…

    Il pezzo di Giorgio è assai bello. Scardina, descrive, dileggia, trasforma. Osserva. Davvero bello e necessario.

    La coca è il petrolio che l’Italia diffonde in Europa attravero le sue imprese più potenti: Camorra/Cosa Nostra/Ndrangheta
    Solo che i pozzi in cui trivella sono quelli sudamericani e albanesi.

  5. roberto, non parlavo del taglio, che c’è e non si scampa. parlavo proprio di cocaina sintetica. non adulterazione bensì vero e proprio cambio merceologico.

  6. Non riesco a capire in quale misura questa “notizia” debba costituire interesse pubblico; a me di Lapo Elkann importa sinceramente poco e il “core business” di cui si occupa per lavoro non si misura sul numero di festini privati più o meno innevati che decide di farsi. Se poi vogliamo condurre la questione sul vasto consumo (sottotraccia) di queste “sostanze” da parte della classe dirigente (e di molti middle e low class, ognuno secondo le proprie possibilità) per assumere una qualche “posizione”, come se l’opinione pubblica c’entrasse in una maniera a me ignota (salvo che per i propri comportamenti privati), non posso che dire questo: non ho mai tirato di coca e non mi interessa cominciare. Chi tira di coca, se ne ha bisogno, si curi; se crepa, non mi interessa, si chiami Elkann-Agnelli o in altra maniera. Voglio dire: Lapo Elkann non costituiva e non costituisce alcun modello sostenibile in una società razionale e ragionevole come quella di cui abbiamo bisogno per *uscire dalla sacca di una grossa crisi economica*, né quando parla di marketing (del sorriso e della simpatia) né quando vive la sua vita in qualunque modo decida di farlo. E’ ancora maledettamente “giovane” e, come tale, non gravabile di oneri altri che la propria età, ruoli dirigenziali o meno in Fiat.

  7. mi piace molto lo stile di Giorgio Vasta, questo suo lasciarsi portare per associazioni debite e indebite nei recessi della notizia, a costante rischio di collusione con il vuoto che essa porta, in questo caso: vuoto d’informazione, vuoto di esemplarità, vuoto forse anche di sintomo; eppure costantemente, apre in questa somma di assenze delle diramazioni del pensiero improvvise e impreviste – prima delle quali la questione dello “sdoganamento coca”; e per altro non ho ancora capito del tutto come leggere questi suoi pezzi, e mi sembra un altro sicuro segno della loro fecondità

  8. Il pezzo mi sembra tanto fumo e poco arrosto. Il pezzo è scritto con uno stile ruggente, però mi sembra che la tesi che si sostiene dentro stia tra il banale e l’esasperato. Esasperato perché Dante-Lapo-Cocaina mi sembra un’associazione che non sta in piedi comunque la si voglia sostenere e argomentare – e questa associazione mi sembra l’idea forte del pezzo, tant’è che è riassunta nel titolo. Banale perché dire che Dante è un allucinogeno, è cocaina, mi pare ormai un concetto ampiamente navigato. Riporto un pezzo di bandella del volume Gli ultimi giorni di Lucio Battisti di igino domanin edito peQuod: “[…] Quando Emilio Salgari scriveva dell’oppio indonesiano senza avere mai messo piede in Oriente, o quando Victor Hugo descriveva il soggiorno di un uomo solo su uno scoglio in mezzo al mare, o quando Melville piazzava un angelo su un albero maestro di una nave che solcava gli oceani – altro non facevano che compiere un gesto lisergico che oggi Domanin rinnova: infilavano un paio di occhiali caleidoscopici per fare vedere il mondo quale è: un’allucinazione […]”

    (Preciso subito che sto parlando del pezzo e non di chi l’ha scritto).

  9. Una serie di risposte.

    GiusCo, tu scrivi: “Non riesco a capire in quale misura questa ‘notizia’ debba costituire interesse pubblico; a me di Lapo Elkann importa sinceramente poco.”

    Detto molto brutalmente, sono d’accordo con te. Nel senso che su un piano strettamente umano, per quanto impietoso possa essere affermarlo, a me di Lapo Elkann non importa. Per ragioni anche puerili, vale a dire per un’istintiva antipatia, per un’insofferenza di fondo per i suoi modi e per lo stile, addolcita soltanto dal riscontrare nella sua fisionomia una certa somiglianza con l’immenso Marty Feldman, nonché – ma si tratta inequivocabilmente di un calco animato dello stesso Feldman – dello scoiattolo psicopatico dell’Era Glaciale, quello che con sguardo – è il caso di dirlo – “cocainomane” insegue dappertutto la sua ghianda.

    Ciò non toglie, però, che una specifica notizia che lo riguarda possa essere in sé interessante. Io leggo quotidianamente i giornali nella piena coscienza di potere accedere in maniera sempre parziale e fallace a gran parte delle notizie che vengono date. La stessa trasformazione del fatto in notizia mi sembra un procedimento di ordine alchemico. Si smaltiscono impurità a vantaggio della produzione di una forma giornalisticamente condivisibile. E ogni smaltimento sacrifica complessità. In ogni notizia ci sono elementi del tutto volontari, che derivano dall’intenzionalità del cronista di mediare determinati contenuti, e altri elementi che invece sono una specie di schiuma, di residuo non ancora del tutto smaltito e che permane, un truciolato di immagini e di senso che resta lì, a disposizione, se si vuole farne qualcosa. Ed è esattamente questa la parte che mi interessa e sulla quale provo a ragionare.

    Scrivi anche: “Lapo Elkann non costituiva e non costituisce alcun modello sostenibile in una società razionale e ragionevole come quella di cui abbiamo bisogno per *uscire dalla sacca di una grossa crisi economica*.”

    Anche su questo sono d’accordo, Lapo Elkann non è un modello “sostenibile”, ma anche su questo ho una piccola obiezione.

    Se si osserva il fenomeno sociale cocaina da un’angolazione che metta in secondo piano glamour e pietismo e si dedichi piuttosto all’osservazione delle componenti mitiche e narrative, allora Lapo Elkann diventa un modello da studiare.

    Nel 1901 Thomas Mann pubblica I Buddenbrook. I Buddenbrook è una perfetta storia dell’Europa contemporanea, raccontata sulla falsariga di una storia famigliare. Una famiglia legata all’imprenditoria mercantile, la continua negoziazione tra una dimensione umana sempre più mortificata e una dimensione di posizionamento sociale invece sempre più urgente, il succedersi di vari personaggi ognuno dei quali supera le proprie ordalie e diventa “capo” e, alla fine, la storia del piccolo Hanno Buddenbrook, l’ultimo rampollo, il pollone sterile, colui il quale morirà giovane e del tutto estraneo alla logica imprenditoriale, inetto a essere capo e soggiogato, invece, dall’esempio materno, delicato e artistico.
    Hanno è la sintesi di una decadenza, e Mann decide di far coincidere la decadenza con l’inclinazione artistica.

    Ora, quello che mi domando è se è lecito immaginare che Lapo Elkann sia, con tutte le dovute differenze, assimilabile alla figura di Hanno Buddenbrook.
    Anche nel suo caso c’è una famiglia “imperiale” in pieno disfacimento (per lo meno di immagine, ma forse lo è sempre stata), una famiglia che – come la maggior parte dei grandi casati europei – nobili e imprenditoriali – si va “secolarizzando”, perde certi suoi crismi originari e si rivela nella sua costitutiva miseria (cosa che non rende queste famiglie “inferiori” alle altre, a quelle cosiddette normali, bensì del tutto “identica”). Anche nel suo caso, inoltre, c’è il derogare all’interpretazione canonica di un ruolo. Hanno non può essere capo e Lapo non vuole essere capo. Non canonicamente, almeno.

    Lo scarto che produce senso sta da un’altra parte. Hanno cede alla passione per la musica, alla corruzione artistica, fino a corrompere il suo piccolo corpo e a morire di tifo. Lapo, invece, cede al gioco di ruolo dell’alta società, al festino, alla coca e al trans. Non muore, viene ricoverato, viene testimoniato il pomeriggio a Verissimo e la sera a Porta a Porta: è un bravo ragazzo, povero caro, è molto sensibile, molto fragile.

    Lontano da ogni moralismo (davvero non trovo, nel comportamento di Elkann, nulla che possa essere considerato in sé riprovevole), resto affascinato proprio da questo scarto, che mi sembra rappresentativo di un’ulteriore metamorfosi.
    L’Europa tragica di Hanno Buddenbrook lascia il posto all’Europa tragicomica di Lapo Elkann. La differenza non sta specificamente nel fatto in sé della decadenza, comune a entrambi, ma al contesto nel quale queste due decadenze sono ospitate e raccontate.

    Per queste ragioni mi è sembrato utile provare a scriverci un po’ su.

    Andrea, prima di tutto grazie per quello che dici. Per quanto riguarda il non sapere come leggere questi pezzi, considera che io devo ancora capire come scriverli.

    Marco, non sono d’accordo con te, ma non per una mera difesa d’ufficio di quello che ho scritto. Tu dici che è banale porre un collegamento tra lo stupefacente alcaloide e lo stupefacente dantesco. Di fatto un nesso di questo genere coincide con un luogo comune. E’ molto probabile che sia così, che questa rima di forma e di senso sia un luogo comune, ma ciò non toglie che all’interno di un luogo comune si possa entrare e mettersi a scavare. Voglio dire che il luogo comune esiste nella sua espressione perfetta quando esiste sotto forma di citazione, quando cioè si recupera da un immaginario condiviso uno specifico reperto, un fossile, e lo si ostenta davanti a tutti, velocissimi, con la convinzione di chi ha appena rivelato al mondo una scoperta sconvolgente. Se il luogo comune viene invece assunto come tale ed esplorato, osservato sotto la sua regione corticale, allora ho la sensazione che lì dentro si possano andare a trovare un bel po’ di cose ben poco “comuni”.

    Con questo non intendo dire che io sia riuscito a farlo. Mi interessava soltanto precisare che il limite di un ragionamento non può essere costituito dall’apparente banalità del suo oggetto.

    Un saluto a tutti,
    giorgio

  10. Non ci siamo. Chi alle tre di notte cerca conforto e lo trova dove è possibile merita rispetto come vittima. Le frecciatine, gli ammicchi e le gomitate sanno tanto di razzismo, omofobia, maschilismo. Gli Agnelli (ma poi dove sono più gli Agnelli) vanno combattuti (e anche aspramente) quando sono in sella, comandano e distruggono il paesaggio italiano con quelle maledette lamiere. Ma perchè infierire sui disperati? Lo dico nel trentennale della marcia dei sedicenti Quarantamila….

  11. Frecciatine, ammicchi, gomitate? Razzismo, omofobia, maschilismo?
    Giorgio Di Costanzo, ma davvero tu ci vedi tutto questo in quello che ho scritto? Una volontà un po’ bieca di irrisione? Lo sfottimento del nemico quando cade da cavallo?

  12. settembre 1980: la FIAT annuncia il licenziamento di 12 mila operai e la cassa integrazione per ulteriori 24 mila, la metà dei quali destinati poi alla strada. i sindacati proclamano uno sciopero ad oltranza dei lavoratori. cade il governo Cossiga. il 14 di ottobre a Torino, il braccio armato degli Agnelli, Cesare Romiti, fa in modo che la riunione di duemila capi-reparto dell’azienda si trasformi in una marcia per le vie del centro di quarantamila tra impiegati, tecnici, imprenditori dell’indotto coi propri dipendenti al seguito, “ma soprattutto persone che presumibilmente non avevano mai messo piede in una fabbrica, come commercianti o agricoltori.” (fonte della citazione: dipartimento formazione di Forza Italia).
    sono passati 25 anni. 25 anni fa erano gli Agnelli di Dio. oggi sono i Servi del Signore.

    e Dante non è assolutamente una droga, altrimenti gli studenti delle superiori non bigierebbero per evitarne la parafrasi.

  13. diciamo che non dormo e allora vi commento. Lo trovo piu’ salutare dei festini. Credo che esista un’equilibrio, un’equità, una sorta di economia del sorpruso, che toglie violentemente cio’ che è stato preso abusivamente.
    So’ che nell’era del postpositivismo parlare in questi termini sa’ di superstizioso e paracelsico, ma è un caso che tutti i rampolli Agnelli siano segnati da vite ad Imbuto? Fatalità? la vita non guadagnata si ritorce contro chi l’ha derubata? o ciclicità deterministica Vichiana?

    Magda Maga Circe :-)

  14. E’ bellissima l’interpretazione della poesia di dante: la mia vecchia prof d’ita, fervente focolarina, mi gettò dalla finestra per molto meno.
    Il pezzo su lapo, davvero bello, anche io ho visto il matrix di Mentana e mi ha colpito la frase di quello grasso, quel giornalista che ha la moglie femminista e che ha creato un gruppo chiamato il branco rosa o roba simile. Ah, ecco, Giuliano Ferrara che ha detto che per sua parte Lapo era solo unh ragazzo in ospedale e bisognava dargli gli auguri di pronta guarigione. Volemose bbene. Il pubblico ha applaudito.

  15. Il trans non è “brasiliano” ma “barese”. Bari è dunque un’entità esoticamente attraente? (Assonante con BALI?) O repellente? (Pensiero Leghista) . Me lo sto domandando da barese qual sono.

  16. si, il terrone è esotico, come il brasiliano , come la carmen spagnola, come tutto quanto rientra nell’ottica agorafobica dei leghisti.
    per esempio, il marocchino non è esotico, mentre il cubano, il portoricano, si….stereotipi etnici stesi dalla 3 B ( berlusconi blair bush).
    nell’immaginario leghista, o ottocentesco francese borghese, attraente di notte e repellente di giorno coincidono nelle stesse persone. E’ il manicheismo che nominavamo prima.

  17. prima di tutto sei un grande come scrivi, la tesi dante coca l’ ho sempre sostenuta. E’ giusto che si sa cosa succede davvero nel mondo, gia perchè qualcuno avrà anche pensato come lapo a un ragazzo pulito, tranquillo, in grado di dare sicurezza ma non ha mai convinto; avete visto in che modo parlava alle interviste…? sapete dopo questi fatti (calissano, lapo, kate moss) hanno pensato di fare una legge che dice: “ok da oggi le droghe leggere sono uguali a quelle pesanti…!” questa legge oltre a peggiorare la pena a chi verrà sorpreso in possesso di droghe leggere, non farà altro che facilitare tutti quei processi per cocaina, e sopratutto a parare il culo [e scusate il termine] a tutti quei cocainomani, quarantenni, vestiti bene, straricchi, e stratestedicazzo che ci sono e ci saranno sempre in ogni città! brutta storia il caso lapo, poi mi piace che ste cose le dicono e poi non ti dicono mai come va a finire. chissà addirittura lapo è andato a “divertir… ehm… a disintossicarsi negli States. mah ciao ragazzi bellissima sta pagina!

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Natale, ingerire per favore

di Andrea Bajani Per fortuna gli italiani hanno ricominciato a consumare. C’è stato un momento in cui si è temuta...

Tanto si doveva

di Andrea Bajani (Ripropongo qui, oggi, un racconto scritto per la campagna dell'Inail "Diritti senza rovesci". Perché non vorremmo più...

La vita come testimone oculare

di Andrea Bajani Andrea Canobbio ha scritto una confessione. Sospeso tra il racconto e il reportage, ibridato da innesti di...

Cittadini o clienti?

Note a margine della "questione romena" di Andrea Bajani Tutte le volte che uno zingaro entra in un bar o in...

I pionieri del Far East

di Andrea Bajani La prima volta che sono atterrato in Romania è stato un anno fa, aeroporto Otopeni di Bucarest,...

Il packaging dell’italiano

di Andrea Bajani C’è una tendenza tutta italiana a voler fare la fine dei puffi, non si sa se per...
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: