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Dalla Malaparte (due)

Come scrivere durante Auschwitz
di
François Taillandier
traduzione di Francesca Spinelli

Kaputt è un libro affascinante, che ammiro senza riserve. Il suo titolo, però, non mi convince. Alle mie orecchie suona troppo familiare, troppo piccolo. In Francia, diciamo per scherzo «kaputt» parlando di una vecchia bagnarola in panne, di un phon che inizia a puzzare di bruciato, o di noi stessi quando alla fine della giornata ci viene una botta di stanchezza. Se fossi stato l’editore di Malaparte, gli avrei proposto un titolo diverso da quell’ironico e familiare «kaputt»; ad esempio Le Mille e Una Notte della notte.
Le mille e una notte, perché Curzio Malaparte si comporta come una vera e propria Shahrazàd, e forse per le stesse ragioni: non morire, non farsi tagliare la testa (caput, capitis: testa). «Allora io narrai dei cani dell’Ucraina». «Allora mi misi a narrare la storia di Spin, il cane del Ministro d’Italia, Mameli, sotto il bombardamento di Belgrado». «Ora le racconterò, dissi, la storia di Sigfrido e del gatto».
Le mille e una notte della notte, perché questa strana ridondanza si sposa bene con l’eccesso e la superfetazione che sono al centro del libro, che ne costituiscono la molla e l’ossessiva singolarità.
Kaputt è l’opera di un testimone. Malaparte discende alla lontana dai cronachisti medievali. Viene anche da pensare che si sia impadronito, trasformandolo, di un genere già ampiamente radicato nel ’900 come il grande reportage. Un testimone che tuttavia ha qualcosa dell’affabulatore. Ad ogni pagina del libro, o quasi, mi chiedo se non stia esagerando. È effettivamente vero che mentre il Reich metteva l’Europa a ferro e a fuoco il re Gustavo V di Svezia passava il tempo a ricamare? O che i “fedeli ustascia” hanno offerto al loro Ante Pavelic un cesto contenente venti chili di occhi umani? Leggendo, ci si dice che bisognerebbe controllare, vedere se i libri di storia, quelli veri, forniscono delle testimonianze attendibili e concordi.
Nei miei ricordi di lettore, l’episodio del vagone illustra particolarmente bene questo senso di disagio. Nel maggio del 1941, Malaparte è in Romania con il console italiano Sartori. Fa un caldo spaventoso. A una stazione il console scopre un treno che ha impiegato tre giorni per percorrere venti miglia, e ordina di aprire la porta di un vagone piombato dai finestrini sbarrati. Valanga di cadaveri. Una pagina terribile descrive la fantastica ressa tra i cadaveri e il console che è sepolto lì sotto. Quando finalmente riesce a liberarsi, dice: «Guardate se c’è ancora qualche vivo, là in mezzo. Mi hanno morso il viso».
Il corsivo è mio. Tutto, nell’episodio, sembra plausibile, tragicamente plausibile; non abbiamo ragione di dubitare. Finché appare la valanga di morti, fino a quell’ultimo particolare che ci spinge a chiederci: Davvero? Malaparte l’ha visto? Non starà esagerando un po’? Il console Sartori è stato davvero sepolto dai corpi, morso al viso? Malaparte non l’avrà inventato, questo particolare? E non è ripugnante e malsano che di fronte all’orrore delle deportazioni abbia voluto drammatizzare oltre misura? E perché?
A tale proposito, viene da citare un episodio de La Pelle in cui alcuni ufficiali francesi, che hanno letto Kaputt, approfittano dell’incontro con Malaparte per mettere in dubbio, come noi, i suoi racconti. Secondo loro, Malaparte prende in giro il lettore: non possono essergli davvero successe tutte quelle cose. Malaparte non protesta, non si arrabbia, non accenna a ribattere. In tutta tranquillità inizia a commentare il gustoso pranzetto che hanno appena consumato, e confessa di aver trovato nel suo piatto di cuscus la mano di un soldato. Un’ora prima, quest’ultimo era saltato su una mina, e non si era più trovata la sua mano, caduta, come spiega Malaparte, nella pentola del couscous. Dopo averla scoperta nel suo piatto di polenta e carne di agnello, Malaparte l’ha mangiata per educazione, così da non turbare la piacevole atmosfera del pasto. E conclude: «Vogliate scusarmi se, non ostante la mia buona educazione, non sono stato capace di mandar giù le unghie».
Più tardi, insieme a un amico, ridono dello scherzo: «“Ah! ah! bien joué Malaparte! Un tour formidable!”» gridava Jack correndo. “Impareranno così a mettere in dubbio quel che racconti in Kaputt!”». La faccenda si chiude su queste risate, e Malaparte, furbescamente, non ci tornerà più sopra.
Ed è proprio questa la sua risposta a chi mette in causa la sua integrità di “reporter” e di scrittore.
Tutto sta quindi nel capire le ragioni di questo suo ricorso all’affabulazione. Per esagerare? Possibile che gli orrori del nazismo e della guerra, i popoli massacrati, affamati, deportati, le città e i villaggi bruciati non bastino? La battaglia di Stalingrado o l’annientamento del ghetto di Varsavia non superano forse qualsiasi invenzione letteraria? E nell’affrontare questi argomenti, non bisogna far prova di umiltà, di pudore? Si ha forse il diritto di scherzare?
Credo di aver trovato, in un’osservazione di Hannah Arendt su Kafka, un’ipotesi che aiuta a capire il senso di questo ambiguo gioco malapartiano, di questo suo cinismo da affabulatore. «Il riso di Kafka, scrive la Arendt ne La tradizione nascosta, è l’espressione diretta di quella libertà e di quella spensieratezza umana che capisce come l’uomo sia più grande della sua sconfitta, se non altro perché riesce a concepire una confusione che sia più confusa di ogni possibile confusione reale».
Le ultime parole, che ho voluto evidenziare, mi sembrano rendere conto dell’impresa malapartiana, del punto di vista che si è scelto. Ed ecco come potrebbe suonare il suo messaggio implicito: «Vi mostrerò ora che è possibile aggiungere l’incredibile allo spaventoso, completare l’inimmaginabile con l’inverosimile. Vi darete pizzichi e vi strofinerete gli occhi, chiedendovi se l’autore è folle, o se è il mondo a essere folle. Cancellerò la frontiera che avete tracciato con tanta cura, e che vi permetteva, uomini razionali, di giudicare la veracità di un racconto. Sarete come quegli animi semplici del Medio Evo, che credevano all’esistenza dei liocorni, delle streghe, del diavolo e delle reliquie miracolose. Non saprete più a cosa dovrete credere. La vostra idea così chiara, così rassicurante, su cosa sia reale e cosa, invece, fittizio, si annebbierà. Vi mostrerò che l’Europa moderna ha polverizzato il vero e il falso, il possibile e l’impossibile, tutte categorie in cui avevamo creduto di poter sistemare la mente umana».
Gli ufficiali caduti vittima della beffa dello scrittore probabilmente non riescono a credere che Malaparte abbia davvero mangiato una mano. Devono pensare che li stia prendendo in giro. Eppure sono spaventati, sul punto di vomitare, perché pensano anche che potrebbe essere vero, che forse un atto di cannibalismo si è compiuto sotto i loro occhi mentre chiacchieravano allegramente. Si accorgono improvvisamente di vivere un’epoca e delle circostanze in cui tutto è possibile, in cui i limiti, i confini possono essere oltrepassati, in cui gli “standard” umani più elementari non sono più garantiti; in cui, soprattutto, il loro intelletto e il loro cuore si sono già abituati a quest’idea, in cui la possibilità di credere a cose del genere, di “berle”, se così possiamo dire, ha già trovato posto in loro. Del resto, è probabilmente questo che più li sgomenta: non tanto il reale, quanto la trasformazione avvenuta in loro stessi.
Ed è anche, credo, l’effetto che questi libri terribili ci fanno, lo specchio che ci porgono. Ci costringono a prendere atto del fatto che siamo pronti a vivere, a continuare a vivere, in un mondo in cui delle persone morte soffocate in un treno mordono, i cristiani inchiodano agli alberi gli ebrei, i re fanno del ricamo, in cui tutto ciò non appare realmente impossibile.

– È bella, l’Italia, disse Susanna.
– Preferirei che fosse un brutto paese, dissi. Non serve a niente, che sia soltanto bello.

Si tratta di un altro passo di Kaputt, che permette di precisare quanto appena detto. La scena si svolge in un bordello per soldati, dove i tedeschi hanno portato delle giovani ebree che verranno fucilate non appena avranno smesso di servire. Susanna è una di queste, e quando scopre che l’ospite è italiano, gli dice gentilmente che l’Italia è un bel paese.
La risposta di Malaparte mi è sempre parsa terribile. Non penso esista, in tutta la letteratura, una confessione così immensamente disperata e straziante.
Di fronte a una confessione di questo genere, le reazioni possibili sono due. O si consola la persona, come cerchiamo di fare, ad esempio, quando qualcuno ci appare particolarmente depresso. «Suvvia! Lei parla così ora, ma in fondo sa bene che non lo pensa davvero… Riprenderà coraggio… Tutti prima o poi ci passano…». Le solite buone parole, insomma.
Oppure ci si chiede se Malaparte non abbia ragione. Si considera l’ipotesi che abbia ragione e si prendono in esame le conseguenze della sua disperata constatazione.
Non serve a nulla che l’Italia sia un paese bello. Un’intera civiltà, quindi, ha fallito. Le città d’Italia, i viali, le piazze, le fontane, le ville del Palladio, gli affreschi di Raffaello, l’urbanistica di Torino e di Roma, piazza Navona, il Bernini, Fra Angelico, la Biblioteca Vaticana, i Fioretti, Fragonard in campeggio a Villa d’Este, i collezionisti di antichità, le vecchie strade di Siena, tutto questo magnifico slancio di civiltà, arte, bellezza e pensiero, tutto defluisce come la marea, lasciando che uomini meccanizzati attraversino le città massacrate, esercitando una violenza industriale.
E se tutta questa civiltà si è rivelata inutile, non riuscendo a impedire che la barbarie più estrema s’impadronisse dell’Europa e contagiasse tutto e tutti, allora bisogna ammettere che sarà impossibile far finta di nulla, e bisogna anche ammettere che tutta questa civiltà non servirà mai più a nulla, perché è finita (kaputt). Bisogna inoltre prevedere che la pace, dopo la guerra, consisterà anch’essa nel passaggio di uomini meccanizzati esercitanti una violenza industriale, attenuata nei modi ma non per questo meno terminale. E allora tutto il grande passato dell’Europa non sarà altro che un cumulo d’inutili ricordi per turisti sfiniti, per un turismo che sarà diventato l’espressione industriale di un’umanità industriale che ha fatto fuori la civiltà con metodi industriali ma che, non avendo perso del tutto la memoria, prova ancora un vago senso di curiosità o di rimpianto per quel mondo antico, un’emozione, una sorta di residuo, un po’ come quando una pila non del tutto scarica riesce a far brillare, debolmente, una lampadina…
Non saprei dire se bisogna condividere la disperazione di Malaparte, e non è questa la sede per discuterne. Ma una cosa va detta, ed è che questo grande scrittore, questo narratore appassionante, divertente, misterioso, visionario, ha portato il ruolo del giornalista, così profondamente caratteristico del suo secolo, a un’altezza epica e metafisica, facendosi poeta cupo degli eventi per tradurre all’uomo di questo secolo la domanda che gli viene posta: una domanda cui l’uomo, del resto, non ha ancora trovato una risposta.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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