Fronte Sud/ Sui maestri

Sul blog Lipperatura era stata ripresa la discussione che si è svolta qui da noi in bacheca. Loredana l’ha integrata con uno scritto interessante sui maestri. Segue un testo secondo me illuminante di un giovanissimo storico dell’arte che ho conosciuto a Parigi e che collabora a Sud.
effeffe

immagine di Frédéric PAJAK

SUI ‘MAESTRI’ NELLA STORIA DELL’ARTE
Riccardo Venturi

1. ‘Maestro della Madonna del latte’, ‘Maestro delle Carte da gioco’, ‘Maestro del Bambino vispo’: cosa vogliono dirci queste locuzioni la cui ricorrenza ne attutisce appena la stravaganza? Questo: che alla mano di un artista sconosciuto viene attribuita un’opera specifica e non firmata. L’individuo scompare, dissolto in un tema rappresentato con cui viene unanimemente identificato e riconosciuto. Se da una parte abbiamo a che fare con nomi tramandatici senza che nessuna opera sia sopravvissuta, qui al contrario non resta che un’opera, spia di un paradigma indiziario attorno al quale lo storico raduna pazientemente, quasi coagula, un corpus di somiglianze stilistiche. Un catalogo incerto, lacunoso e in continua metamorfosi, la cui scansione cronologica è puntellata da punti interrogativi.
Consultando The dictionary of Art, mi accorgo che le voci consacrate ai maestri riempiono ben duecento pagine. Una presenza certo minoritaria, comunità quasi invisibile composta per lo più da figure di mezzo, di transizione, fedeli più al gusto che al genio. Ma al contempo si tratta di una compagine non trascurabile, perché queste diciture – che sopperiscono alla mancanza della firma – sono il sintomo di una dimensione fantasmatica della storia dell’arte, di un’afasia del suo discorso, di un fondo anonimo che resiste all’attribuzione e all’iscrizione storica. I Maestri mettono a nudo la difficoltà critica di arrendersi ad una storia dell’arte senza nomi. Ogni lacuna, ogni mancanza di dati viene prontamente arginata con un nome fittizio e convenzionale, provvisorio e d’emergenza. Un battesimo che dà la paternità ad opere altrimenti orfane, e in queste adozioni va riconosciuta la pietas della storia dell’arte.
In altri termini, a quella che chiamiamo storia dell’arte (e che vorremmo scrivere sempre tra virgolette, per ricordare che è sottoposta a un’incessante opera di decostruzione) sembra connaturata una coazione a nominare – ecco cosa nasconde la logica dei Maestri. Sono personalità la cui originalità – ovvero lo stile dai caratteri inconfondibili su cui il connaisseur fonda la pratica dell’attribuzione – sembra soffocare sotto la ramificazione delle paternità ben documentate. Per questo è facile confondere i Maestri con i loro supposti capiscuola, con un anello della loro ascendenza (il ‘Maestro dell’Osservanza’ con Sassetta, ad esempio). Come se il Maestro, per un paradosso spesso sottaciuto, restasse ab aeterno pedante discepolo, ligio e osservante discente, timorato e fido seguace, senza autonomia rispetto alla scuola di appartenenza. Come se il Maestro – icona del soccombente – provasse ad appropriarsi di un attributo, di un’abilità che non gli sono propri. Di questi Maestri infatti non si può che parlare riferendosi ad artisti noti, la cui influenza li perseguita come un’ombra. Del Maestro di Santa Cecilia, exemplum gratia, si ricorda in buona sostanza che: di Giotto gli manca il senso di profondità ma, allo stesso tempo, di Giotto mitiga la monumentalità delle figure.

2. Non ci troviamo dunque davanti ad una storia dell’arte agli antipodi del culto dell’autore, in cui i Maestri segnano – o meglio incarnano – il limite se non l’impossibilità del capolavoro? È pericoloso affrettare una risposta se si considera la relazione semantica che lega i due sintagmi ‘Maestro’ e ‘capolavoro’. Quello che sfugge all’italiano e al francese (maître / chef-d’oeuvre), diventa inequivocabile in inglese come in tedesco, dove i due termini sono quasi ricalcati uno sull’altro: master / masterwork, Meister / Meisterwerk. Un rapporto che ci conduce a un caso marginale finora non contemplato: quello in cui, a restare sconosciuto, non sia più un epigono che propina stilemi consolidati e la cui produzione si confonde col fondo indeterminato delle immagini, quanto un vero e proprio maestro (di una tecnica o di una tendenza figurativa e così via: sono i cosidetti protoi euretai), capace di inaugurare una discendenza anziché inscrivervisi pedissequamente. Gli esempi non mancano: il ‘Maestro del Libro della ragione’, disegnatore e incisore cui è debitore il giovane Dürer; i manoscritti del ‘Maestro della Madonna di Burgundy’ per l’arte olandese del XV secolo; il nugolo di artisti preducceschi di cui solo ora, in seguito al ritrovamento degli affreschi nella cripta del Duomo di Siena, si comincia a comprendere l’importanza.
E qui tocchiamo uno dei nervi del ‘dispositivo Maestri’: è possibile, e in che modo, legare originalità e anonimia? È possibile scrivere e sopportare una storia fatta di innovazioni e rotture che restano mute, scene senza attori in cui non si coglie altro che il respiro del farsi della storia? Non siamo davanti, per servirci di un’iperbole, ad una storia dell’arte di Maestri contrapposta ad una storia dell’arte di artisti? Come ripensare lo statuto dell’opera d’arte se la sua autonomia e il suo ruolo sociale erano garantiti, fra l’altro, dalla biografia aneddotica e leggendaria del suo alter deus, come si esprimeva Alberti? Domande insidiose che si moltiplicano come cerchi concentrici nelle acque profonde delle pratiche e delle teorie artistiche contemporanee. Come ad esempio il rapporto fra multiplo e originale, che nei primi del novecento prende decisamente partito per la riproduzione, almeno a partire da Rodin, un artista che, come ha ricordato R. Krauss, lascia allo Stato francese le sue sculture nonché i diritti di produzione dei bronzi a partire dai gessi. In altri termini, l’artista-demiurgo delega a un’istituzione la gestione del rapporto originale-copia e si espone al rischio di una moltiplicazione incontrollata delle sue opere (mi viene in mente un ciclo di foto di Candida Höfer sulle diverse copie de Le Monument aux Bourgeois de Calais conservate nei giardini dei musei sparsi per il mondo).

3. Lasciando in sospeso questi punti nodali, ci affidiamo infine ad una finzione letteraria: Le chef-d’oeuvre inconnu di Balzac, pubblicato nel 1831 – stesso periodo in cui Hegel, nei suoi corsi di estetica, decantava la fine della verità, dell’autenticità e della necessità dell’arte – dove la ricerca della perfezione e la realizzazione del capolavoro, nascosto fino all’ultima scena, si rivelano impossibili. Frenhofer è così esaltato da confondere la sua creazione per una creatura: «Vous êtes devant une femme et vous cherchez un tableau», dice a Poussin e Porbus. I quali, accolti infine nell’atelier, si confidano che prima o poi il maestro si accorgerà «qu’il n’y a rien sur sa toile» (riflesso fra l’altro di una precedente battuta di Frenhofer su un’opera di Porbus, cui manca «un rien, mais ce rien est tout»).
Perseguendo a stenti la perfezione di un corpo dipinto, Frenhofer ha finito per sfigurarlo del tutto. Non resta che «une muraille de peinture»: un niente da vedere o un niente che è tutto. Una situazione dello sguardo difficile da sostenere a lungo, al punto che Poussin e Porbus si concentrano e si consolano sulla rappresentazione di un piede ai bordi della tela. Un piede scampato all’inestricabile rete di linee che appena trattengono gli strati di colore, a quell’«espèce de brouillard sans forme» che l’artista brucerà la notte seguente prima di togliersi la vita.
Poussin e Porbus, colti alla sprovvista, cercano un frammento che salvi e quasi redima la totalità dell’opera. Il contrario di quanto fa Reger – protagonista dello straordinario Antichi maestri (1985) di Thomas Bernhard – il quale da trent’anni si reca nella Sala Bordone del Kunsthistorisches Museum di Vienna per cercare un errore palese, quanto microscopico, che impedisca di considerare il Ritratto di Uomo dalla barba bianca di Tintoretto come un capolavoro.
Tornando a Balzac: e se il suo racconto inesauribile (con i suoi transfert, visto che Cézanne e Picasso si sono identificati con Frenhofer) fosse una metafora della strategia dei Maestri? Non dimentichiamo quanto questi, come la logica del capolavoro, siano legati a doppio filo alla nascita del museo moderno nel XIX secolo. E questo racconto ci fa intravedere l’ambiguo fascinum legato ad una storia dell’arte di capolavori sconosciuti o di Maestri.
È solo un primo passo, ma sin da adesso siamo certi di una cosa: che nel caso lo storico dell’arte fosse colui che, fissando il muro, parla il visibile, allora gli preferiremmo senza dubbio Bartleby lo scrivano. Colui che, davanti ad un muro, aveva l’ardire di ripetere ininterrottamente: «I would prefer not to».

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9 Commenti

  1. Sul sito Web Gallery http://www.wga.hu/index1.html alla voce Maestro del Bambino vispo c’è una madonna, mentre per esempio, al Maestro della Scuola di Fontainebleau si attribuiscono più opere.
    Quello che mi incuriosisce è la sorte umana e professionale di questi artisti.
    Perché non se ne è tramandato il nome?
    Sono morti giovani?
    Hanno dipinto troppo poco?
    Sono stati cancellati dalla storia o da qualche potere soverchiante al quale si sono opposti?
    Come e dove sono vissuti?
    A quale bottega si possono ascrivere gli anni del loro apprendistato?
    Come sono morti?
    La qualità che oggi gli riconosciamo era visibile anche per i loro contemporanei?
    Oppure l’anonimia deriva dall’aver gettato la spugna troppo presto?
    Cioè dall’essersi detti: non ne sono capace, non ne vale la pena, non mi pagano abbastanza, non è mestiere per me.
    Oppure: mio suocero mi offre un posto vantaggioso nella sua impresa mercantile, mollo tutto e accetto, che questa vita itinerante, faticosa, scomoda, non fa per me.
    Il maestro anonimo come perdente nel sistema dell’arte del suo tempo, che lavora per un po’ e poi, per qualche motivo legato alla incapacità sua di reggere la competizione, oppure di procurarsi commesse, di consegnare in tempo i lavori, di farsi pagare dai committenti (farsi pagare è un’arte che se non l’impari non c’è altra arte che tenga, per quanto si possa essere bravi), lascia.
    Drammi silenziosi di questo genere succedono continuamente.
    L’artista che molla il mestiere perché tormentato da dubbi o forse dall’invidia per un suo collega a lui prossimo che considera più bravo (solo i prossimi possiamo invidiare), o principalmente perché insoddisfatto della sua opera.
    Quelli che non si credono all’altezza, che da un certo momento in poi non trovano più appigli dentro e fuori di sé, e lasciano la presa, si dedicano ad altro.

  2. Voglio provare (quale esercizietto serale) a spiegare le cause del mio fastidio.

    1) E’ dunque successo che le note tribolazioni della Storia non abbiano talvolta permesso la sopravvivenza di dettagli anagrafici relativi ad autori di cui possiamo però congetturare l’esistenza con una certa plausibilità – per via della coerenza stilistica di cui fanno mostra determinati insiemi di opere.

    2) I vecchi storici dell’arte, si sono allora ingegnati a coniare, per questi sfortunati, dei nomi sostitutivi capaci di imprimersi nella memoria, consentendo così di trovar loro un posto nelle narrative canoniche, a fianco degli autori storicamente più fortunati.

    3) Il nuovo storico dell’arte, una volta imparato l’imparabile, è ovviamente chiamato a distinguersi, a fornire delle aggiunte “originali”, e non delle mere ritrasmissioni del già elaborato. Ecco dunque che è necessario “decostruire”, fare il “debunk” di concezioni che DEVONO PER FORZA essere ingenue, da un lato o dall’altro.

    Si tratta di un’esigenza ovviamente tutta “esterna” all’oggetto che si vuol conoscere, e che, moltiplicata per il numero di pretendenti all’originalità, deve per forza andare a produrre determinati esiti. In questo caso, un’operazione del tutto ragionevole (e in fondo mossa a “rendere giustizia”) da parte delle generazioni precedenti di storici dell’arte, viene fatta “significare” di tutto e di più – ma principalmente una “coazione a nominare”, intrisa di inconfessabile conformismo, che costringerebbe ogni Maestro anonimo a risultare “soccombente” nei confronti di un qualche Maestro debitamente registrato all’anagrafe (razzisti!!!).

    La vacuità dell’argomento è stupefacente, tanto da far pensare che si tratti di un mero pretesto per snocciolare una bella serie di riferimenti dotti. Ma perché, per supportarla, non si propone invece un caso concreto di ribaltamento gerarchico da attuarsi nella “storia dell’arte”? In questo testo, le domande ed i sospetti sembrano davvero moltiplicarsi come cerchi concentrici, allargandosi in vaghezza e gratuità. Si ricercano confuse suggestioni nelle etimologie e nelle finzioni letterarie. Ma il punto è: con questi Maestri Anonimi, si poteva forse agire diversamente?

  3. Condivido appieno e sottoscrivo quanto riportato da
    cazzo ragazzi siete l’ala bulgara di NI
    effeffe
    ps
    comunque ho scritto a Riccardo perchè intervenga

  4. Io ero quasi per scrivere un estasiato “e due!!” però la forma “copia&incolla” usata da Tashtego mi ha fatto sospettare la presenza (comunque ben accetta) di ironia.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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