Torino 2006 – Cantieri d’Olimpiade

di Arnaldo Greco

In una sala, durante il Festival del Cinema di Torino si spengono le luci e si intuisce che sta per iniziare il film in programma. Cominciano a scorrere delle immagini confuse. Deve essere una di quelle nuove pubblicità in cui prima sei bombardato da una serie di scene, incapace di recuperare un filo logico, e poi capisci cosa viene pubblicizzato. Nel caso in questione le Olimpiadi di Torino 2006. Appare il logo e il pubblico comincia a fischiare.
Che lo spirito olimpico sia stato edulcorato dalla Coca – Cola non è un’annotazione originale, che l’italiano sia un popolo dal campanilismo al contrario pure, ma le grandi opportunità economiche delle Olimpiadi, quelle perchè vengono fischiate?

La Mole, il grande simbolo cittadino, l’ aveva cominciata a realizzare la comunità ebraica per farne una sinagoga, poi una volta che la costruzione era stata interrotta (considerata troppo costosa), il progetto fu ripreso dal Comune e concluso in onore di Vittorio Emanuele II.

Il simbolo della nuova Torino che esce dalla crisi e ricicla in terziario la tradizione industriale è il Lingotto, trasformato da simbolo dello spaghetti fordismo in complesso fieristico – alberghiero – museale – commerciale etc. etc.

Dunque la città ha sempre dimostrato che, se non di crearsele, almeno la vocazione per sfruttare le occasioni la possiede di sicuro. Oggi l’opportunità per rimettere a nuovo la città è offerta dalle Olimpiadi invernali, o, secondo qualcuno, l’occasione per pulire tutto al meglio e nascondere qualcosa sotto al tappeto.

Certo è che Torino conta 1.353 cantieri attivi solo nel periodo Maggio – Dicembre 2005.
Il disagio di vivibilità altera gli animi (e muove più voti) dei voli segreti della Cia; aggiunto alla pressioni delle Olimpiadi incombenti, ecco che conta finire il prima possibile e tutto il resto vale poco più di zero.
Anche quando le giornate si accorciano, non altrettanto possono i turni di lavoro, e così riflettori da stadio illuminano il lavoro degli operai.
Ciò avviene, ad esempio, anche nella centralissima P.zza San Carlo in cui i lavori vengono presentati come un vero e proprio spettacolo. Vale a dire che lungo tutto il porticato che costeggia il cantiere sono disponibili diversi spazi e finestre sui lavori, proprio per fare in modo che il cittadino dia un’occhiata e un commento sul loro stato di avanzamento tra una vetrina di abbigliamento e un’altra.
Nei primi tempi ciò infastidiva non poco gli operai osservati più come attori di un’istallazione d’arte che come lavoratori. Ovviamente, come confidavano gli ideatori di questa evidente scelta di marketing, l’abitudine ha placato questa sorta di pudore e al massimo può capitare di ascoltare un operaio indiano domandare a un pensionato, che evidentemente lo osservava da un pò: “Ehi, ma non ti piacciono più le donne?!”
Da un altro punto di vista sono, però operai più fortunati di altri: se da una parte hanno qualcuno che vigila sul loro lavoro, dall’altra si vigila anche sulla loro sicurezza.
Sono tre le persone morte sul lavoro nei cantieri aperti per le Olimpiadi (le associazioni contrarie alla manifestazione sostengono possano essere di più) oltre a numerosi incidenti. Ciò accade nonostante sia stato firmato ad hoc un protocollo d’intesa sulla sicurezza dei cantieri da tutti i soggetti coinvolti nei lavori.
Ma prioritaria su ogni altra cosa è la necessità di terminare le opere secondo gli stretti tempi prestabiliti, ed è impossibile controllare tutte le ditte subappaltatrici o che tutti gli operai svolgano i corsi prima di cominciare a lavorare.
Il rischio è macchiarsi del crimine di far risultare l’organizzazione, e di conseguenza l’Italia intera, incapace di gestire un tale avvenimento.
“ Il mio vicino di casa, un italiano, mi ha detto che c’era lavoro. Ho lasciato il posto di domestico e sono venuto qui. Spero di essere chiamato dalla ditta anche quando finirò questo”. Così mi racconta un lavoratore filippino la sua assunzione (lo incontro insieme a un altro operaio, suo connazionale che non parla la lingua).
Secondo i dati, i lavoratori stranieri dell’edilizia sono circa il 30% nelle grandi città (escludendo il lavoro nero, particolarmente diffuso nel settore delle costruzioni e che coinvolge per oltre il 60% extracomunitari), ma gli incidenti colpiscono in percentuale maggiore gli stranieri rispetto agli italiani.
I cantieri olimpici vanno oltre queste cifre, si parla di oltre 50% di stranieri occupati. Invece si rispecchiano gli standard nazionali secondo cui l’80% degli immigrati occupati nell’edilizia sono rumeni.
In pieno rispetto dello spirito olimpico nei cantieri lavorano persone dalle nazionalità più disparate: peruviani,indiani, marocchini, cinesi, filippini, ex – jugoslavi. Nessuno degli stranieri si è però trasferito qui appositamente.
Nel decreto flussi scopriamo che a Torino sono assegnate quote irrisorie di immigrazione: ad esempio tutto il Piemonte ha un sesto degli stagionali destinati alla sola provincia di Trento.
Il rapporto tra provenienza dell’immigrazione e campo di attività è molto stretto anche a Torino, i nordafricani si occupano in prevalenza di commercio, gli orientali di ristorazione e industria tessile, mentre i rumeni, appunto, di edilizia.
Ditte rumune sono anche subappaltatrici e secondo alcune denunce nei cantieri ci sarebbe anche stato il primo tentativo italiano di attuare la direttiva Bolkestein. Vale a dire che un’azienda subappaltatrice rumena avrebbe fatto lavorare operai secondo contratti che seguivano la normativa rumena, cioè uno stipendio di circa 250 euro più vitto e alloggio.
La presenza di tale regime costituisce anche un’altra questione scottante, quella del caporalato. Intermediari offrono operai che vengono assunti dalle ditte subappaltatrici in prova, gli stipendi però vengono pagati al caporale. Questi secondo il patto stipulato con l’operaio al momento di presentarlo intasca una parte più o meno cospicuo dello stipendio.
E’ solo una minima modernizzazione di una pratica nota: “Molti emigranti provenienti dal Sud, alla fine degli anni ’50, trovarono il loro primo impiego attraverso “cooperative”. Organizzatori di tali “cooperative” erano, in genere, capetti di origine meridionale che fornivano le fabbriche del Nord di mano d’opera a basso costo in cambio di lucrose tangenti. Il lavoratore versava una tassa di iscrizione alla “cooperativa” e iniziava a lavorare senza alcun contratto ufficiale, e senza che il datore di lavoro pagasse i contributi per la pensione né l’assicurazione. L’azienda, riconoscente, retribuiva la “cooperativa” con un certo ammontare per lavoratore, ma nelle tasche di quest’ultimo finiva in genere la metà, o meno dell’intera somma”. Racconta Goffredo Fofi nel saggio su “L’immigrazione meridionale a Torino”.
Eppure se l’immigrazione straniera non ha riguardato i cantieri olimpici, l’immigrazione del famoso treno del sole non è terminata affatto. La metà di lavoratori italiani è infatti composta da pochissimi piemontesi. “Quelli sono figli di papà, qui siamo tutti pugliesi o campani” ci dice un napoletano. “Apparteniamo tutti alle ditte. Ci danno vitto e alloggio, poi un fine settimana a casa e poi ripartiamo per un’altra meta. Io, la settimana prossima vado a Ferrara.”.
E intanto il torinese sfuma questi problemi nel film che comincia.

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5 Commenti

  1. Quelli che appaiono come “problemi” della manodopera edile sono in realtà dati costanti e dunque strutturali di tutto il settore, e non solo di quello.
    Ciò significa che ovunque, ma in particolare nell’edilizia, le condizioni di lavoro sono legate alle condizioni del profitto, alla possibilità di realizzare guadagni non ostante il ribasso, spesso altissimo, mediante il quale si è vinto l’appalto.
    Dunque la convenienza pubblica, cioè l’ottenimento dell’opera al prezzo più conveniante, tende a scaricarsi – occorre dirlo? – sul singolo lavoratore, sui turni e le condizioni di sicurezza, sulla produttività, eccetera.
    In ultima analisi, convenienza pubblica equivale, in questo come in altri casi, a sofferenza privata per alcuni tra i più deboli e ricattabili.
    Tutto questo, in tempi di maggiore lucidità di visione, si chiamava “sistema”.

  2. …e poi invece ci sono torinesi che aspettano le olimpiadi come il giorno della prima comunione.
    Torinesi felici di aprire le porte del salotto nel quale sono cresciuti. Si un po’ spaventati dal rischio che il palchetto si possa rigare o l’arredo sostituito da immobili mimi. Ma comunque disponibili al progresso, al cambiamento, all’arrivo di nuove filosofie, nuovi punti di vista…

    I cantieri di Torino replicano i cantieri d’Italia, il problema non risiede solo qui. E’ giusto tracciarlo ma forse gratuito e generalistico attribuire indifferenza e snobbismo solo ai torinesi.

    cristina da Torino

  3. Tashtego inconsapevolmente hai chiosato il tuo intervento in maniera davvero simbolica. “Sistema” è la parola con cui i clan campani chiamano la camorra……

  4. Volevo solo ricordare, di là della contingenza olimpica torinese – della quale non me ne potrebbe fregare di meno, se non fosse per le trasformazioni urbane che produce – che non si può parlare, come qui si fà spesso, di “condizione operaia” senza fare cenno ai rapporti di produzione che, per così dire, la producono.
    Cioè, si può anche fare, ma bisogna sapere che il discorso, privo di elementi di analisi, si fa mera testimonianza umanitaria, e rischia di diventare solo una cosa solidaristica e cattolicante, che induce alla pietas, piuttosto che alla rabbia, che è politica.

  5. sull’argomento segnalo la rubrica di Augias, oggi 31 gennaio, su Repubblica.
    stiamo usando l’immigrazione clandestina come carne da macello per mantenere competitiva l’economia e alti i livelli di profitto.
    l’immigrato clandestino, proprio in quanto tale, è uno schiavo senza diritti, che garantisce a tutti noi ancora qualche ultima boccata di ossigeno.
    inutile dire che siamo tutti complici di questa situazione.

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