Sonno profondo

coffee.jpgdi Silvia Brusotti

Di là, il sibilare della caffettiera sul fuoco. Il beccuccio manda segnali vibranti di vapore. Percorro il corridoio di corsa pregustandomi quel liquido amaro che accende i pensieri.
Entro in cucina, afferro la caffettiera, la sollevo dalla fiamma per paura che bruci. Apro il coperchio e rimango attonita: non c’è traccia alcuna di caffè. Eppure, ne avevo udito l’inconfondibile fischio. Ne sono sicura ma, ora, non sento più alcun rumore. Poso di nuovo sul fuoco la macchina del caffè, alzo la fiamma, ne aumento l’intensità.
Torno in camera da letto. Mi sdraio. Con un occhio già chiuso e l’altro aperto controllo che nessun raggio di luce sia riuscito a penetrare la barricata di vetro, tende e tapparelle che ogni sera preparo con cura. Le listarelle di plastica devono poggiare le une sulle altre fino a combaciare perfettamente. Nella stanza solo lenzuola calde e buio. In bocca un sapore amarognolo, residuo di gocce per l’insonnia. Ho le palpebre pesanti. Spingo indietro con l’unghia del pollice sinistro l’escrescenza di pelle sulla lunetta dell’indice. La tartasso, mentre mi sorprende l’immagine di mio marito avvinghiato a una donna di nome Anita Cechova. Anita Cechova è una giovane ucraina che fa la panettiera nel negozio proprio sotto casa nostra. Mio marito e io mangiamo il suo pane da più di un anno, quasi a ogni pasto. Bocconcini di pane francese, michette dalla crosta croccante, pane nero di segale, modenesi al latte. Io adoro il suo pane. Lei adora mio marito.

Un nuovo fischio mi distrae. Il caffè, finalmente! Poi il suono cessa di colpo. Attendo conferma. Tendo l’orecchio. Nulla. Ora non sento più nulla. Mi sforzo di cercare nella mia mente un ricordo che sia oggettivo: il fischio della caffettiera sul fuoco. Non riesco, non riesco proprio a ricordare se l’ho sentito davvero o se me lo sono immaginata. Percorro comunque il corridoio a ritroso, verso la cucina, verso il caffè. Le persiane sono ancora tutte rigorosamente abbassate. L’assenza di luce è rassicurante, pulisce i pensieri.
Se il caffè è salito davvero, mio marito lascerà Anita Checova. Ne sono sicura. Ripeto il concetto come un mantra, se il caffè è salito davvero, mio marito lascerà Anita Checova, lo dico senza respirare, con il battito accelerato. Continuo a ripetermelo mentre entro in cucina e afferro la caffettiera, faccio pressione sul manico, apro il coperchio. Niente caffè. Resto immobile davanti ai fornelli. Com’è possibile? Cerco di persuadermi di non aver sentito realmente il fischio della caffettiera. Forse l’immaginazione, il caldo, forse un miagolio del gatto al piano di sotto. Giro la manopola del fuoco verso destra in modo da aumentare la fiamma.

Mi siedo in cucina, avvicino la sedia al tavolo. Ci sono delle macchie e anche polvere. Io sono allergica alla polvere, ai suoi acari, ragnetti dalle feci velenose che liberano nell’aria: non si vedono, non pungono, non si sentono, ma vivono tra noi, sono con noi, a migliaia, a milioni. Disgustosi. Si nutrono di scaglie di pelle umana, forfora, abitano nel nostro sudore. Si moltiplicano, crescono a livello esponenziale, si riproducono a ritmo vertiginoso. Bisogna essere crudeli con la polvere. Di una calcolata crudeltà. Recidere queste micro esistenze fin dalla nascita. Sterminare intere popolazioni, genocidi, olocausti di acari senza compassione. La polvere richiede freddezza. Con la camicia da notte, facendo pressione sul gomito, tiro a lucido la superficie del piano. Strofino così bene, che ora ci si può riflettere dentro. Et voilà: un enorme specchio su di un tavolo di castagno massiccio.
Quanto da fare! – mi dice sempre mio marito – anche noi saremo polvere, prima o poi!  Speriamo almeno di essere polvere in un posto pulito, gli rispondo.
Sì, magari dentro tombe di muro e parquet, come questa casa! Mi fa lui che forse vorrebbe tutte le stanze piene di farina.
Perché no? gli dico. Cemento e parquet tirato a lucido, pulito, profumato. Lo dico per la questione dei vermi, s’intende. L’ideale sarebbe se ci fossero grattacieli profondissimi sottoterra, in cui poter dormire il nostro sonno eterno. Grattacieli verso il cielo per i vivi e grattacieli verso il centro della terra per i morti, raggiungibili con un ascensore comandato da un uomo in divisa ben stirata. Ogni piano, un profumo differente: rosa, ciclamino, alloro, finocchio, salvia, muschio selvatico.
A quale fragranza andiamo, oggi, signora?
A meno 23 sottoterra per favore, profumo di nocciola. Poi mi riaccompagni su a casa a +12, che devo prendere la borsetta per andare a far spese.

Annuso forte. Ancora nessun sentore di caffè. Io adoro bere il caffè appena sveglia: il caffè pulisce lo stomaco, lava dalle impurità. Certo non compro una marca qualunque, vado in torrefazione io, nella via qui accanto, e ne chiedo un chilo composto da Portorico, Santo Domingo e Moka. Lo conservo in un barattolo di metallo, chiudo forte, lo dico per il profumo ovviamente, e metto tutto in frigorifero. Questa mattina il caffè non vuole salire. Sicura di aver acceso il fuoco? Controllo. Sollevo la caffettiera. La impugno. Il blu azzurrognolo della fiamma avvolge tremolante il metallo di supporto. La riappoggio sul fuoco, conto fino a cinque e di scatto la sollevo di nuovo. La fiamma continua a bruciare imperturbabile. Apro l’acqua del rubinetto e bagno accuratamente il fondo della caffettiera. Mia madre lo faceva sempre, con la testa ricurva sullo scroscio d’acqua, ad assicurarsi che fosse soltanto il fondo della caffettiera ad essere bagnato. Sono quelle azioni che ti entrano nella mente e si ripetono poi in automatico. Chissà perché? Perché mai il fondo bagnato di una caffettiera dovrebbe accelerare la bollitura? Eppure funziona così.

Me li immagino nudi sui banconi di legno della panetteria, lui con i peli del petto infarinati che rincorre con i suoi calzini blu avion il corpo giovane e formoso della Cechova. Lei che languidamente scappa e cinguetta, ride, tutta ricoperta di crema pasticcera. Li vedo starnazzanti tra lievito di birra e cesti di pane arabo e poi sfiniti addormentarsi insieme su fragranti bocconcini al latte. Mia madre me lo aveva detto: cercati un uomo serio, con un taglio di capelli onesto. Mio marito non ha capelli. Di certo, se li avesse avuti, non li avrebbe portati in modo onesto.

D’improvviso, un fischio sibila nelle orecchie. Questa volta non posso sbagliarmi, ci siamo: ruoto velocemente gli occhi su una presina, agguanto la caffettiera e ne sollevo il coperchio. Uno sputacchio di caffè viene gettato fuori dalla sua cannula e poi null’altro. Nessun aroma riconoscibile, nessun borbottio, nemmeno un poco di schiuma. Il caffè lo sta facendo apposta, è ovvio, ce l’ha con me: un amalgama nero e vischioso lì lì per uscire già da diversi minuti ma che per dispetto torna indietro attraverso la cannula, si ricompatta in pulviscolo scuro fino a posarsi asciutto sul piano forato del piccolo imbuto. Immagino il ghigno, la supponenza beffarda di quella polvere compatta e nera, nera come i peli sul petto di mio marito. Mi munisco di guanti di cotone, afferro la caffettiera, l’appoggio sul piano di alluminio e la svito senza pietà. Poso nel lavandino i suoi resti: la parte alta, il cestello con il caffè, la parte bassa. Il pulviscolo scuro è pigiato nel suo contenitore. L’acqua bollente lambisce la valvola giusto a metà. Né sopra, né sotto, come deve essere. Ricompongo i pezzi. Rimetto la caffettiera sul fuoco.

Mi tornano alla mente due corpi nudi che si avvinghiano. La loro è solo un’avventura, è l’emozione dello scopare come selvaggi sul bancone di legno di una panetteria! Lui non la ama, penso, mentre con l’unghia del pollice riprendo la pressione sulla pelle del dito, oramai sfilacciata, quasi completamente recisa. La sollevo e poi la spingo indietro. La riporto avanti, la stendo sull’unghia e poi con piccoli movimenti minuziosi e repentini, cerco di strapparla fino ad arrossare la parte. Lui non la ama, ripeto a bassa voce. E questo dovrebbe consolarmi.

Un rumore di chiavi alla porta. Guardo l’ora: le sette di mattina. Controllo nello spioncino: un corpo magro e sbilanciato su una testa ovale. Senza capelli. Mio marito che ritorna dal lavoro. E’ medico anestesista, fai i turni lui, così almeno dice. – Chi è? – Chiedo comunque per sicurezza, non si vede mai bene da questa lente, bisognerebbe cambiarla, sostituirla. L’uomo dall’altra parte della porta interrompe il suo armeggiare, solleva gli occhi e mi guarda. Risponde con voce bassa, baritonale e spazientita: – Sono io…
Lo faccio entrare, mi bacia e mi pare di avvertire un odore pungente di lievito di birra. – Ah, sei qui? Finalmente! – mi lascio scappare. La leggerezza con cui le mie labbra pronunciano questa frase sorprende anche lui. – Sì, ho fatto più tardi del previsto – risponde – un brutto incidente sulla tangenziale: una moto contro una macchina. Nel raccontare l’episodio, il suo viso si contrae in una smorfia di dolore.
– Sei ancora sveglia?
– Non riuscivo a dormire, così ho deciso di farmi un caffè.
Ci guardiamo dai due lati opposti del tavolo.
La piccola ferita vicino all’unghia inizia a sanguinare. L’asciugo avvolgendola in un lembo della camicia da notte.
– Che cos’hai? mi dice.
Il movimento ondulatorio della sua gamba appoggiata alla sedia tradisce il suo nervosismo. Sto bene, gli rispondo, s-t-o b-e-n-e, ripeto scandendo ogni lettera, e non c’è nient’altro da aggiungere.

In camera da letto la poltrona a dondolo cigola stonata. Vedo l’ombra di mio marito riflessa sul muro mentre si piega per appoggiarvi i vestiti. Un odore acre di focaccia al rosmarino mi sorprende. Domani, appena fa giorno devo arieggiare le camere, mettermi a pulire, sbattere materassi, cuscini, tappeti, disfare i letti, cambiare le lenzuola. C’è troppa polvere in giro, si solleva, si respira, si posa dappertutto, sulle cornici, negli angoli, tra le piastrelle.
Mio marito esce dalla stanza, distinguo il suo profilo magro nel corridoio, lo seguo fino a che viene inghiottito dal buio. Solo allora prendo dal suo comodino il disinfettante. Inumidisco la piccola ferita, prendo un cerotto e avvolgo il dito nelle sue bande morbide e rassicuranti, facendo attenzione che il piccolo rettangolo di garza al centro si posi esattamente sopra il taglio. Sento il dito pulsare. Tutto a posto. Chiudo il comodino di fretta: non voglio che mio marito mi veda, si innervosisce quando non sto bene. Scanso la poltrona a dondolo dove sono stati ammonticchiati i suoi vestiti. Sul bracciolo di legno, appoggiati alla rinfusa, camicia, pantaloni, cravatta e, in cima a tutto, due calzini blu avion. Posiziono la mascherina nera sugli occhi evitando di impigliarmi i capelli nell’elastico nel tentativo di far aderire perfettamente l’arcata degli occhi con quel vellutino scuro. E’ importante per riposare bene che il buio invada tutte le camere. Ho il sonno molto leggero, io, non voglio svegliarmi.

Un liquido caldo e scuro inizia a bagnarmi la testa. Scivola tra i capelli inumidendoli, accarezza la nuca. Si spande fino a toccare le spalle, le nocche della mano, le cosce. L’aroma è così forte, violento, il profumo inconfondibile. Caffettiere giganti riempiono oblique il più lontano orizzonte con i loro frizzi di vapore che saettano in un cielo madreperlaceo. Neri rivoli zampillano e intrecciano i loro tentacoli fino a formare un mare oscuro. Le pupille si perdono e non esiste più nulla: non ci sono pareti, né panetterie, né polvere. Dentro questo fluido fattosi oceano, il mio dito non duole più, non c’è più nessun taglio, nessuna ferita. Nuoto dentro le pieghe del suo tempo mentre altro aroma nero sgorga, cola, invade ogni cosa. Trattengo il respiro e poi bevo, bevo, bevo fino a bagnarmi l’anima.
 

 (foto di Alfonso Cuffaro)

 

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21 Commenti

  1. leggo:
    “Si nutrono di scaglie di pelle umana, forfora, abitano nel nostro sudore.”

    anche l’uomo si nutre di animali, anche d’insetti a volte.
    e abita nel sudore della terra.

    poi. il racconto.
    aromatofilia visionaria.
    la scelta del caffè contrapposta al sonno leggerissimo.
    un’attrazione di opposti “caratteriali”.
    il buio invade tutte le camere della mente e degli occhi grazie alla minuziosa applicazione della mascherina. bella immagine.
    molte minuziose descrizioni ,a volte anche fin troppo minuziose
    un rapporto di coppia logoro.
    l’evasione mentale femminile (spesso più generosa che quella attuata fisicamente)

    bello lo stile, solo (mia opinione) a volte, ripeto, le descrizioni vanno a discapito della bella scrittura chiara e sicura in molti tratti.
    la chiusa non mi piace avrei omesso “fino a bagnarmi l’anima” che il senso di riempimento nero era già stato efficacemente reso nei periodi precedenti.
    un saluto
    paola

  2. Suggestivo ed angosciante.
    Racconto claustrofobico sulle implicazioni psicologiche delle nostre piccoli ma corrosive manie quotidinane. La lenta ma inesorabile strada che porta a camminare sui fondali melmosi della solitudine e della impossibilità di essere amati.
    Bello. Di una bellezza ricercata, sottile e profonda.
    Complimenti.
    francesco

  3. Suggestivo ed angosciante.
    Racconto claustrofobico sulle implicazioni psicologiche delle nostre piccoli ma corrosive manie quotidinane. La lenta ma inesorabile strada che porta a camminare sui fondali melmosi della solitudine e della impossibilità di essere amati.
    Bello. Di una bellezza ricercata, sottile e profonda.
    Complimenti.
    francesco

  4. “Bisogna essere crudeli con la polvere.” e “La polvere richiede freddezza.” secondo me sono bellissimi, due autentici colpi di genio.
    Molto bello anche il paragrafo conclusivo (anche per quel “bevo fino a bagnarmi l’anima”).
    Così solo per segnalare le cose che mi hanno colpito di più fra le tante belle.

    alfonso

  5. Complimenti a Silvia per questo bel racconto.
    Mi è piaciuto tutto, dall’inizio alla fine… ma forse il finale ha un tocco poetico che lo fa risaltare.
    molte suggestioni sono stimolate – in me almeno – dal collegare il sesso alla cucina e… sarebbe ora che anch’io mi decidessi a bere caffè!
    Lorenz

  6. Buono davvero.
    L’ho iniziato con scetticismo aspettandomi un lagna intimista anzi lamentosa; invece ha la dignità di una fredda tristezza.
    A me sono piaciuti molto i particolari insistiti che mi danno, mifaano sentire un senso di fuga centripeta per evitare il problema più grande.
    Il tormento ripetuto al dito.
    Il sangue finale.
    E pure l’atmosfera finale di incubi/sogno dove il caffè sgorga finalmente abondante quasi lavacro.
    Tanto ‘sto caffè si fa aspettare che mi immaginavo che dal beccuccio uscisse ad un certo punto magicamente un mostro/marito…..
    Gustato davvero.

    MarioB.

  7. Caffè letterario dalla parvenza onirica
    sommerge tracima di liquida angoscia
    una appiattita routine domestica
    molto buono slurp

  8. Caffè anestetico.
    Elimina artificialmente la sensibilità al dolore.
    Caffè antalgico.
    Allevia il dolore.
    Caffè caldo e scuro contro il congelamento del desiderio.
    Sete di caffè è fame di altro…
    Bello. Da bere a basse dosi per assuefarsi al suo aroma.

  9. il titolo è lo stesso di un racconto di b.yoshimoto,anche se l’hai svolto in modo molto personale e non c’è alcun parallelo fra le due creazioni.
    concordo con dust,le descrizioni sono molto minuziose,forse hai letto hubert selby,il canto della neve silenziosa:c’è una parte del racconto in cui la moglie del protagonista è impegnata a lavare le pentole con una paglietta e quest’immagine fa da stacco al quadro di lui nella neve.
    anche lì la descrizione di un’azione svolta in modo maniacale fa intuire il tumulto interiore.
    non sono una scrittrice,nè un critico e ti invio le impressioni ricevute dalla prima lettura.
    noto una nota di compiacimento nell’ossessione con cui descrivi il rito della preparazione el caffè,di compiacimento per la tua scrittura,intendo.
    mi sarebbe piaciuto saperne di più dei due amanti o dei coniugi,ma,ripeto,è solo il parere di una profana.

  10. ma la Mia non interviene.
    beh. un po’ dispiace impiegare tempo per un commento e non essere defecati.
    e non centra l’autoreferenzialità-
    salut.
    paola

  11. @MarioB. (lo hai scritto tu il racconto?)

    di solito è mio costume (quello buono) ringraziare per le critiche e i commenti (se costruttivi, ovviamente)
    mi pare che, compreso il mio, in questo post ce ne siano.
    ah, già.
    ma chissefrega del tempo che uno ci mette a pensare a gratis, eh?
    un po’ di cortesia. tutto qui.
    vabbè.
    come non avessi scritto niente, dai.
    salut
    paola

  12. Ciao a tutti!
    Ho letto con estremo interesse ogni commento.
    A Paola vorrei dire che non sono intervenuta perché credo nell’atto di libertà della critica, positiva o negativa che sia. Vorrei che ciascuno si sentisse libero di scrivere nel bene o nel male senza l’infastidente mano longa dello scrittore che aleggia a correggere, rispondere e controbattere.
    Credo che spiegare un racconto sia un’operazione ridicola e di immotivata presunzione. Come quelle madri che difendono, giustificano il proprio figlio di fronte a terzi, quando sarebbe il caso che il figlio si difendesse da solo.
    Almeno io la penso così.
    Grazie a Mario che forse ha capito questa mia attitudine, che non vorrei fosse scambiata per presunzione. Al contrario casomai.
    Grazie a tutti coloro che mi hanno letto e in particolare a Paola, Francesco, Alfonso, Giancarlo Tramutoli, Lorenzo Galbiati, ancora Mario B., Lady Lazarus, Rosanna e Manu per aver trovato la pazienza di dedicarmi alcune righe.
    Sinceramente apprezzate.
    Un abbraccio e a presto,
    Silvia

  13. @ancora a Mario B

    interazione
    discussione contaminazione
    pensiero su pensiero
    tallonare angoli diversi
    cascare in angoli diversi
    resuscitare in qualche deriva tra punto e punto
    mandare a fare in culo se non si è d’accordo
    senza moderazione pe poi risalire le maglie
    e ammettere o dis-mettere la critica
    le cose così sono dialogo partecipazione forum
    cultura.
    e cochonnerie interettiva.
    fai tu.

  14. @ Silvia.

    purtroppo senza incontro scontro sguardo fisico intendere sottointendere tendere (anche all’ eccesso sudato) quello che si vorrebbe, è difficile.
    grazie a te.
    paola

  15. silvy! mi è piaciuto da matti! Bravissima! bel ritmo e bella scrittura. Concordo con la nota di Francesco e con quella di Paola.
    ciao moracciona

  16. Gli argini non erano stati ben calibrati. Era un rincorrersi, e alla fine mi sono un poco stufato. Dai che dai. Era semplice ed è stata fatta complicata e offensiva. una ricerca quasi minuziosa, un lavorio inutile e privo di ragione, per un pò ho pensato alla mania di alcune che giocano per giocare, poi ho mollato. Pare che non si possa fare proprio nulla. Fuori uno- a. Colpissima mia, comunque invece di fraintendere sarebbe stato meglio combinare qualcosa, iniziare a combinare qualcosa. Ce sempre un se, un ma, un biglietto da visita da scontare…. un pre-supposto. Che noia!

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di Sergio Garufi
sergio garufi
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Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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