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Da “L’impossibile vuoto di potere”

di Gabriele Ricino

Questo è l’infinito abbandono,
io sono l’uomo che aderiva alla pelle,
e ora (ti prego) non mettermi in fuga.

Quante volte mi ha partorito mia madre
era il gioco che facevo da bimbo
nel nostro appartamento con vista
sul paradiso di specchi:
il mondo era identico a noi,
a parte qualche scarto d’orario –
facevamo la spesa alle tre
e pranzavamo a metà pomeriggio –
piatti di pasta mutanti con un’anima dentro
di sangue. Seduti a tavola in costume da bagno.
La casa era esposta a sud-est, la bocca strapiena di frutta,
ed era sempre pronta mia madre a difendere sé:
“Con amore l’ho fatto” – che potevi obiettare?,
se l’unico posto dove avevi trovato
la stessa parola era sui cartoncini
a forma di cuore o campana
ritagliati col punteruolo per Pasqua o Natale.
Assolvevi al tuo ruolo di fedeltà al comunismo
in ogni stanza e paese, la risposta
che pretende il partito che ti ha dato alla vita:
era giusto così, e la radice che resta
è la voglia insistita delle tue ossa
di premere contro la pelle,
una gola uterina che va in cerca
spaesata di quest’aria infinita, infestata
di piante e animali e ferite
che la potenza dei raggi non vede.

Mia madre la pazza, che perde latte dai piedi.
Mi ha lasciato una mappa utile al resto:
un ramo per come orientarsi tra i morti.
La vecchia Enrichetta, che ha voluto la tomba al piano più basso
così i ragazzini le mettono i fiori. È golosa, di fiori.
Ha una faccia rubizza: una pizia ambulante, una paracula.
Se potesse uscire mezz’ora all’ora dei pasti,
cucinerebbe qui in mezzo, surclassando di molto
gli altri culti presenti: anche le morti di parto, i caduti, i pischelli
del secolo scorso (difterite, spagnola, un pazzo ubriaco
che agitava una falce in mezzo alla strada).
“Appena senti odore di sugo, ferma la macchina sotto i cipressi”.
Hai la vita eterna con poco
se offri un pranzo per cento persone.
La verità è tradizione, e questo nel Meridione è il trucco
che usano le donne canute sui grandi balconi infiorati,
le spiagge d’agosto, su cui troppe voci rimuovono gli echi.
Come le formiche nei prati.
Che portano il cibo a orari indicati, e i doni affettivi,
tutto quello che serve al presente, a sfamare la terra,
a dare il prezioso a ciò che lo aspetta.

Una macchina del tempo che mi riporti ogni istante
a dove mi trovo. Ti spalmo una gelatina tutta sopra la pancia,
allungo il mio collo a auscultare l’imbuto del cuore,
il sangue che compie i suoi giri a sturare d’ossigeno
i capillari deformi. Hai una faccia sincera: è già giugno.
E renditi conto di quanto sei scema rispetto
all’ingrossarsi di seni e cervice. Ti va bene la luce
o la spengo? Stanotte ho studiato le frasi del manuale
Conversazione da padre. Ho allenato le fibre dei muscoli
e i nervi degli occhi. Ripeto “Attenzione!”, così han suggerito
di fare. Ho freddo. Sto imparando a nuotare.

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2 Commenti

  1. Bravo Gabriele,toccante,identificante,un pò etero certo,ma spezzante,partecipante.
    Complimenti,tante cose-cose tante

  2. Molto bella! (somiglia molto al Raimo-style), ma è la prima volta che leggo del suo autore, chi mi dice qualcosina di più?

I commenti a questo post sono chiusi

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