Miracle! di Lakis Proguidis (trad. Cris Altan)

L’unica cosa che sappiamo con certezza è che la nostra capacità di riflettere è rimasta dall’altra parte del sipario e questo “sapere” è l’ultimo. Ai fini dell’arricchimento degli annali clinici, aggiungerò che questa condizione perdura fintanto che l’intelligenza rimane in coma. Coma da cui, peraltro, non si esce, come nel mio caso, che per miracolo.
Ma andiamo per ordine. Andando a prendere l’autobus, quel mattino memorabile, mi perdevo in divagazioni riflettendo su ciò che mi preoccupava da qualche giorno. Si trattava di capire se nella nostra epoca iperpostmoderna restasse ancora qualcosa dell’antica arte del romanzo. Dove sono andati a finire, mi chiedevo, tutti quei bei Don Chisciotte, papà Goriot, Tristam Shandy, Wilhelm Meister, Stavrogin, Emma Bovary, Bloom e chi più ne ha più ne metta? Passavo in rivista i romanzi più recenti che avevo letto senza riuscire a trovare dei soggetti paragonabili agli eroi dei romanzi di un tempo. Perché? Che è successo? Il nostro mondo ha smesso di essere divertente, inquietante e indecifrabile insieme, come i mondi in cui hanno vissuto gli eroi succitati? Siamo forse indegni dei grandi personaggi di una volta? Sono definitivamente scomparsi dal nostro immaginario? Sono stati sterilizzati? Non avranno mai più degli epigoni?… Magari, mi dicevo con scetticismo, di tutte quelle meraviglie oggi non resta più niente.
E all’improvviso, il cartellone. Mi fermo di colpo sul testo stampato a caratteri cubitali: PER ME, ME E ME. Quel che c’è intorno è solo per un riempitivo. La trovata messa in avanti è quel me ipertrofico. Certo, in generale l’immagine ha un ruolo essenziale nella pubblicità, ma in questo caso specifico passa in secondo piano. C’è il busto di una donna confortevolmente bella. Ha uno sguardo da assistente sociale quarantaduenne, con due bambini e un ex. E un sorriso da Gioconda. In un punto qualsiasi è evocata in caratteri troppo piccoli la ragion d’essere della pubblicità: una marca di cosmetici.
Descrivo tutti questi particolari a posteriori, perché da stamane ho rivisto quel cartellone un centinaio di volte. Altrimenti non potrei descrivere un bel niente. Quel ME triclonato è stato la causa di quell’ineffabile esperienza che chiamo, in mancanza di meglio, arresto cerebrale. Era come se una macchina misteriosa mi avesse strappato a un mondo familiare per proiettarmi in un altro mondo del tutto nuovo. E per giunta del vecchio mondo, del mondo che era stato il mio fino all’istante in cui il me autogenerato si è imposto ai miei occhi, non restò alcuna traccia. Che altro dire? Mi sembra impossibile spiegare un’esperienza che nessun altro, suppongo, ha mai vissuto. In ogni caso ciò che accadeva concretamente era questo: in quel nuovo mondo del me, ero in possesso di tutte le mie facoltà, salvo il pensiero.
Non chiedetemi com’è il mondo privo di pensiero. È. Posso a buon diritto testimoniare della sua esistenza. Ma apparentemente, quando si torna al mondo in cui il pensiero funziona ancora, si perde la capacità di immaginare ciò che è il suo contrario assoluto: il mondo del non-pensiero. So però ormai come entrarci, in determinate condizioni, s’intende. Dalla porta della pubblicità. Quanto all’uscita, lasciate da parte ogni speranza.
In realtà, oggi sono incapace di dire quanto tempo sono rimasto in quell’altro mondo. Non riesco neanche a capire cosa abbia provocato il mio ritorno nel mondo che è il mio. La sola cosa che rammento precisamente è la frazione di secondo in cui è avvenuto quel ritorno.
Ricordo che mi passò per la mente la parola “niente”, che, angosciato, ho ripetuto più volte: niente, niente, niente… Ho capito allora in un lampo che ero di ritorno nel mondo “normale”. Come? Semplice: attraverso quel “niente” avevo appena ripreso il filo del mio dialogo interiore interrotto per accidente dal me inflazionato, onnipresente e onnivorace del cartellone pubblicitario. In effetti, quel “niente” rispondeva all’interrogativo che mi ponevo prima del trasferimento nell’universo del me: “resta qualcosa del romanzo, nel mondo attuale?”
Niente? Ecco, niente. Niente? Ma insomma,… niente? Non si dovrebbe fare qualche distinzione? No e poi no! La risposta giusta non conta. È stato grazie a quel “niente” che sono guarito. Niente? Confermo e insisto. Ormai so che il pensiero può sfuggirmi da un momento all’altro. Meglio quindi dire un’assurdità qualsiasi che rischiare di ritrovarsi di nuovo aldilà del sipario. Del resto da stamane, da quando sono uscito di casa e fino al mio rientro, di fronte a ogni cartellone pronuncio la formula magica: niente, niente, niente. E funziona benissimo.
Nota: questo testo è su Sud n°7
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Mi sembra una zuppa particolarmente annacquata.
buon appetito
effeffe