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Amsterdam Suite

di Demetrio Paolin

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Il mare del Nord è grigio come la schiena di un mulo e ugualmente ostinato: le sue onde sembrano calci. Siete, tu e una tua amica, su questa spiaggia ampia e deserta e guardate il mare. C’è una luce diversa. Pensi che il sole cada più obliquo e che è colpa di questo diverso angolo d’incidenza se t’inghiotte un limbo di luce soffusa, caldo tepore da lampadina.
Mentre l’acqua continua la sua fatica, voi parlate delle vostre famiglie. Dovete urlare, però. Il vento è così forte che nasconde il suono della voce e la sabbia va negli occhi. Per resistere al lavoro usurante del vento, cominciate a camminare sulla spiaggia e racconti ad Alice una storia che ti gira in testa.
*

Anne Frank, dici, non è morta.
Non si è fatta cenere come questa sabbia. Non è passata per il camino. Non ha scavato nessuna tomba nell’aria. Non sta larga negli interminati spazi, non è salita comoda negli azzurri cieli purissimi della Polonia. Ora Anne Frank è morta, ma non ad Auschwitz o in qualche altro campo di concentramento.
Hai mai visto, continui, una cartina, in cui sono segnati di tutti i lager tedeschi? E’ incredibile: ogni campo di sterminio è un buco nero e fa impressione vederli. Tutta l’Europa centrale è un immenso buco nero, che ha ingoiato vite e persone e cose e città e quartieri. Ha combuste clavicole, omeri, avambracci, falangi, femori, bacini, costole. Ha disidratato organi interni, consumandoli come il sego delle candele.
La pelle di alcuni, però, è stata risparmiata, perché tornava utile per fare lampade.
Immaginati quei buoni e volonterosi tedeschi che, dopo aver mondato le proprie braccia sporche con il sapone ottenuto con la cenere ossea di alcuni ebrei, zingari, omosessuali e deviati sociali portati all’annullamento e alla morte, se ne andavano in salotto e s’accendevano la lampada per leggersi Goethe o ascoltare Beethoven.
E poi pensavo – tu lo sai Alice che io ci penso sempre a queste cose novissime – a come avrebbero potuto risorgere uomini e donne divenuti nulli, di colpo trasumanati in pezzi di sapone e in deliziose decorazioni per le lampade del soggiorno e dello studio.
Alla fine dei tempi – continui a dire alla tua amica sempre più incredula -, mi chiedo come faranno queste ceneri a diventare nuovamente corpi. Le hanno pressate, confuse, modificate chimicamente, adattate ad altri scopi. Neanche dio saprà farsene qualcosa di questi agglomerati di amidi, proteine e acqua e quindi non li salverà. Persino il paradiso, l’apocalisse finale avrà il suo bel buco nero. Insomma come in terra così in cielo: anche il Regno avrà il suo anus mundi. Qualcuno (molti) mancherà alla conta perché dio salvatore non sapeva come rimetterlo insieme.
Tu prendi fiato, la tua amica sorride: sai che queste cose le interessano poco. Lei pensa che ci sia niente d’assoluto, neanche il bene e il male, ma che esistano solo stadi intermedi.
Sai, però, che è incuriosita da questa fantasia su Anne Frank e tace per spingerti a dire di più. Intanto camminate su dossi di sabbia e terra gallastri, dove spunta un po’ di verde. Sembra una terra di nessuno e è l’Olanda.

Anne Frank non è morta, continui.
E’ vero c’è il suo nome sul registro, ma tu devi sapere che potevano essere scambiati identità e corpi in quel mattatoio. Tanto per i tedeschi non faceva differenza. Un’ebrea o un’altra, per loro tutti sarebbero finiti in fumo. Per questo motivo derogavano e sorridevano, perché sapevano che nessuno sarebbe sfuggito all’usata morte.
Anne Frank è salva quindi, ma non si chiama più così. Ha preso il nome di una sua coetanea di origini polacche e finita la guerra se ne è andata in Israele. Era capitata lì, ma era ovunque. Anne era le spore dei funghi che il vento consegna ad un’ombra d’albero a caso e lì marcisce e fruttifica.
E’ arrivata nella Terra Promessa che era giovane e si è convinta che poteva avere un’altra vita. C’era un veleno in lei che filtrava e le masticava via il sonno. Le veniva in mente che era morta e finita in cenere. Per questo la impressionava quando andava al mare, ad Haifa o Tel Aviv. Camminando per la spiaggia con i pedi scalzi, si diceva: io potevo essere così, di questa consistenza. E prendeva la sabbia in mano, la faceva precipitare tra le dita. Qualche granello le si incastrava tra le unghie, e aveva l’impressione di essere solo un fantasma. Era morta pure lei. Anne Frank era totalmente completamente morta e quel corpo, che ora stava sulla spiaggia e faceva ombra, era solo un fantoccio sterile.
Davanti al mare, quel giorno, Anne decise di non pensarsi più, di non avere più niente a che fare con la ragazzina che aveva scritto il diario e che era sopravvissuta a tutto questo male, di cui però e oscuramente faceva ancora parte.
Chiuse gli occhi e fu buio pesto: un nero buco che inghiottì ogni cosa.
Priva d’ogni luce e ricordo Anne Frank entrò nel mare salato, si sciolse e, dopo alcune bracciate, era una ragazza di 16 anni.
Intanto, tu e la tua amica, continuiate a camminare su queste dune. Il cielo d’azzurro si era fatto grigio chiaro, perché la luce è un’ipotesi lunghissima. Stupefatto da questo cielo, che sembra il mare visto ma capovolto, continui a fantasticare e Alice si stringe nella giacca di pelle nera e ti chiede: Quindi Anne Frank è morta in Israele.

No, fai tu, è morta ad Amsterdam, pochi anni fa.
Da quel giorno del dopoguerra Anne Frank non aveva più ripensato a niente, l’oblio – il desiderio di oblio – è meraviglioso. S’era scavata una nicchia profonda nella sua condizione umana e ci viveva comoda. Il muro costruito era spesso, credeva Anne; così dopo essere stata una donna bellissima, ora era una signora, che possedeva una sembianza felice, senza un passato o un futuro da spartire, ma sospesa in una bolla di grazia incosciente.
Eppure l’agonia, a volte, filtrava come la muffa alle pareti e lasciava una macchia. Lei capiva che era la macchia, niente di più. Era l’inchiostro indelebile sul braccio e, per quanto felice, il suo destino era quello.
Un giorno il veleno si fece balsamo. Guardando dei bambini giocare per strada a calcio, si ricordò le domeniche ad Amsterdam, quando i negozi di tutti gli ebrei chiudevano per andare a vedere la partita. Ricordò e mai in questi anni (ora ne aveva 70) aveva pensato alla sua vecchia città, che somigliava ad un piede messo a bagno nel mare. Le venne voglia di tornarci, di andare a vedere una partita dell’Ajax. Sentiva che la decisione era abissale dentro di lei. Notomizzava il proprio corpo mentre progettava il viaggio, ma niente suonava stonato in lei.
Si disse che era giusto così.
E se lo ripeteva anche mentre dall’aeroporto andava con il treno verso Amsterdam, e se lo diceva perché le sembrava normalissimo il tornare, guardando dal finestrino un paesaggio che scopriva essere sempre stato in lei, scrignato in una memoria che la donna aveva tenuto nascosta per tanti e tanti anni.
Strano, pensava Anne, torno ad Amsterdam per vedere una partita di calcio, e sorrideva.
Scesa dal binario non ebbe altri sentimenti, ma solo flash di magnesio: ecco la stazione centrale, bellissima con una facciata che sembra un castello e la gente che cammina avanti e indietro con furia e tenerezza. Anne guarda tutto e respira l’odore che fa: è l’acqua, che gira intorno, s’infiltra e si allunga per la città intera e per i canali dove le case sono strette e alte come le canne di uno stagno. Quando le guardi, pare che seguano il dondolio della corrente.
Inconsapevole scivola verso il Dam e cammina guardando i negozi e la gente; capisce come ad essere cambiata sia l’epidermide delle cose, ma non il suo nocciolo segreto. Anne cammina saltellando, quasi che la bambina di allora reclamasse il suo diritto ad esserci. Arriva al Dam e qui gira alla sua destra e continua. E’ passata un’ora e lei attraversa i ponti e vede l’acqua. Finalmente riconosce la sua città, prosegue in Prinsengracht e cammina fino al 267.
Si ferma.
Casa. Sapeva, Anne, che le avevano dedicato un museo e che le pagine del suo diario erano diventate un monito alla memoria. Le sue parole suonavano tremende, perché lei era morta per il mondo.
Cosa sarebbero stati quei quaderni se Anne fosse tornata con il suo nome e cognome? Se ad un tratto fosse comparsa a qualche commemorazione? O peggio se lì tra quei tre o quattro fradici colori della città e della sua casa lei si fosse presentata, dicendo: Io sono Anne Frank e sono viva?
E’ un pensiero, che scaccia come molesto nel momento in cui entra.
Camminando per quelle stanze Anne si deve appoggiare al muro, più volte distoglie lo sguardo da una zona, che a tutti pare inutile, ma che lei sente risuonare dentro. Anne si è fatta cava, emette onde sonore. Ha l’impressione di essere come quei calchi visti a Pompei. Uomini, donne, animali: tutto bloccato in un’ambra di cenere. Smorfie di dolore, piccolezze d’ognuno ferme per sempre. Allora camminando per le rovine aveva provato un senso di disagio, che ora le è chiaro.
Lei era quei corpi, era in quei corpi. Queste stanze è il suo corpo cavo. Le sue membra di terracotta sono guardate da tutti con un moto di commozione. Vede la gente toccare le minuzie della sua vita passata e non resiste più. Così come non aveva resistito quando la gente s’era messa a fotografare le impronte degli uomini a Pompei.
La nota che sente e produce è troppo profonda e decide di andarsene. Uscendo, Anne prova un senso di vertigine, quasi che dall’alto dei cieli fosse stata conficcata nella profonda e nuda terra.
Ora Alice si è fermata, guardandoti. Avete scollinato. Sotto si vede una striscia d’asfalto, è parcheggiata la macchina che vi riporterà ad Amsterdam, ma di questo non ti importa più.
Tu hai il respiro rotto per quello che stai raccontando, è faticoso. E non immaginavi neppure di avere in te tutto questo.

Anne – riprendi – è fuori da quella che fu casa sua. Stabilizza il respiro e il battito cardiaco. Guarda l’ora, deve andare allo stadio, ha i biglietti, ma è stanca. Invece di prendere un bus, chiama un taxi. Dice all’autista la destinazione, trattenendosi dal parlare olandese, e l’uomo sorride dicendole: sarà una grande e bella partita, soprattutto se vinciamo.
L’incontro è di quelli memorabili: Ajax contro Feyenord.
Quando arriva all’Amsterdam Arena, Anne è colpita dalla grandezza dello stadio e dal numero di gente. Respira: quel momento tremendo d’angoscia carnale, provato al museo, è passato. La crisi, che si chiama vita, si è conclusa e lei è nuovamente in sé.
Si siede ed è pronta a gustarsi lo spettacolo, ed ecco entrare l’Ajax con i suoi giocatori.
Succede l’imprevisto. I tifosi del Feyenord vendono comparire le magliette bianche e rosse dei giocatori di casa e incominciano a sibilare, emettono un suono. Sordo e strano.
Anne, inizialmente, non se ne cura, ma questo sibilo continuo entra nelle sue orecchie e scava nel suo cervello toccando un nervo, un ricordo rimosso. E’ il suono, il sibilo sinistro del gas. E’ lo Ziklon B che esce dalle docce e uccide i vecchi, le donne e i bambini.
Esce ora dalle bocche dei tifosi avversari e suona nella testa di Anne, che si sente soffocare.
Lei è nella doccia. Lei è eternamente in quella doccia. Lo è sempre stata, lo è adesso. Lo sarà per sempre. Non esiste niente, solo lo Ziklon B e il suo riempire le stanze a tenuta stagna delle docce del lager. Anne esce di corsa dallo stadio, fugge da quel soffio, che pare correrle dietro e non lasciarle requie. Fuori in mezzo alle vie e all’acqua, sente solo un grigio addossarsi al suo corpo, un grigio scoramento di fumo.

L’odore alle sue narici è insopportabile, lo Ziklon B ha fatto il suo dovere: Anne sa cosa succederà adesso, l’ha sempre saputo. Si va verso il fuoco e il camino. Poi cenere. C’è un odore insopportabile, lei ne è pregna. Deve toglierselo di dosso. Anne vede il canale dove scorre l’acqua, la vede nera e potente scorrere. Tutto si è fatto pensante e limaccioso, Amsterdam è la palude Stigia.
Anne pensa a quando era bimba e le piaceva camminare per i campi. Sente l’acqua prima lungo le caviglie, poi salire verso le ginocchia, infine lambirle i fianchi…
Anne sprofonda nell’acqua. Scende e i sibili soffocano. Tutto si fa cinereo.
A quel grigio fatto di nulla, mentre s’abissa, Anne intona la preghiera: Sia il Suo nome grande e benedetto per tutta l’eternità. Sia lodato, glorificato, innalzato, elevato, magnificato, celebrato, encomiato, il nome del Santo Benedetto. Egli sia, al di sopra di ogni benedizione, canto, celebrazione, e consolazione che noi pronunciamo in questo mondo…

Poi la voce si spegne nell’acqua e Anne, chiusi gli occhi, è buio pesto, un nero buco d’ogni cosa.

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20 Commenti

  1. Un testo forte e la foto è come sempre quando la guardo bella, tragica. Non posso distogliere gli occhi da questo dolce sorriso.
    Lo sguardo intelligente, notturno, malizioso e luminoso di sapienza.
    Un viso di fanciulla, con un incanto, come velato di una conoscenza segreta. Quando avevo nove anni, ho letto le journal d’Anne Frank e non l’ho dimenticato. Lo consiglio ai miei alunni.
    Ho letto un libro che raccoglie la foto di bambini deportati. Quando tu li vedi, tu hai le lacrime nel cuore.
    Bisogna restare vigile. L’altra settimana a Parigi, polizzioti hanno fatto irruzione vicino a una scuola materna per arrestare un nonno “sans papiers!

  2. La statua di Anna Frank è dietro una chiesa. Una bella chiesa. All’interno, da qualche parte, in un loculo anonimo (la povertà vuol dire qualcosa, anche quando sei morto) le ossa di Rembrandt. Davanti alla chiesa c’è un canale. Tra il piazzale e il canale, tre triangoli di granito rosa: per le vittime omosessuali dell’Olocausto. Tre: per le vittime di ieri, di oggi e di domani.

  3. Ricordo la casa di Anna Frank, che dà su uno dei tanti canali che si inanellano dentro la bella città di Amsterdam.
    Vorrei ricordare un altro bel libro, meno conosciuto ma altrettanto intenso, che ci ricorda le atrocità del nazismo: “Dal liceo ad Auschwitz – Lettere di Louise Jacobson”. Uscì con il quotidiano L’Unità nel 1996.

  4. Bella scrittura, leggera e profonda. Complimenti a Demetrio, che forse è riuscito a cambiare la mia giornata…

  5. Questo racconto è bellissimo – è scritto con il corpo. Certi luoghi di spazio e tempo, sono persone. Anna Frank è un pezzo d’Europa – la respiriamo ancora nell’aria.

  6. @ Lucio,

    lo sai che una ditta produttrice di insetticidi comperò uno spazio pubblicitario all’interno di “Olocausto” immediatamete successivo alla scena in ciu i deportati appena giunti chiedono cosa sono quelle costruzioni rettangolari, e l’SS li rassicura: “Docce per la disinfestazione”?

  7. @ Alcor

    quello che tu poni è un problema, che scrivendo queste poche pagine ho pesato e pensato.
    Ti posso dire ho citato indirettamente nell’uso dell’aggettivo tedesco, il verso di Celan “la morte è un maestro tedesco”.

    Dietro il tuo appunto c’è anche una riflessione, troppo complessa per farla qui così, e che in un certo senso esorbita dall’occasione del racconto in sé sul tema della “colpa” del popolo tedesco rispetto a quello che fu la Shoah nazista.
    Io credo che i termini della questione siano limpidamente posti da Amery nel suo “Un intellettuale ad Auschwitz” (Bollati e Boringhieri) e da Levi ne “I sommersi e i salvati” (Einaudi).

    Io non credo, ad esempio, in una colpa “collettiva” del popolo tedesco, ma in una colpa “complessiva”. E cerco di spiegarti.
    La colpa “collettiva” mi sa di metafisica.
    La colpa “complessiva” è un concetto più *misurabile*, ovvero ci furono al tempo molti tedeschi, la maggior parte diciamo, che ho furono sinceramente nazisti o quanto meno vissero in una *zona grigia* in cui non potevano non sapere e non fecero niente.

    ciao
    d.

  8. non dite che è bello, il testo
    E’ fargli torto.
    E’ scuro e freddo come acqua di canale.
    Ha sapore di quel vento sabbioso che resta tra i denti.
    E’ una lunga sconfitta, una conferma che non c’è speranza, che non ci sono Salvati ma Sommersi solamente.
    Ci leggo (m è un lascito inevitabile, un nodo) gli attimi terribili e ultimi di Primo Levi

  9. @paolin

    Ti credo, ed è vero che la zona grigia fu vastissima, come sempre le zone grigie, anche oggi. Resta il fatto che dicendo tedeschi si pensa a TUTTO un popolo, dal quale, curiosamente escludiamo gli austriaci, e anche questo mi colpisce.
    No, più ci penso più avresti dovuto scrivere nazisti, per non buttare la croce addosso a un popolo, salvando al tempo stesso i nazisti di un altro.

  10. se posso intrufolarmi un attimo nel discorso che fa alcor, dico che la sua obiezione è parzialmente giusta. In realtà si sono avuti tanti nazismi, in primis il nazismo tedesco, poi come alcor fa notare, quello austriaco, quello polacco, quello ungherese, e poi giù giù giù fino al nazismo degli stessi perseguitati, se uno va a ben vedere, anche se di natura derivata per assimilazione e assorbimento. Non uccidetemi, o uccidetemi pure, ma nazisti lo sono stati tutti. E dunque, per un ulteriore azzardo, quel termine secondo me avrebbe avuto scarsa pertinenza, o forse ci avrebbe condotto altrove. Se nel racconto di Demetrio si dice ‘tedesco’ io ci leggo un’altra sfumatura, e qualcosa che mi ricorda quello che un po’ ossessionò Thomas Mann nel suo ‘discorso alla nazione tedesca’ se ben ricordo, ovverosia che quando si dice ‘tedesco’ si allude anche a una controparte oscura, demoniaca, con la quale quella nazione non ha fatto mai davvero i conti, una velleità mai profondamente sopita alla quale ha asservito le forme di vita del mondo moderno, vivendo perciò il proprio orrore in una sorta di meccanicistica traquillità da biedermeyer, onesto cittadino borghese. Il tedesco che usa la pelle degli ebrei (orrore) per far che? accendersi una lampada e leggersi Goethe (tranquilltà borghese) o sentirsi Beethoven (grammofono, che bella la modernità, io comuque ci avrei visto più Wagner, se devo fare un appunto, che se lo sentiva hitler faceva ‘figo’). Avrei voluto dire altro, ma al momento mi premeva più questo.

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