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La voce del cuore

di Rossano Lo Mele

L’estate del 2003. Oggi si suona alla Festa de «l’Unità». Tutti hanno suonato alla Festa de «l’Unità». Se sei un gruppo ska, diciamo che suoni sempre lì. Se sei Battiato forse suoni anche altrove (va difatti precisato che nel recente brano I’m That, ripreso da un anonimo del ‘700, Battiato canta: “Non sono mussulmano né induista / né cristiano né buddista / non sono per il martello / né per la falce / né tanto meno per la fiamma tricolore / perché sono un musicista”; per amore di precisione va altresì aggiunto che la canzone è inclusa nel disco Dieci stratagemmi, uscito sul finire del 2004: che porta impresso la scritta “promo ticket”, fenomeno che si pensava ormai abrogato da un decennio: ossia, nella fattispecie, l’acquirente paga di tasca sua il costo aggiuntivo che la casa discografica ha speso per reclamizzare il disco in radio e tv). Se sei in mezzo, così così, suoni il 50 per cento dei tuoi concerti alla Festa de «l’Unità». Novi Ligure è uno di quei paesi che, per recare un torto al nome, non sta in Liguria, ma nel basso Piemonte, provincia di Alessandria. Anche se, a dispetto della sistemazione geografica, qui l’osmosi con la Liguria è totale: quello l’accento e, come si vedrà, quella anche l’aderenza ai luoghi comuni dell’aneddotica italiana. Il tempo non dice nulla di buono. Trailer di tempesta annunciano in alto quel che potrebbe scatenarsi da lì a pochi minuti. Ma il cielo tiene il broncio senza lacrimare, quando valichiamo il cartello di Novi Ligure.
Ha scritto Carlo Lucarelli: “A Cogne potrà anche nascere il futuro premio Nobel per la medicina, ma anche per la sua biografia i giornali scriveranno che è nato nel paese del delitto di Cogne”. Per ovvie ragioni si potrebbe traslare lo stesso discorso a Novi Ligure. Se non fosse che, dovesse mai latitare la memoria, ci pensano i compagni della Festa de «l’Unità» locale. Che infatti hanno spalmato un po’ ovunque in città poster di Omar. E la sua orchestra. Che si esibiranno da lì a qualche giorno. Curioso caso d’omonimia di cui con ogni probabilità la cittadinanza non avvertiva il bisogno. Quando entriamo nell’area della Festa i volti sono lunghi. Compresi quelli dei Giardini Di Mirò, il gruppo con cui dobbiamo condividere il palco. Loro se ne stanno raggomitolati nel furgone, per il troppo freddo. Quel che si temeva, attorno alle 18, prende forma: al gelo si aggiunge la pioggia. Freneticamente tutti i responsabili dell’area ci fanno capire che non se ne farà nulla, del concerto. Però, nell’arco di un’ora, non solo la pioggia smette, ma le nuvole si allontanano e torna il bel tempo. A quel punto sono le sette e qualcosa di sera. Decidere di non tenere il concerto, in quelle condizioni temporali, sarebbe una barzelletta. Per cui s’insiste per farlo. Ma è qui che si palesa la leggendaria figura del compagno Giacinto.

Trattasi dell’organizzatore della serata. Colui che alla fine deve far tornare i conti. Non ha il coraggio di dirlo chiaramente, ma secondo lui la serata non va fatta. La ragione è abbastanza semplice da capire: se la serata si fa e causa maltempo o altro va male, lui sarà comunque costretto a pagare il dovuto ai due gruppi. Se non si fa, ci si mette d’accordo e alla peggio lui e la Festa allungano il 50 per cento del cachet a ciascuno dei due gruppi. Chiaramente si guarda bene dal dirlo. E chiaramente si rende conto che, purtroppo, causa sole cocente e cielo lindo, il concerto sarebbe meglio farlo, perché a quel punto nessuna giustificazione sarebbe plausibile per l’annullamento. A quel punto la storia prende una piega da finale di Coppa Italia: il compagno Giacinto convoca due capitani, uno per gruppo, per una riunione definitiva sul da farsi. Alla fine si decide di giocare e si fa di tutto per sistemare il campo: si asciuga il palco, si montano le luci, si scoprono le casse e si scaricano amplificatori e strumenti. Il compagno Giacinto decide di sua iniziativa che è il caso di togliere il biglietto d’ingresso: originariamente previsto (5 euro), avrebbe a suo dire senz’altro scoraggiato gli avventori. Mentre i Giardini Di Mirò allestiscono il palco per le loro prove, noi crocettiamo il menù della Festa. E, un’ora dopo, post-braciola, viceversa.
In condizioni del genere è pressoché impossibile descrivere con quale stato d’animo si arrivi al momento dell’esibizione: il nostro soundcheck (che avviene proprio a ridosso del concerto, essendo i primi a suonare) termina con l’area concerti già abitata dal pubblico. Quindi non è più possibile separare tra le prove e il concerto stesso: noi siamo lì che suoniamo, il pubblico è lì che ci guarda. Entrambi sappiamo che è solo una prova, ma in realtà, di nuovo, è come se tutto fosse già cominciato. Questo genere di problemi tecnici (le prove che si protraggono oltre il momento d’apertura di un locale o Festival) sono cose che capitano soprattutto nei primi anni d’esistenza di un gruppo, per via dell’inesperienza. Quando ti esibisci in qualche pub ruspante edificato su qualche statale e i tuoi amici arrivano lì prestissimo e ti stanano ancora lì a trafficare sul palco. Allora in quei momenti provi un po’ di tristezza per te stesso e per loro (che avrebbero diritto a degli amici rockstar e che invece sono ancora lì a trafficare) e ti pare che la serata sia stata buttata via insieme a un pezzo di giovinezza ormai in maniera definitiva a causa della scarsa organizzazione e tempistica sbarellata e che il trucco dello spettacolo è già stato tutto smascherato. A un certo punto questo genere di cose non succedono più. Ma non stasera. Finiamo le prove, scendiamo dal palco, qualcuno urina nel campo di calcio e senza potersi lavare stringe le mani degli altri del gruppo per farsi coraggio. Pensa ai suoi genitori, che se fossero lì sotto proverebbero appena un po’ di pena. Pensa agli amici che reagirebbero allo stesso modo. Pensa che però siamo abbastanza distanti da casa perché nessuna delle due possibilità si manifesti e risale sul palco. Da quando si è scesi a quando si risale passano circa 96 secondi. Ci si presenta su e fa un po’ ridere: ma come, eravamo qui già 96 secondi fa, siete voi, noi del pubblico vi riconosciamo, siete pure vestiti uguale!? Ci si presenta. E si va a cominciare. La pista tipo da pattinaggio di fronte al palco è sufficientemente abitata, anche se la temperatura ha senz’altro scoraggiato molti. Nonostante si sia cominciato il tutto in ritardo, si riesce a finire quasi in orario.

L’addetto al recupero crediti, nel frattempo, va a colloquio col compagno Giacinto. Parte in assoluta tranquillità e torna mezz’ora dopo infuriato (argomento scatenante: naturalmente non intendono darci quanto pattuito). Allora si affronta l’argomento con i Giardini Di Mirò e si torna in atmosfera Coppa Italia: due capitani, ma questa volta con contorno di squadra intera, si muovono verso – lasciate che si usi quest’espressione, ognuno ne ha diritto una volta nella vita – la giostra dei calci di rigore. Doveva succedere. Quando si suona dal vivo, prima o poi deve succedere. E ora si capisce perché i gruppi in tour tendono spesso a parlare di soldi. La scena è a suo modo unica. Tutti riuniti in uno stanzino. Il compagno Giacinto seduto e con gli occhi piantati verso il muro, non si alza, né lui né lo sguardo. Dice che col nostro emissario lui non ci parla, perché è un maleducato. La domanda da porsi in questi casi è: come avrebbe reagito chiunque altro? Ipotesi: a) sarebbe andato lì e con la forza di calci e sputi si sarebbe preso quanto doveva e in caso negativo, cioè b) avrebbe sventolato un contratto; c) si sarebbe fatto impanare dentro discorsi sul rapporto entrate uscite del partito, della festa, dei compagni, della tradizione leninista, dei soviet, dei kolkoz, della duma, dell’arcipelago gulag, delle deportazioni dei kulaki, della parentesi messicana di Trotskij, di Gramsci, degli Scritti Politti. Per andare lì a ritirare quanto stabilito, con o senza calci e sputi, bisogna avere: a) un manager superbastardo; b) un contratto scritto, firmato e perciò inattaccabile. La prima cosa che scopriamo è che la nostra barca fa acqua. Nonostante i Perturbazione siano un gruppo puntiglioso, che programma concerti con tanto di agenzia che fa da intermediario, non c’è nulla di scritto. Stesso dicasi per i Giardini Di Mirò. Allora la cosa come si mette? Si mette che il compagno Giacinto – smilzo, camiciotto collegiale a quadri e baffo d’oro – senza tema di smentite ci dice: io non ho proprio nulla di firmato, per cui vi do quanto mi pare. Ora: è bene ricordare che questa frase la pronuncia il compagno Giacinto. Non un Previti qualunque. Non un ricettatore. Non un allibratore. Ma proprio il compagno Giacinto: gli si ricorda allora che lui e i suoi amici che scendono in piazza per dimostrare contro Previti, del cui comportamento sono senz’altro sdegnati e che magari li tiene impegnati nelle lunghe riunioni serali o durante la cena, si sta comportando in una maniera riprovevole. Ma il compagno Giacinto non abbocca. Lui ne ha viste di tutti i colori, anzi è di tutti i colori: blu la camicia e viola insolazione il viso. Non parla neanche, sguardo al muro. Tace. E dice solo: veniamoci incontro. Per lui venirci incontro sarebbe accettare metà cachet e poi tutti a dormire. Allora gli si dice: ma te metà cachet avresti dovuto darcelo comunque per contratto anche se non avessimo suonato. E lui: contratto? Quale contratto? Io qui non ho nulla di firmato. E quindi siamo da capo, un nodo meccanico impossibile da districare dentro una stanzetta gonfia di malumori, di gente lì lì per alzare le mani (ma poi ci ricordiamo che siamo inoffensivi e che verremmo pestati a sangue, finendo sui quotidiani il giorno successivo, gruppo rock massacrato di botte, per il dolore dei nostri cari e la disapprovazione dei nostri padri che ribadirebbero te l’avevo detto io di cercarti un lavoro e di smetterla di andare in giro a suonare). La situazione si fa sempre più ingarbugliata. Il compagno Giacinto punta al 50 per cento. Noi, a differenza sua, abbiamo un viaggio di circa due ore che ci attende. Lui lo sa. Adotta la tattica dello sfinimento, continua a guardare il muro e non parlare. Omertoso. Recidivo. I rigori sono finiti da un pezzo. Lo stadio si sta svuotando. Grandissimo nella sua parte. Chiunque di noi potrebbe schiaffeggiarlo da un momento all’altro, ma poi vedi sopra. Lui lo sa. Ci prende per sfinimento. Così noi e i Giardini Di Mirò intaschiamo poco più del 50 per cento di quanto pattuito. Si poteva giungere a quella conclusione senza tanto casino. Ma poi cosa avremmo avuto da raccontare? Ma poi in cosa si sarebbero identificati le migliaia di gruppi – dai, dite la verità, quante volte è successo pure a voi? – già protagoniste di vicende del genere. Perché il momento della busta paga – perlopiù trattasi di banconote in contanti di cui è difficile accertare l’autenticità sul momento – è sempre il più imbarazzante. Non sembra mica che ti debbano pagare davvero per aver suonato. Un lusso, come altro chiamarlo? Noi mugugniamo e il compagno Giacinto pure. Certo è che con Novi Ligure abbiamo chiuso. Omar no, viceversa. In basso a destra, in rosso, sul suo poster, c’è scritto “La voce del cuore”.

Usciamo dalla Festa mesta, ma nell’operosa Novi a tarda ora è tutto muto. Quindi neanche una stecca di cioccolato al latte. Ci accontentiamo di un ritter sport alla nocciola e ci rimettiamo in viaggio. Qualcuno canticchia E ti vengo a cercare. Di Battiato. Riferendosi a Battiato. Magari ha qualche contatto interessante per il futuro.

_________

[da “il maleppeggio”]

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2 Commenti

  1. Proprio così, Lo mele ha descritto perfettamente la tapezzeria ipocrita che ricopre le pareti delle nostre cittadine di provicincia, sedicenti custodi di valori e tradizioni di un territorio che nemmeno è più un ricordo lontano, solo un feticcio abortito. Lo psicodramma ci avvolge come una nube ogni giorno dell’anno, qui, nel triangolo industriale, nella zona d’Italia più densamente popolata di uomini e veleni.
    Chissà, forse un buon posto per annegarsi, per dimenticare. Sicuramente l’ideale per servire.

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