Un post lunghissimo dal quale, eccezionalmente, non si ricava nulla.

bellini41.jpgdi Sergio Garufi

In tivù si parla dell’emergenza rifiuti in Campania. L’iconografia è quella solita, aprospettica e paratattica, in cui l’inviata sul posto sta al centro di una teoria di gente infuriata che espone cartelli rivolti contro il Presidente della Regione (“Bassolino vergogna!”), ed altri che invocano l’Uomo della Provvidenza (“Silvio pensaci tu!”). La lotta per accaparrarsi il microfono restituisce brandelli di frasi misti a insulti. D’un tratto una signora esasperata urla “Neanche nel Medioevo!”, indicando la montagna di spazzatura a fianco. Ha ragione. Il Medioevo ci ha lasciato esempi migliori. L’affresco di Ambrogio Lorenzetti al Palazzo Pubblico di Siena, quello sugli effetti del Buon Governo, rappresenta un concetto moderno e civilissimo che oggi pare inconcepibile: l’invisibilità del Governo, la visibilità dei suoi effetti. La politica virtuosa non ha bisogno di uomini carismatici, di salvatori della patria, l’anonimato è anzi garanzia di efficienza, perché un bravo funzionario statale rifugge la ribalta. Se viene praticata lo si capisce dai risultati: prosperano i commerci, c’è la pace sociale, le campagne sono coltivate, la giustizia è amministrata con equità e rigore, le strade sono sicure e pulite…

Quando Borges decise di trasferirsi a vivere – anzi, a morire, data l’età – a Ginevra, in Argentina furono in molti a protestare. Lo scrittore era un patrimonio nazionale, così facendo danneggiava l’immagine del suo paese. Lui replicò che aveva bisogno di tranquillità e solitudine, e Buenos Aires in questo senso non era il luogo più adatto. Il carattere espansivo del latino-americano, unito alla sua enorme fama, facevano sì che dovunque si spostasse veniva riconosciuto e fermato. In Svizzera non sarebbe successo, sono più discreti e rispettosi della privacy. Borges affermava che la civiltà di quel paese si misura dal fatto che all’estero nessuno conosce il nome del suo Presidente.

Alla mostra fotografica di ritratti di scrittori di Gisele Freund, allestita in questi giorni alla Galleria Sozzani, ci sono tutti. Joyce, Benjamin, Michaux, Malraux, Virginia Woolf, Tristan Tzara, Gide, Ionesco (no, Ionesco no, solo nel catalogo), Susan Sontag, Sartre & Simone de Beauvoir, Alfonso Reyes, Fuentes, Cortázar, Borges. Reyes è buffo, con la faccia tonda e un riporto coast-to-coast. Cortázar ha degli occhi impressionanti. Peggio di Picasso o Robert Capa . Borges ha il physique du rôle del vate, con lo sguardo spento e la mano che stringe il bastone. Poi mi hanno colpito le mani biscottate di Benjamin che consulta dei volumi alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Nella biografia di Tilla Rudel (L’angelo assassinato, excelsior 1881) c’è la stessa foto della Freund più molte altre, sue e di suoi amici. Stefanie mi fa notare la differenza con Adorno. “La fisionomia conta, altro che. Guarda Adorno, ha lo sguardo furbo di chi sa far fruttare il proprio talento. E poi osserva Benjamin. E’ un genio imbranato, del tutto inadatto alla vita.” Dev’essere così. Manganelli affermava spesso che incominciò a scrivere perché non sapeva allacciarsi le scarpe.

Sulla copertina dell’ultimo numero di Pulp c’è un bel primo piano di Bianciardi. Si dice sempre quant’è bella la faccia di Beckett, così particolare, severa, ma io preferisco mille volte quella del grossetano, gonfia e triste, con gli occhi liquidi e sporgenti. E’ una faccia che non sta mai in posa. E’ una faccia senza tralalà.

Non sapevo cosa fosse il tralalà. Poi il 2 gennaio su Repubblica è apparso un saggio inedito di Milan Kundera, che parlava di un brano di Céline, tratto dal libro Da un castello all’altro (Einaudi, pag.131-133). E’ l’episodio della morte di Bessy, la cagna di Céline. Céline amava gli animali. Il gatto Bebert, il pappagallo Toto, i vari cani. A loro dedica la sua ultima opera, Rigodon. In Céline a Meudon, images intimes 1951-1961, di David Alliot (Ramsay), è ritratto spesso in loro compagnia, sembra un clochard con fissa dimora. L’adorata cagna Bessy era stata trovata in Danimarca. A Meudon si ammala di cancro, sta per morire:

«Non volevo farle una puntura… nemmeno darle un po’ di morfina … avrebbe avuto paura della siringa… non le avevo mai fatto paura… è rimasta in fin di vita almeno quindici giorni… oh non si lamentava, ma io vedevo… non aveva più forze… dormiva accanto al mio letto… a un certo punto, un mattino, ha voluto uscire di casa …volevo stenderla sulla paglia… non ha voluto … voleva stare da un’ altra parte … nel posto più freddo della casa, sui sassi… si è allungata dolcemente … ha cominciato a rantolare … era la fine … me l’avevano detto, io non ci credevo … ma era vero, si era distesa in direzione del ricordo, da dove era venuta, dal nord, dalla Danimarca, il muso a nord, rivolto a nord … una cagna estremamente fedele, fedele ai boschi dove fuggiva, Korsor, lassù … fedele anche alla vita atroce … i boschi di Meudon per lei non significavano niente … è morta dopo due, tre rantoli… oh, molto discretamente … senza nessun lamento … con una postura davvero molto bella, slanciata, in fuga; … ma su un fianco, stremata, finita … il naso verso le sue foreste in fuga, lassù da dove veniva, dove aveva sofferto … Dio sa quanto! Oh, ne ho viste di agonie … qui, là … dappertutto … ma mai nessuna così bella, discreta … fedele … quello che danneggia l’agonia degli uomini è il tralalà… l’uomo, malgrado tutto, è sempre su un palcoscenico … il più semplice».

Questo brano famoso lo conoscevo bene già prima di rileggerlo grazie a Kundera. Mi era piaciuto molto, ma non ero rimasto così impressionato come dopo questa lettura, e il merito è sia di Kundera che di Massimo Rizzante, il traduttore. Nel libro Einaudi con la traduzione di Giuseppe Guglielmi, al posto di “tralalà” si dice “mostra”. “Ciò che nuoce all’agonia degli uomini è la mostra!” Non rende altrettanto bene. Le pseudoparole come tralalà invece, quei neologismi che non significano nulla, che per veicolare un concetto si affidano unicamente all’onomatopea, hanno un’efficacia semantica molto maggiore, meno limitata. E in più tralalà rispetta fedelmente l’originale.

Ma è proprio così? L’uomo, anche il più semplice, si sente sempre su un palcoscenico? E la posa e l’affettazione hanno bisogno necessariamente dell’altro per manifestarsi o si può recitare anche per un pubblico inesistente? La fortuna dei programmi di candid camera nasce dalla curiosità di vedere come si comportano le persone quando non sanno di essere guardate, il problema è che molti pensano e vogliono essere continuamente osservati, la c.d. vetrinizzazione sociale. Perfino il timido convinto che tutto cospiri contro di lui, che il mondo intero rida al suo minimo inciampo, è in questo senso parente stretto del narciso: sono entrambi vittime di un soggettività esasperata, gli estremi di una coscienza infatuata di se stessa.

Stando a DeLillo non solo le persone cambiano al contatto con lo sguardo altrui. Nel primo capitolo de L’uomo che cade, appena edito da Einaudi, si narra l’attacco alle Torri Gemelle:

“Fece in tempo a udire il rumore del secondo crollo. Attraversò Canal street e cominciò a vedere le cose, per qualche motivo, in modo diverso. Non parevano pregnanti come al solito, le strade lastricate, i fabbricati in ghisa. C’era una qualche mancanza cruciale nelle cose intorno a lui. Erano incompiute, per così dire. Erano inosservate, per così dire. Forse era quello l’aspetto che avevano le cose quando non c’era nessuno che le vedesse.”

Lo sguardo delle persone altera le cose, corrompe i paesaggi, come in quel formidabile apologo di Rumore bianco (Einaudi), “il fienile più fotografato d’America”, in cui i turisti fanno “fotografie del fare fotografie”, finendo in pratica per cartolinizzare la realtà. Il turista è un agente di kitschizzazione del mondo, su ciò che guarda si stende un implacabile velo di falsità. Il problema è che il turista è sempre l’altro, come in quelle vacanze all’estero in cui ci si lamenta che “c’erano troppi italiani”.

Theodore Sturgeon era un autore di libri di fantascienza. Durante un’intervista la giornalista gli chiese perché uno scrittore così talentoso come lui scriveva libri di fantascienza, un genere letterario di serie B, che per il 90% è merda. Lui rispose: “Il 90% di qualsiasi cosa è merda”. Quando riferisco questo aneddoto mi accorgo che piace, mi sorridono complici. Siamo tutti d’accordo sul fatto che il 90% di qualsiasi cosa è merda, e tutti siamo certi di appartenere al restante 10%. Lo snobismo di massa.

“Il turismo della realtà”. E’ questo che bisogna evitare, secondo Christian Raimo. Nella sua prefazione a Il corpo e il sangue d’Italia, una raccolta di reportage da poco edita da minimum fax, quello è il difetto principale e il limite più evidente di molte inchieste giornalistiche. Il turismo della realtà è superficiale, enfatico, sensazionalistico. Riduce ogni fenomeno a folklore, degrada la testimonianza sociale a souvenir antropologico, l’importante è mantenere il distacco. “Si cerca il capro espiatorio della settimana: può essere il presunto affiliato ad Al Qaeda, il pitbull, il lavavetri, il pirata della strada ubriaco, il pedofilo, in una teoria infinita di uomini neri che dovrebbero rappresentare il lato oscuro che spieghi il male della società.”

La soluzione la fornisce Antonio Pascale nel saggio intitolato “Il responsabile dello stile”. Prende a pretesto un racconto di Moresco, “I maiali”, incluso nella raccolta Patrie impure. Qui il mantovano si cala nei panni di un ucronico Alfredino Rampi che rifiuta la mano dei soccorritori per denunciare il voyeurismo morboso dei tanti guardoni che si assiepano all’imboccatura del pozzo. Ma “per contestare i maiali guardoni, è più scandaloso assumere il punto di vista (eroico) di un puro ragazzino di 5 anni (allontanandosi così dal maiale che è in noi), oppure quello di un vecchio maiale che sta nei pressi del buco a guardare?”

Su Tuttolibri del 12/1 ci si lamenta che, a parte La casta, l’ultima volta che un titolo di saggistica scalò le classifiche fu con La rabbia e l’orgoglio della Fallaci, ossia nel 2002. C’è niente da fare, Gomorra passerà alla storia dei generi come opera di finzione, o perlomeno come un testo in cui gli elementi di invenzione prevalgono sui documenti. Genna sarà contento, lui che si era “speso tanto con Mondadori” affinché quel libro venisse esposto nel reparto “narrativa”. All’epoca tutto quello sbattimento mi colpì, soprattutto perché proveniva da chi si era sempre dichiarato a favore del meticciato dei generi, delle scritture ibride. Stefano Bartezzaghi, commentando la presenza di Saviano a Che tempo che fa, nota le curiose preoccupazioni del presentatore e dello scrittore, “che sembravano ansiosi di evitare anche il minimo sospetto che possa trattarsi di un saggio: tanto ansiosi da arrivare alle soglie del vietissimo «si legge come un romanzo»”. Poi succede che su Repubblica esce un pezzo intitolato “Ritorno a Gomorra”, in cui Roberto racconta di un suo viaggio a Casal di Principe. Qui l’ostilità dei suoi detrattori si sposa con le tesi dei suoi primi estimatori. Alcuni ragazzini che lo circondano, difatti, gli si rivolgono con dei complimenti: “bello il romanzo che hai scritto, proprio nu’ bellu romanzo”; intendendo sottolineare del libro l’aspetto della finzione, della storia inventata, che vanificherebbe il suo valore di denuncia.

“Il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure”. Così scrisse ai primi del ‘600 il marchese Vincenzo Giustiniani, suo collezionista, al cardinale Borromeo. Ecco, se fossi un autore di genere, un Biondillo o uno Sturgeon, probabilmente mi appellerei all’autorità del Merisi piuttosto che rifugiarmi nel 10%.

E’ un po’ che non leggo narrativa, sarà un sintomo di vecchiaia. Libri di foto, taccuini, diari, memoriali, epistolari, autobiografie, qualsiasi cosa ma non la finzione. Mi suona falsa, come ai guappi di Casal di Principe. Ricerca frustrata, naturalmente. Lo scarto fra l’intenzione di ricostruire fedelmente una vita e la vocazione apologetica del sé è irriducibile. Si può mettere alla berlina l’io del passato, molto più difficile e coraggioso è prendersela con l’io attuale. E’ che ci si sforza di dare un senso, una coerenza logica retrospettiva a un ammasso di eventi slegati e accidentali. Anche questa è a suo modo una manifestazione del “tralalà”, un imbellettamento cosmetico della vita. Il rifiuto del tralalà mi ha spinto fino a Vincenzo Rabito, il bracciante semianalfabeta siciliano autore di Terra matta (Einaudi), la sua sgrammaticata e picaresca autobiografia. Qui l’autore sta sporgendo querela. E difatti lo stile, sin dall’incipit, è quello di una denuncia ai carabinieri, in cui “il sotto scritto” bestemmia e impreca dichiarando le sue generalità, la residenza e lo stato civile, per poi additare il vero colpevole di tutte le sue disgrazie, quel “Patreterno, che quelle che voglino vivere onestamente in vece di aiutarle li fa morire”. E’ una lettura commovente e spossante, al termine si rischia il ricovero dal logopedista.

La libreria Utopia di Milano ha pubblicato un libriccino inedito di Giorgio Manganelli. Si tratta di Intervista a Dio, una delle sue “interviste impossibili”. Fu rifiutata sia dai dirigenti radiofonici che dall’editore perché ritenuta blasfema. Dev’essere per quella frase a pag.39, in cui l’altissimo confessa il suo disgusto nei nostri confronti. Dice: “Non vi amo, ma odiarvi è troppo faticoso. Io direi che mi fate schifo”. Bah, perché blasfema? Sono le stesse parole pronunciate da Giovanni Paolo II nel dicembre 2002, quando commentò il cantico di Geremia (14, 17-21): “Oltre alla spada e alla fame c’è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità”.

A Travale, un piccolo paese toscano al confine delle province di Grosseto e Siena, il prete era un brillante oratore. Bianciardi lo ricorda con affetto ne Il lavoro culturale (Feltrinelli, pag.23). Dice che “durante la settimana di Pasqua faceva la sua predica sulla Passione e la morte di Gesù, e le donne, a un certo punto, nel sentir raccontare così bene la flagellazione, la tortura, la corona di spine, i chiodi conficcati nelle mani, si misero a piangere, tutte. Al buon sacerdote dispiacque di aver provocato tanto dolore, e così si interruppe, e rivolgendosi direttamente alle fedeli, fece:«Via, figliole, non piangete così. Quello che vi ho raccontato è successo tanto tempo fa, e forse non è nemmeno vero.»

Se Iddio non si rivela più, la Madonna pare meno restia. A volte lacrima, altre sanguina, altre ancora preannuncia disgrazie o la fine del mondo, e infine si fa pure fotografare. Una di queste miracolose immagini mariane fu scattata da un pellegrino nel 1987 a Medjugorje. L’evento suscitò un acceso dibattito sui media, e Federico Zeri intervenne con un articolo sul quotidiano La Stampa. La prima cosa che lo colpì fu lo schema compositivo. Tranne alcune piccole variazioni, per Zeri quello schema si ricollegava a un’invenzione della pittura italiana trecentesca, per la precisione la Madonna con Gesù bambino di Ambrogio Lorenzetti a Brera; idea che venne poi ripresa nella Madonna del solletico di Masaccio. Sul tronco di quell’impianto, l’innesto dei connotati della Vergine citava la fisionomia di certe attrici di Hollywood degli anni 50 dalla bellezza castigata e domestica; come la sfortunata Linda Darnell, che recitò proprio la parte della Madonna nel film Bernadette dedicato alla piccola veggente di Lourdes. Zeri avvertì che con quell’expertise non intendeva affermare che l’immagine fosse falsa. Per lui, vera o falsa che fosse, il punto determinante era “l’impossibilità per la nostra mente di produrre immagini senza radici, prive insomma di riferimenti storici”. Pare che quando riferirono a Berenson che la Madonna era apparsa a papa Pio XII, lo storico dell’arte chiese: “in che stile?”

E se i riferimenti fossero personali, se il repertorio mnemonico visivo attingesse soprattutto ai nostri affetti, e la Vergine avesse il volto della donna amata? Ginevra Bocheta, il grande amore di Giovanni Bellini, fu la sua unica modella, la sua religione privata, l’incarnazione del suo stesso stile. L’ovale purissimo che si ripete in ogni Madonna con bambino del veneziano è sempre il suo. Presto dovette dipingerla a memoria, perché lei morì giovane. Forse quei quadri postumi rappresentarono per Giovanni un modo di elaborare il lutto, o forse sentiva solo il bisogno, col passare del tempo, di tener vivo il suo ricordo. Quella galleria di ritratti sparsa per il mondo è il Taj Mahal italiano, il nostro cenotafio dell’amore inconsolabile. Chissà com’è Ginevra quando nessuno la guarda… Io ricorderò sempre la prima volta che la vidi. Ero alla Pinacoteca di Brera, una domenica d’estate di tanti anni fa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: quella fu per me una giornata indimenticabile.

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26 Commenti

  1. Come sempre in ottimo stile Garufi con le sue belle cronache di pensiero, però certe volte scade nel superficiale del turismo della realtà che si critica e poi vengono fuori frasi come: “Siamo tutti d’accordo sul fatto che il 90% di qualsiasi cosa è merda, e tutti siamo certi di appartenere al restante 10%”
    Ma perché, senza volere appartenere al gruppo da 90% o al gruppo da 10% non si può essere metaforicamente molto altro? In genere in analisi sono i masochisti che si esprimono così, e non sono poi una così alta percentuale

    Cmq è un articolo bello quello di garufi, anche quanto non mi piacciono le sue idee, perché sa esprimerle molto bene, come scrittore, come scrittura è il mio preferito dei redattori di NI

  2. Se vogliamo aggiungere un tassello/trallallà a questo bel mosaico:

    Chacun commença à regarder les autres et à vouloir être regardé soi-même, et l’estime publique eut un prix. Celui qui chantait ou dansait le mieux; le plus beau, le plus fort, le plus adroit ou le plus éloquent devint le plus considéré, et ce fut là le premier pas vers l’inégalité, et vers le vice en même temps: de ces premières préférences naquirent d’un côté la vanité et le mépris, de l’autre la honte et l’envie; et la fermentation causée par ces nouveaux levains produisit enfin des composés funestes au bonheur et à l’innocence.

  3. E’ vero, non se ne ricava nulla. Per questo mi piace. Non tradisce le aspettative.
    Il cane in foto dovrebbe essere Agar (la schiava d’Abramo scacciata con il figlio in corpo, Ismaele – donde la stirpe arabica). Scusa Sergio ma è la cosa che mi attrae di più, perchè diedi quel nome a un cane che ha abitato con me qualche anno, quando abitavo nel bosco. Solo che il mio Agar trovatello non era il cattivissimo doberman di cui racconta Céline, ma un cane piccolo agile e velocissimo nell’arte della fuga.

  4. Poiché la pura invenzione non esiste, né esiste un’arte che non sia vita al contempo, scrivere è sempre riscrivere, sicché tra narrativa e saggistica c’è lo spazio appena di un arzigogolo. Garufi, nel negarlo, lo dimostra attraverso riflessioni discorsive, in forma di racconto, neanche troppo forzate nei raccordi. Probabilmente, più che ad aliquote di ripartizione tra merda e non, dovremmo rassegnarci a un unico contingente di falso: è falsa la comunicazione (tv docet), è falsa la politica, è falsa la cura dei malati (docet Federfarma), sono palesemente false l’istruzione e la scuola, è falsa la realtà, ovvero è deliberatamente un inganno ciò che consideriamo pedissequamente realtà. Non è che le cose cambino aspetto quando non le guardiamo, piuttosto le cose quando non le guardiamo non esistono. Se è utile ciò che dà risultati concreti, mi sento di difendere allo stremo l’astrattezza, ciò che non dà risultati, il superfluo: l’arte, a ben vedere. Non si basa su ragioni estetiche, assai più che politiche, lo schifo del liberal/rampantismo, dell’aziendalismo predatorio che i media seguitano ad inculcarci? Il tralalà, più che sentirsi al centro della scena, potrebbe equivalere ad essere pubblico di se stessi, cioè sottratti alla dimensione sociale: pericoloso, fatuo, però forse l’unico modo per avere un pubblico. Ma, a parte i cinquanta milioni di italiani tele-decerebrati, chi è che ha bisogno di un pubblico?

  5. caro sergio a me l’unica cosa che non mi ha convinto è il segmento da te proposto:
    celine, kundera, de lillo, pascale.
    con tutto il bene che voglio ad antonio…
    effeffe

  6. Sulla civiltà della Svizzera si potrebbe fare qualche obiezione, tipo che il voto alle donne gliel’hanno dato negli anni ’70, oppure ricordare il modo in cui hanno trattato gli zingari, arrivando a elaborare un progetto di sterilizzazione delle donne. Sulle banche inutile dire qualcosa. Dice: ma c’entra poco con l’argomento principale del post, quello alla Svizzera era solo un riferimento incidentale. Sì, però intanto c’era, poi mi ha colpito perché questa storia della Svizzera civile per qualche motivo mi stimola dei pruriti, e poi era all’inizio del post e io ho letto solo la prima parte, perché non avevo tempo di leggerlo tutto. A proposito: ma qual è l’argomento principale del post?

  7. ohps dimenticavo sergio di dirti che ho trovato geniali i tag

    This entry was written by sergio garufi, posted on 29 Gennaio 2008 at 08:06, filed under diari and tagged implementare, patasgionfa, sticazzi. Bookmark the permalink. Follow any comments here with the RSS feed for this post. Post a comment or leave a trackback: Trackback URL.

    effeffe

  8. grazie della bella foto, del bell’articolo e delle tante notizie che ci dai.
    Non che per caso hai il catalogo e una macchina digitale e ci fai vedere le mani biscottare di Benjamin che consulta i volumi alla Biblioteca Nazionale di Parigi?
    georgia

  9. “E’ un po’ che non leggo narrativa, sarà un sintomo di vecchiaia. Libri di foto, taccuini, diari, memoriali, epistolari, autobiografie, qualsiasi cosa ma non la finzione. Mi suona falsa, come ai guappi di Casal di Principe. Ricerca frustrata, naturalmente. Lo scarto fra l’intenzione di ricostruire fedelmente una vita e la vocazione apologetica del sé è irriducibile. Si può mettere alla berlina l’io del passato, mai l’io attuale. Per non parlare dello sforzo di dare un senso, una coerenza logica retrospettiva a un ammasso di eventi slegati e accidentali. Anche questa è a suo modo una manifestazione del “tralalà”, un imbellettamento cosmetico della vita”

    …si potrebbe mangiar cetriolini, ma questo te l’ho già detto mi pare:)
    molto bravo, molto profondo, molto composto, molto molto sempre!
    troppo, direi :)
    baci
    la funambola

  10. A me dopo questo post viene solo in mente Walcott.
    “C’è una memoria che nasce dall’immaginazione e dalla letteratura e non ha nulla a che vedere con l’esperienza effettiva, ed è, di fatto, una vita parallela”.

  11. come mai l’immagine di céline col cane è stata sostituita da una madonna di bellini (bellissima)?

    p.s. l’unica agonia cui ho assistito è stata quella di mia madre: non c’era traccia di tralalà.

  12. @georgia
    grazie dei complimenti. per la foto di benjamin mi spiace ma non ho preso il catalogo, e cmq non saprei neppure come trasferirla sul pc. forse si trova su google immagini, è abbastanza nota
    @montekristo
    neppure io sono un estimatore della svizzera, riportavo un’affermazione di borges. personalmente la considero la tintoria dei soldi sporchi di tutto il mondo, però ho il sospetto che il senso del bene comune sia molto più diffuso del nostro.
    @niky lismo
    molto interessanti le tue osservazioni, e condivise.
    @marco
    a me risulta che il cane in foto fosse bessy, non so se era un lupo.
    @tashtego e alcor
    avevo voglia di cambiare foto, e poi c’entrava, quindi perché no?
    @esmè
    bella la frase di walcott, se permetti te la rubo
    @elena
    se serve posto anche a domicilio :-)
    @furlen
    l’indicazione dei tag è merito di un sommovimento biliare improvviso. le coliche intestinali sono le mie muse ispiratrici

    a luminamenti, nadia, la funambola, vito, cappuccetto rosso e gli altri un grazie di cuore.

  13. l’unico vero potente rimpianto della mia insignificante vita è non essere nato svizzero.
    qualsiasi cosa ne pensi il nostro gagliardo céline, quella del tralalà che rovinerebbe l’agonia degli uomini, è una irreparabile cazzata.
    a meno che non si riferisca al bailamme degli umani che si agitano attorno al morente.
    in quel caso ha ragione.
    ma allora occorre accordarsi sul significato di tralalà.

  14. caro tash (mi prendo un po’ di confidenze), caro tash

    a lei invece dedico questa, per dispetto che sento che tu la mia cara amica emili non la senti troppo, la senti q.b., forse.
    mi piace un volto d’agonia
    perchè so ch’è sincero.
    l’uomo non può contraffare lo spasimo
    nè simulare il rantolo.

    gli occhi si fanno vitrei ed è la morte.
    impossibile fingere
    le perle di sudore sulla fronte
    infilate nella sommessa angoscia.
    fiuuuuuuuuuu…”infilate nella sommessa angoscia” vale cento libri che ho letto o che non ho mai letto

    tralllalerorallerolarrelallerolalllllà
    lei mi piace sempre assai, ci tenevo a comunicarglielo
    tanti baci
    la funambola

  15. Garufi, vedendo lo scarto tra il post iniziale e la tua replica finale, desumo che hai fatto tesoro della citazione rousseauviana: in effetti, nel “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini” c’è già tutta la critica del trallallà (in italiano con 2 l). Così tremendo, il Giacomino, da voler vietare OGNI spettacolo. Ecco: Giangio e Fernando, i 2 massimi barboni dell’umanità.

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di Sergio Garufi
sergio garufi
sergio garufihttp://
Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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