Monsanto, Portugal

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di Cristina Babino

Monsanto è un lembo sperduto e antico del Portogallo centrale, nella regione interna di Beira Baixa. Nel 1938 il regime fascista, col suo vacuo primatismo da propaganda, coniò per esso la definizione di villaggio più portoghese del Portogallo, motto che occhieggia tutt’ora nei dépliant turistici e sui cartelli stradali. Dall’aeroporto di Lisbona occorrono circa tre ore di macchina per giungere qui, nel distretto di Castelo Branco, a sud-est della catena montuosa della Serra de Estrela. Il confine spagnolo è a un passo, si avverte nei nomi delle cose, e nell’aria calda e calma che pervade le vallate anche in inverno. Dalla capitale si punta in autostrada al cuore di roccia del Paese, per due buone ore e mezzo, poi ci si inerpica per strade più o meno impervie tra i diciassette villaggi del comprensorio di Idanha-a-Nova, di cui Monsanto è un municipio – una freguesia, secondo il termine locale usato ai tempi dei remoti splendori dell’Impero portoghese.

Salire fin quassù è un’ascensione che sa di penitenza, in un modo. La religiosità pervade questi luoghi con un’aura millenaria, sentita e vissuta nel profondo di un quotidiano che pare impermeabile alle lusinghe della modernità. Durante il periodo pasquale, qui si celebrano i rituali della Passione più suggestivi del Paese: la statua del Cristo calata dalla Croce da uomini incappucciati, con l’ausilio di scale fedeli all’iconografia tramandataci dalle opere d’arte, quindi avvolta nel sudario bianco e deposta al compianto delle donne, che intonano canti struggenti di dolenza e confessione.

Nel resto dell’anno, croci di pietra porosa e solidissima fanno da voto e sentinella quasi a ogni angolo. Le finestre, e le strade, si popolano di tanto in tanto solo di anziane donne in fazzoletto e veste neri, grandi ceste di verdure portate sotto il braccio, l’andatura affaticata dall’età e dalla pendenza delle vie dai ciottoli serrati. Spesso le si vedono sedute a piccole congreghe sui gradini delle scale in pietra che conducono alle loro case, per scomparire poi d’un tratto dietro le porte di legno scorticato e verde tipiche di questa zona. A volte i mariti le accompagnano, nei brevi tragitti tra i vicoli umidi di muschio, le coppole calzate sulle fronte, indosso le camicie a scacchi di flanella. Si ritrovano, poi, gli uomini, nello slargo che dà sul belvedere: non c’è una vera piazza, a Monsanto, la sua è una conformazione tanto particolare da renderlo un luogo unico, meta soltanto di pochi, coraggiosi visitatori che qui si fermano un pomeriggio ad ammirare la grandiosità silenziosa del paesaggio, mai però a passare la notte. Che può essere molto fredda, e ventosa, con sbalzi di temperatura forti e imprevedibili.

La gente è curiosa della curiosità di chi arriva, sorride cordiale mai mancando di rivolgerti qualche parola di benvenuto, qualche forma di bonaria accoglienza. E’ raro, ormai, altrove, il costume del saluto immotivato. In Italia sopravvive solo nelle anticamere dei dottori, e tra gli escursionisti…

Monsanto è un angolo del Portogallo cosiddetto profondo, ruvido, irto, sassoso. E bellissimo. Di un fascino poco accomodante, però, e inesorabile. Qualcosa di molto simile al sublime descritto dai romantici. Il villaggio è arroccato alle pendici del Mons Santo, incastonato in un declivio disseminato d’impressionanti megaliti, che sono il tratto distintivo, l’orgoglio, le stigmate di un paesaggio antichissimo. Le case, tutte in pietra e legno, formano un’ entità unica con gli enormi sassi che le sovrastano, concrezioni granitiche che le inglobano a volte, a volte vi si appoggiano con tangente gigantismo: difficile è distinguere dove cominci la costruzione, dove finisca il prodigio naturale, il lavorio e la paziente levigatura del tempo. Passi tra i vicoli angusti, odorosi di legna da ardere, le strettoie infiltrate di vento e parietarie, e in tutta la sua evidenza t’accorgi che questo abitato è il frutto di millenni di lotte estenuanti dell’uomo col suo ambiente, una lotta con le forze naturali impari, eppure miracolosamente vinta, tanto difficile è capire quanto l’uomo si sia piegato all’asprezza di questo luogo, per insediarsi, e quanto questo luogo sia stato domato, facendo dei megaliti non più minaccia ma provvidenziale sostegno, e riparo.

Percorrendo la via che dal cuore del paese sale alla vetta del monte, ci s’inoltra in un labirinto di vicoli diramati come vene asciugate e pulsanti in cui è facile perdersi, seguendo il richiamo di un dettaglio, di uno spiraglio di paesaggio che s’indovina alla vista tra le intercapedini dei muri, e s’apre poi in vedute inattese e larghe, generose e sorprendenti.

Giungere alla cima ripaga del fiato fatto grosso, della vaga sensazione di vertigine che coglie. L’antico castello, in resti, domina ancora – in una vetustà che sa di millenni e di rovina, di guerre sanguinose, di invasioni barbariche e misteri templari – la vita del paese e della vallata.
Rocce d’ogni dimensione, arrotondate dalla carezza delle ere, s’appoggiano al verde dei cespugli, a una vegetazione ispida dal colore che s’accende al sole scoperto dalle nuvole in lento transito. Alberi di mimosa giganteggiano spontanei e frequenti, ancorati nel loro giallo lieve tra i macigni. Qualche mandorlo audace è già fiorito con la promessa bianca e tenue dei suoi frutti.

Si sentono lontani canti provenire dalle case: nenie di lavandaie, echi di pastori inseguiti dall’abbaiare dei cani ai loro greggi. Versi attutiti di uomini e animali accompagnati dai vespri sussurrati delle donne in nero raccolte nelle chiese.

Monsanto, Portogallo, 21 febbraio 2008.

(Foto: La porta verde, di Cristina Babino. Altre foto su www.lacuginaargia.wordpress.com)

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4 Commenti

  1. Credo che tu abbia un futuro anche come scrittrice per guide turistiche… :-)

    Buona permanenza amica mia!

    Abbraccio,
    L.

  2. Foda-se, ninguém escreve e comenta nada sobre o Portugal.

    Credo che Salazar la sapesse lunga su come tenere i portoghesi al guinzaglio. Facile fare affidamento sullo spirito nazionalistico dei portoghesi…
    Anche far affidamento su una sedia…cai da uma cadeira, bateu a cabeça, acabou assim o ditador

    Monsanto.Era una delle possibili mete del mio viaggio, ma alla fine il tutto si è limitato a Lisbona…
    Limitato? Forse è la parola meno adatta.

    Mi è capitato di vedere processioni di uomini incapucciati, di diversi colori: bianco, rosso, verde, nero…
    Santiago de Compostela, una toccata e fuga.

    Leggo da Wikipedia che la densità è di Monsanto è di 8,8 abitanti al Kmq…

    Mi è capitato di vedere anche una donna vestita di nero, con un velo nero, seduta su una panchina in fronte ad un loculo aperto, con la testa china a rimuginare chissà che, a rimpiangere chissà che cosa, forse il corpo contenudo in quella cassa di legno. Due bambini erano distanti da lei, presumo fossero i suoi figli, saltellavano qua e là nel cimitero di Alto Sao Joao…

  3. una considerazione mi viene da fare leggendo questo articolo, e cioè: è solo una mia impressione o quando le donne propongono descrizioni di luoghi il luogo descritto sovrasta e determina lo scritto con una specie di forza neutra, spirituale, più fotografata che scritta? è come se la scrittrice si perdesse dentro la vivezza dell’immagine e la sua anima, i suoi umori mentali, le sue impronte fisiche e odorose o le sue psichizzanti turbative venissero assorbiti dal panorama e dal contesto, come se stessimo sognando l’eterobatico pensiero di un angelo o un diavolo o una peri.
    che differenza quando a porre il ricordo di un viaggio è un uomo, come ne senti subito l’odore, anche quando l’odore è buono. non vedi solo il paesaggio o la scena, senti il suo odore (metaforicamente è ovvio) frammisto ad immagini e impressioni, lo scrittore maschio marca il territorio che si accinge a descrivere, piscia come il cane su ogni nuova pianta, palo, stipite che non abbiano il suo odore. la donna no, è più rispettosa, se ne lascia avvolgere, ne prende un pò l’odore e la sembianza del luogo e della situazione. almeno in questo caso.

  4. Occhio fotografico, scritto fotografico. Limitarsi alla descrizione del luogo senza scendere troppo nella dimensione di contatto fra “paesaggio” e “persona” sembra caratterizzare lo scritto su Monsanto. Ma credo che dipenda anche da quanto tempo trascorra l’autore o l’autrice nel luogo di interesse. Monsanto, credo, si presti bene ad una toccata e fuga, non si ricorre a quel segnare il territorio, è solo un passaggio in un paesaggio, quindi non entra di prepotenza nella dimensione personale e di conseguenza non esce dalla dimensione personale marcatamente modificato.
    Può rimanere impressa l’immagine, possono rimanere impresse sensazioni guardando un tramonto, respirando un’aria diversa, ma restano pur sempre fenomeni isolati, limitati ai giorni, giorni di novità che possono sì modificare la percezione del luogo, ma lontani dal personalizzarsi. Per questo un tramonto in Irlanda e un tramonto nel paese natio o di residenza sono totalmente diversi, nel primo caso sarebbe forse meglio usare un occhio fotografico, nel secondo caso un occhio più personale, un occhio intimo. Tal cosa cade se mentre si osserva quel tramonto accade nella propria vita qualcosa di sconvolgente.

    Bisognerebbe indagare su ulteriori scritti dell’autrice, per esempio leggendo una descrizione di un posto in cui ha soggiornato per molto tempo e che quindi ha marcato (naturalmente in modo diverso rispetto ad un uomo, se vogliamo mantenere il parallelo con lo spirito animale o naturale dell’uomo).

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