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Ricevo Volentieri Pubblico (effeffe)
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Considerazioni sul giornalismo politico e non solo
di
Alessandro Trocino 1

Quanto ti pagano per fare un’intervista? Ti senti libero? Scrivi davvero la verità? Domande comuni, quando sei un giornalista, per di più del settore politico, e chi te le fa è una persona che è al di fuori del circuito mediatico, non ne conosce bene i meccanismi, ma immagina di conoscerli o ha ipotesi generiche ma ben sedimentate. La prima reazione, direi quasi chimica, è di spossatezza, incredulità. Come se, dopo essere arrivato non dico in cima alla montagna, ma comunque a un buon livello, spingendo il tuo macigno come puoi, lo vedi precipitare a valle in un secondo. Ti cadono le braccia. Sconforto, per il baratro che c’è tra il cronista, che pure scrive per lui, e il lettore.
Ma credersi Sisifo è gratificante, troppo gratificante. La fatica inutile, lo spreco, la dissipazione voluttuosa, quale migliore sollievo intellettuale. Ma il macigno che credi imponente è un sassolino. Il senso delle proporzioni che ridesta l’autocoscienza, quella percezione di sé che è salvezza e insieme maledizione, provoca nel cronista un secondo choc, in senso diametralmente opposto. Ed eccoti giù dalla montagna, in dimensioni naturali, un onest’uomo che si ingegna per portare a casa la pagnotta ovvero, per restare in metafora, che si ostina a spingere pazientemente in alto il sassolino per il solo motivo che lo ritiene giusto. E lo fa, tentando fin dove è possibile di non macchiare troppo la coscienza.

E questo è il punto, come direbbe e dice infinite volte Antonio Bassolino, finendo con la sua balbuziente coazione a ripetere per trasformare la miriade di punti in una linea mossa che, a differenza di quella della Settimana enigmistica, non trova compimento e riposo in alcuna forma riconoscibile.
Questo è il punto, dicevo, per il giornalista: trovare un equilibrio soddisfacente tra la sua auto asserita integrità morale e il realismo necessario perché la pagnotta-sassolino non gli venga sottratta prematuramente dalla natura matrigna, nelle vesti più prosaiche dell’editore-direttore. Proprio questo il giornalista politico prova ad argomentare a chi gli pone la fatidica domanda. Succede ogni volta che il discorso sul giornalismo non contempli adepti in grado di maneggiare, o ignorare consapevolmente, i concetti chiave di cui stiamo parlando. Dunque il giornalista chiarisce dapprima che no, non lo pagano gli intervistati. Né che lui paga per intervistare, concedendo che quest’ultima evenienza si dà talvolta in qualche rotocalco televisivo o nei settimanali di gossip. E poi rispondendo che sì, si sente libero. Parola che il giornalista avvezzo alla retorica, non potrà non far seguire da una pausa, prolungata a piacere.
Libero.

Naturalmente, per sopire il senso di colpa incipiente che lo coglie dopo un’affermazione incompleta o un’omissione deliberata, il giornalista si affretterà ad aggiungere che la libertà di cui gode è comunque relativa.
Come tutte le libertà, aggiungerà in conclusione.
Con ciò provocando tre riflessi psicologici tipici nel domandante. Il primo – di diffidenza – all’asserita libertà di manovra del giornalista. Il secondo – di sollievo sarcastico – alla conferma che la libertà è relativa e quindi, si desume, non è vera libertà. Il terzo – di disappunto incredulo – all’aggiunta che tutte le libertà sono relative. Da quel momento comincia la difficile incombenza: convincere il domandante della bontà delle sue osservazioni e persuaderlo del fatto che i giornalisti non sono necessariamente servi del potere. Perché il querelante, se così si può dire – come si scopre subito, ma si sapeva in anticipo – non ha posto affatto una domanda neutra, per ottenere una risposta a una questione ignorata. Ha semplicemente messo alla prova il querelato, come accade spesso nelle conversazioni, per testare il suo grado di resistenza a una verità che egli crede già di possedere e che solo una straordinaria capacità di affabulazione potrà riuscire a confutare.

Perché è chiaro, a chi domanda, che il giornalista non è libero, scrive su ordinazione del padrone, nasconde la verità, la manipola per compiacere il potente di turno, è parte integrante del sistema o, come si usa dire ora (per colpa del duo Rizzo-Stella o più precisamente del loro editor), il giornalista è un membro a pieno titolo della Casta.
E questo è il punto, direbbe don Antò. Il giornalista fa parte della Casta. Per diritto, per elezione, per vocazione, per convenienza, senza bisogno di nessuna dimostrazione particolare. Perché, come scriveva Roland Barthes, la gente ama la tautologia, pratica che introduce, per debolezza argomentativa o per mancanza di tempo, una frattura insanabile tra un’asserzione e il ragionamento che dovrebbe produrla.
A quel punto diventa difficile, se non impossibile, opporsi con le armi della logica. Il nostro querelante diventa come Indiana Jones che, di fronte al tale che fende l’aria con la scimitarra producendo mulinelli paurosi e apparentemente efficaci, estrae placidamente la pistola e spara. Un duello ad armi impari. Ma arrendersi o, peggio ancora, denunciare la disparità, sarebbe snobismo intellettuale. Un imperdonabile atteggiamento di superiorità. Che, è questo il punto, finirebbe per confermare definitivamente all’interlocutore la sua appartenenza alla Casta.

Perché poi la Casta, come tutte le categorie metaforiche, è concetto vago, sfuggente, centrifugo, che tende ad allargarsi a una cerchia sempre più ampia di persone, che normalmente non coincidono con quelle conosciute, ma con quel magma indistinto che si muove misteriosamente fuori dal nostro controllo. E allora, se non si vuole cedere allo snobismo di Casta, non rimane che usare la dialettica, nel tentativo di smuovere il querelante dalla sua posizione apparentemente neutra, ma in realtà di granitica certezza.
Tentativo improbo. Perché poi – si generalizza consapevolmente, ma solo perché è funzionale a un discorso – l’altro ostacolo da rimuovere, e non sono bastati secoli, è il manicheismo. Quella logica binaria che porta il querelante a prendere in considerazione l’ipotesi A, data come prevalente, della mancanza di libertà del giornalista, o in alternativa l’ipotesi B, del tutto implausibile, del libero arbitrio del notista, politico e non. Nessun’altra soluzione intermedia, nel vasto mare delle sfumature, è normalmente presa in considerazione. E ogni tentativo di inquadrare il concetto astratto e romantico della libertà nella cornice più angusta e dimessa della realtà finirà inevitabilmente nel nulla, spesso deriso come un modo per minimizzare o giustificare.

La serata, a quel punto, finirà per rabbuiarsi in un silenzio ostile o per virare su argomenti più facilmente condivisibili, come la crisi del Pd o l’incontinenza sessuale del premier. E il giornalista politico potrà finalmente smettere i suoi panni scomodi, uscendo da quella Casta che così poche soddisfazioni gli dà, per tornare a essere quel così bravo ragazzo che era sempre sembrato al querelante, prima che si intestardisse a dibattere di giornalismo.
Solo che il giornalista, che ha la tendenza a esserlo e non solo a farlo di mestiere, finirà per rimuginare tutta la sera su quella frattura, alternando anatemi contro il berlusconismo strisciante che ci ha portato in queste condizioni, a improvvisi attacchi di pentimento, per l’inusitata superbia dimostrata. E gli tornerà in mente la desolante risposta di Franco Fortini a Goffredo Parise, con il rivendicato diritto all’oscurità e all’uso di “frasi complicate o parole inutilmente difficili”.
Nel dialogo mancato, nella conclamata e assunta incapacità di farsi comprendere dall’interlocutore, il cronista vedrà con orrore materializzarsi la metafora della distanza siderale che separa ormai il giornalista dal lettore. Un’incomprensione radicale, quasi strutturale, che forse va oltre la ben nota, e straordinaria, analisi di Enzo Forcella, quelle confessioni di un giornalista politico scritte nel lontano – e vicinissimo – 1956.

Forcella concludeva allora traumaticamente la sua esperienza di notista politico alla Stampa, ormai consapevole di essere solo una comparsa nella recita della politica, un esecutore di ordini con il diritto al massimo a un inoffensivo frondismo. Il suo personale conto, a quell’epoca, prevedeva un prevalere dei dispiaceri sui piaceri e una disillusione professionale e umana che non aveva nulla a che vedere con il cinismo. Sfogo-pamphlet che indignò i molti irreggimentati nel clima da guerra fredda della politica di quegli anni, scarsamente sensibili agli scrupoli di una coscienza “borghese” e progressista. A Forcella fu ingiustamente rimproverata anche la resa, quasi il tradimento. Non però dai molti colleghi che gli scrissero in privato e che ben conoscevano quella sensazione di inutilità e di assurdità che coglie non appena si esce dal buco nero del Transatlantico e delle agenzie e ci si ferma ai margini a guardare (tra i molti non colleghi che gli scrissero, come non ricordare Luciano Bianciardi, l’autore del Lavoro culturale e dell’Integrazione).

Eppure, come spiegarlo all’interlocutore, il giornalista può essere libero, anche se sottoposto ai mille vincoli imposti dagli interessi materiali dell’editore, dai desiderata politici del direttore, dalle ugge psicotiche del suo caporedattore, dal contesto storico e ambientale, dalla sua formazione culturale, dalle sue capacità tecniche e dalle sue conoscenze. Può essere libero, e lo è davvero, solo se è consapevole dei limiti, endogeni ed esogeni, se li ammette e se è capace di muoversi nel sistema senza farsene intrappolare. Solo se quel (piccolo o grande) spazio di libertà lo usa ogni giorno e non dimentica che ne vale la pena, anche se non ne vale la pena.
Inutile ricordare il narcisismo che spesso domina le piccole o grandi firme, il piacere di lusingare il potere ed esserne lusingati. Ma c’è anche il piacere di usarlo, il potere, a fin di bene. C’è l’onestà intellettuale di chi è costretto al piccolo compromesso quotidiano ma non cede sui principi generali, di chi sa qual è la barriera da non valicare, il fronte di resistenza dal quale non indietreggiare. E in questa battaglia quotidiana combatterà anche per svelare un dettaglio, magari insignificante, magari marginale rispetto al contesto. Non è facile immaginare quale gioia possa dare, gioia profonda, onesta, vitale, riuscire a sventare una falsità, a disvelare un trucco, a smascherare una bugia. C’è il senso di quel lavoro anche in quel dettaglio, portato alla luce dal cronista come un tombarolo di Cerveteri con un’anfora etrusca. Un dettaglio magari inutile, un’anfora priva di valore. Ma è nell’accanimento ossessivo e quasi patologico con il quale si combatte per portarlo a casa quel dettaglio, per renderlo nitido, in questo sta la forza e la libertà del giornalista. Che affida al lettore, quasi con disperazione, un messaggio chiuso nelle parole cifrate del testo, sperando che le colga, che riesca a leggere la verità dietro il peso inevitabile della sovrastruttura linguistica, della manipolazione anche involontaria e inconscia, dettata dalle condizioni materiali e ambientali della scrittura. Una bottiglia di onestà intellettuale nell’oceano della sopraffazione individuale. Il che non elimina nulla dello sconforto e del disincanto che colsero Forcella e che colgono tutti i giorni i giornalisti che si interrogano sul senso del loro mestiere e sulla manipolazione quotidiana del potere, dei poteri.

Anche scrivendo queste poche righe, di getto, non si può non sentire il peso terribile dell’inesattezza, dell’incapacità tecnica e, chissà, anche etica, di giungere a definire con precisione, con onestà, quel che si vuol dire. Il dubbio che coglie, poi, è se quel che si vuol dire sia geneticamente onesto, o se non sia anch’esso guastato ab origine, viziato da un peccato originale invisibile. E comunque nella volontà residua e animale di cercarla questa onestà, questa verità, sia pure prosaica e transitoria, sia pure parziale e viziata, sta la gioia e il senso dell’essere giornalista. E il confronto con il lettore, la disparità che denota il rapporto – la troppa consapevolezza e conoscenza del giornalista, che finisce per annullarsi, per diventare astrazione, e la maggior aderenza al reale e alla vita del lettore “ignaro” – è il terreno di gioco sul quale si combatte la partita.
E, come in un match di tennis, se l’avversario è troppo debole, rinvia palle lente, alte, molli, si finisce per giocare male, per scendere drasticamente sotto i propri livelli. Anche questo è il problema. Ma il bravo giocatore si vede dalla capacità di adattarsi all’avversario, dall’abilità con il quale, come un maestro di tennis, sa rimandare la palla dall’altra parte del campo, senza enfasi, calibrando direzione e forza, per far sì che l’avversario-complice sia in grado di rispondere, in un dialogo che non può che migliorare, che diventare più veloce e poi trasformarsi in una partita, finalmente, ad armi pari, in una sfida vera.
Sfida impossibile, certo, ma non per questo meno necessaria.

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NOTE
  1. giornalista politico del “Corriere della Sera”

31 Commenti

  1. E’ un articolo di grande qualità, perché porta alla riflessione.
    Quando si legge un articolo in un giornalo, sei impegnato nel pensiero
    del giornalista, vede come lui.
    L’articolo sottolinea la tensione tra la probità e la necessità di vivere e mantenere la sua famiglia. Lavorare per il pane, lavorare nella giustezza,
    nella passione per la sua idea del mondo e della società.
    Tutto articolo è politico, perché l’idea delinea la tua manera di considerare
    il mondo della realtà.
    Ma credo anche della speranza. Il giornalista scrive nel presente, con nella sua mente un orizzonte del future: si situa qui l’argine della sua felicità di scrivere, oltrepassando il narcissismo
    Cambiare il mondo di domani.

  2. non so quanto la casta sia un concetto centrifugo, e non so nemmeno quanta attesa ci sia nella pausa prima di dichiararsi un giornalista Libero, in ogni modo penso che queste righe siano belle e sonore quindi comuqnue viva la carta stampata e tribolata.
    chi

  3. sai Chiara, secondo me Alessandro, con questo concetto che meriterebbe sicuramente di essere approfondito mette il dito nella piaga anzi nella piega, direbbe Deleuze. Che infatti scrive ” Il Barocco non connota un’essenza, ma una funzione operativa, un tratto. Il Barocco produce di continuo pieghe. Non è una novità assoluta: si pensi a tutte le pieghe provenienti dall’Oriente, o alle pieghe greche, romane, romaniche, gotiche, classiche… Ma il Barocco curva e ricurva le pieghe, le porta all’infinito, piega su piega, piega nella piega. Il suo tratto distintivo è dato dalla piega che si prolunga all’infinito”.
    Il concetto di casta così (direi anche assai stupidamente) usato in recenti fenomeni editoriali falsifica una realtà, quella politica ma anche culturale, lontana dall’essere statica e chiusa. In fondo tutti i mondi (nazionali) e i sotto mondi (locali), che si parli di giornalismo o di letteratura, si rinviano l’un l’altro, secondo una logica che potrei chiamare del panino o sandwich. Infatti non è un caso che la soluzione presa da alcune testate nazionali di uscire con quelle locali (vd Corriere della sera vs corriere del mezzogiorno) La Stampa ( Cronache di Napoli, Corriere di Caserta, Cronache del Mezzogiorno, Il Domani della Calabria, Il Domani di Bologna, L’informazione,Gazzetta del Mezzogiorno), ecc, sia risultata vincente, per i mondi, per quanto in taluni casi naufragata, soprattutto per i sotto mondi.
    Più di casta varrebbe allora parlare di Milieu o ancora meglio di giro,( lui è nel giro) che come l’onda si sa ti arriva fin sopra i piedi prima di ritrarsi lasciando un tappeto che bagna e asciuga, e cancella ogni traccia di passaggio, ogni indizio.
    effeffe

  4. I giornalisti e i politici godono di diritti, anche civili, che gli altri non hanno: quindi restano una casta.

  5. il mondo si divide tra privilegiati, che hanno buoni pasto e i privi (e poi basta)
    effeffe

  6. intanto leggo su Repubblica un dato sconcertante ( lo sconcerto mi sorprende)

    Rai, definiti i vertici della radiofonia

    Durissimo anche il commento del consigliere d’amministrazione Nino Rizzo Nervo: “Mortificante e allarmante. Non trovo altri aggettivi. Oggi una maggioranza blindata ha nominato un giornalista (Aldo Papa, ndr), inserito sino a poco tempo fa nell’elenco dei precari direttore di una struttura importante come quella di Isoradio e dei Canali di pubblica utilità”.

    Un precario ai vertici, ma siamo pazzi?
    effeffe

  7. Non sto parlando di buoni pasto. O di ingressi gratuiti ai musei. Ma di diritti civili negati agli altri cittadini.

    Che qualunquismo cinico e disilluso da paese corrotto fin nelle barbe.

    Non so quale sia la situazione oggi, non sono aggiornato sugli sviluppi degli ultimi due anni: vivo all’estero. Un paio di anni fa però e già da tempo, tanto tempo, i giornalisti e i politici potevano già godere di tutti i diritti civili che sono ancora negati alle coppie di fatto per voluta mancanza di normative giuridiche. Sto parlando di cose importanti dunque. Questo era uno dei tanti esempi possibili. Di diritti dunque, non privilegi. Sui privilegi delle casta potremmo non finire mai. Però mi rendo anche conto che molti di voi si sentono appartenere ad una casta… Potete però lasciare la pensione di reversibilità alla vostra “concubina”?

  8. caro/a ama
    l’unica pensione che avrò è l’Annalena (firenze), per il prossimo mio lavoro…
    effeffe

  9. effeffe, sai benissimo chi sono, quindi mi puoi dare serenamente del carO… Non si sta parlando comunque di te o di dove alloggerai a Firenze, ma di cose molto più importanti.

    Si potrebbe poi scrivere un trattato sulla differenza fra privilegi e diritti. E su come in un paese degradato e degradante come l’Italia i diritti siano percepiti come dei privilegi e i privilegi come dei diritti acquisiti.
    Per tacere di quelli che ancora oggi si comprano le indulgenze.
    Il tutto condito da una certa dose di cinico qualunquismo. Tutti vissuti e consapevoli di come vanno le cose del mondo. Nel proprio soffocante confinO nazionale.

  10. da piccolo giornalista di provincia, con la fatica della schiena dritta, un commosso ringraziamento per l’articolo. Stupenda la metafora della partita di tennis… davvero stupenda. Sono pochi i privilegi di pochi giornalisti privilegiati: il resto è annichilimento.

  11. caro ama
    ho visto solo adesso che hai cambiato nick,
    allora,
    come ben visto da marco credo che l’analisi tentata da Alessandro sia piuttosto un “servizio” che una corsa sotto rete (tanto per restare sui campi da tennis)
    Un servizio d’apertura dunque, e non di “chiusura” su se stessi poco importa quanto cinici. Ricorda poi di non confondere confino con border line
    effeffe

  12. Il commento di Ama pubblicato il 4 agosto alle 11:05 («I giornalisti e i politici godono di diritti, anche civili, che gli altri non hanno: quindi restano una casta») denota un po’ di ignoranza dei fatti. Le persone comuni, in Italia, hanno garantito il diritto di parola, secondo l’articolo 21 della Costituzione; i giornalisti hanno un po’ meno diritto di  parola rispetto agli altri, perché la loro professione è regolata da leggi, come quella sulla stampa del 1963, e da codici di autoregolamentazione della categoria, come la Carta di Treviso, che riducono per esempio i modi di parlare di vicende che coinvolgano persone minorenni.
    Ma naturalmente ciò non servirà a stemperare le critiche e le opinioni negative. Quello giornalistico è un mestiere che chiunque pensa di saper fare, secondo l’inveterata convinzione: «Sai parlare? Allora sai anche scrivere! Che ci vuole?».

    Questo, dal punto di vista tecnico. Dal punto di vista etico… va be’, è sotto gli occhi di tutti che nella categoria dei giornalisti ci sono personaggi dai comportamenti indifendibili. Magari sono ispirati dalle migliori intenzioni – ma lo stesso sono indifendibili.

  13. forse occorrerebbe sostituire qualche altra parola alla parola “libero”.
    nessuno è libero, nemmeno gli artisti lo sono, perché mai dovrebbe esserlo un giornalista?
    direi che complessivamente è la stampa che dovrebbe essere libera, anzi l’informazione.
    banale il concetto di pluralismo dell’informazione, eppure sostanziale e fondante.
    possiamo davvero dire che oggi in italia esista il pluralismo dell’informazione?
    oppure c’è qualcosa di diverso?
    oppure c’è qualcuno che ha troppo potere e questo troppo potere crea un campo gravitazionale che deforma (oltre che la politica, l’economia, l’etica, eccetera) TUTTA l’informazione?
    che senso ha domandarsi, in modo certamente narcissico, come fa il giornalista autore del post: sono io libero?
    (rispondendosi un po’ ovviamente: sì e no)
    non sarebbe meglio chiedersi: oggi il mio è un paese libero?
    se no, faccio io parte di un sistema che complessivamente procaccia consenso a chi è al potere?

  14. Credo che sia sempre utile valutare il proprio grado di libertà individuale e credo che lo sia anche e soprattutto in funzione del grado di libertà complessivo del sistema, se proprio si vuole usare questo termine. E comunque il senso del tutto era anche la presa di coscienza di un divario tra chi fa o dovrebbe fare informazione e chi legge o dovrebbe leggere, quel baratro che si spalanca oltre i 1500 lettori e che si nutre di incomprensioni, manicheismi, presunzioni, estremismi, ipocrisie e molto altro ancora

  15. Non solo non sapete leggere, ma non siete neanche informati.

    Se un parlamentare omosessuale, ma anche un assessore comunale di una grande città, ha un compagno *di fatto*, quest’ultimo già gode *di fatto* di tutti i diritti civili che il riconoscimento giuridico delle coppie *di fatto* estenderebbe a tutti. Stesso discorso vale per le regole contrattuali dei Signori Giornalisti. Non sto parlando dei pubblicisti sui giornali locali! Informatevi. Non sapete neanche di cosa sto parlando.

    Come si fa poi a negare che i giornalisti sono una casta? Mi viene quasi da ridere!

  16. E ricordatevi che in Italia c’è un editore unico che si fa portavoce di un pensiero unico dominante. Al solo pensiero che qualcuno creda che possa esistere in Italia un giornalismo libero, mi viene da ridere!

  17. gentile AMA, mi consenta: non rida troppo, ne va della sua linea. sembra, stando agli ultimi studi medici, che il risus abundans provochi una sorta di stenosi ipertrofica del piloro, con rigurgiti, e conseguente inappagabile senso di fame, molto frequenti. sia chiaro, non le sto assolutamente chiedendo di astenersi, ma se proprio non può farne a meno, mi raccomando!, tenga sempre il frenulo a mano ben tirato: pare sia un antidoto efficace e limiti molto la serialità compulsivo-espulsiva (almeno quella relativa alla parte superiore)

  18. gentile Lucia, la ringrazio, è una terapia che ho cercato di seguire anch’io, ma i risultati sono davvero risibili, direi inesistenti, almeno in questa parte dell’universal latrina, la più putrida, che ha nome vaticalia. basta poco, infatti, a far svanire, e a tramutare in incubo, se non proprio in volontà di farla finita, anche l’effetto placebo della seduta ridanciana, in solitaria o di gruppo che sia: che so, l’idea che possa esistere una come suor gelmina; il pensiero che penedetto se dice simo facci il papy e che milioni di fans dell’ostrega con sagrato credano sia il rappresentante di pio pio in terra; la constatazione, deflagrante, che la natura, che di solito non faceva saltus, creando i leghisti ne abbia invece fatti parecchi, e tutti all’indietro; per non parlare dello squallidissimo spettacolo di un gruppo di individui che sarebbero ergastolani, da tempo, in ogni altro paese del mondo, e che in questa simpatica mafia a forma di stivale son solo sono a piede libero, ma addirittura governano…

  19. @ M. Orfeo
    non volevo fare un’analisi sociologica (forse più pertinente a questo sito di private pratiche). Mi ero solo allarmata leggendo il suo commento delle 23h 41′ del 6 agosto: sono una praticante naturale e incurabile e cominciavo a temere per ogni mia funzione. era un apsovocazione per scoprire se il suo era basato su fonti documentate o semplice boutade. Grazie del chiarimento

  20. Io sono una giornalista. Detesto la politica, le seguo solo perchè DEVO in quanto giornalista. Devo capirla, viverla e starci in mezzo per conoscerla e informare. La detesto perchè è ipocrita e falsa come il calcio di oggi mi verrebbe da dire. I giochi sono fatti e lo saranno sempre.
    Non sono una giornalista libera. Non si può essere giornalisti liberi. Nemmeno il free lance può esserlo. E’ illusione anche quella. La differenza è che hai più possibilità (forse) che le tue notizie escano e magari senza tagli e censure. Perchè sei libero di darle a chi vuoi. Sai a chi puoi venderle o meno. Chi le pubblicherà o meno. Sta qui la libertà.

    Era bella la politica. Era coinvolgente, ma forse a quei tempi io non ero nemmeno nata.

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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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