Perversa anzi banale, una storia più vera del vero 

di Isabella Mattazzi

Autore di una ventina di romanzi, vincitore di una manciata di premi, Régis Jauffret può essere considerato a tutti gli effetti uno scrittore di culto al di là delle Alpi. I suoi romanzi, pressoché sconosciuti in Italia, frequentano da tempo le vette più alte delle classifiche di vendita francesi. Non da ultimo Sévère, libro scandalo che nel 2010 ha dato a Jauffret una grossa mano in fatto di popolarità. Racconto della relazione sadomaso tra un facoltoso banchiere e la sua escort, Sévère ha avuto per mesi gli onori dei giornali per la richiesta, da parte di una famiglia alto-borghese ben nota al gossip francese, di ritirarlo dal commercio e di distruggerne tutte le copie. La storia infatti è vera, o meglio Jauffret si è ispirato per il suo romanzo a un fatto di cronaca realmente accaduto nel 2005: l’uccisione del finanziere Édouard Stern da parte della sua amante che per questioni di soldi ha pensato bene di ammazzarlo chiuso in una tuta di latex rosa. Da qui, la decisione della famiglia Stern di difendere la memoria del defunto con ogni mezzo legale a sua disposizione. Da qui, la prevedibile alzata di scudi dell’intellighenzia radical-chic francese (con manifestazioni, happening e petizioni firmate dai soliti Michel Houellebecq, Philippe Djian , Philippe Sollers , Bernard-Henri Lévy …)in difesa della libertà di scrittura e dell’assoluta sovranità dell’autore di fronte al proprio testo.
Fino a questo punto, nulla di strano. Tentativo di censura che si risolve con un niente di fatto. Solito inno alla liberté-égalité-fraternité cantato a gran voce dalla classe intellettuale parigina. Pubblicità a schiovere e triplicazione delle vendite del libro. Il problema però non sembra stare affatto qui. Al di là dell’ovvia battaglia sulla libertà di espressione, resta invece da capire come mai la famiglia Stern si sia sentita così coinvolta da quello che in fin dei conti non è altro che un testo di fiction, tanto da decidere di ritornare, ancora una volta, sul proprio passato così doloroso. Da darsi di nuovo in pasto ai giornali, affrontando la gogna del pubblico voyeur.
Sévère(nella bella traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio per Barbès), in realtà non è affatto il racconto di un fatto di cronaca. O meglio, è il racconto di un fatto di cronaca così come potrebbero essercene a centinaia. Niente altro che un semplice e lungo elenco di luoghi comuni sulla trasgressione, o sull’ “amore estremo” se si vuole dare un sapore un po’ romantico e maledetto alla cosa.
Innanzitutto i personaggi. Lui. Uomo di potere. Intelligente quanto sadico, raffinato quanto cinicamente calcolatore. Naturalmente maltrattato da piccolo dalla madre tanto amata (come no, certo, questo spiega tutto). Ovviamente fragile e, a intermittenza, lucido sullo squallore della propria condotta (come se il sadismo avesse bisogno di una fragilità di fondo per giustificarsi; come se chi gode della sofferenza altrui dovesse, in un remoto angolo della propria coscienza, vergognarsene sempre un po’; secondo Jauffret – ma questo è il cliché – non si può essere perversi e basta, tout court, bisogna per forza telefonare ogni tanto alle due di notte alla propria escort piangendo un po’ e biascicando cose profondissime tipo “ho paura del lupo”).
E poi lei. Ovviamente un po’ scema. O meglio ordinaria. Bella, ma non tanto da essere una modella. Neanche laureata, pittrice mediocre, ma con la particolarità di sedurre ogni uomo le capiti a tiro (cliché dei cliché maschilisti quello della “donna niente di che, ma lussuriosissima”). E ancora una volta, anche per lei, un’infanzia difficile (violentata a dieci anni, madre depressa, padre debosciato…), perché si sa – ce lo hanno insegnato anni di psicoanalisi – i devastati provengono sempre da un’infanzia difficile.
Del tutto stereotipati i personaggi dunque, con uno spessore psicologico non più profondo di quei due o tre centimetri di latex da cui sono spesso ricoperti. Stereotipati i loro gesti, con il solito corteggio sempre uguale di frustate, cinghiate, pistolettate, sciabolate, tutine, mascherine, cordine, rapporti a tre, a quattro, a venticinque (per amore di esattezza bisogna però sottolineare che in questo testo mancano gli animali; ecco, forse l’improvvisa apparizione di una scimmia o di una mucca avrebbe potuto portare una ventata di novità nella relazione). Stereotipata la loro pretesa di unicità. Pieno di luoghi comuni l’intero romanzo. Perché allora la famiglia Stern si è sentita attaccata in prima persona da questo libro? Perché ha riconosciuto in modo così sconvolgente un proprio congiunto (mai nominato, del resto) nella storia di un tizio certamente non molto diverso da qualsiasi ricchissimo uomo d’affari che ami compare sciarpe di cachemire, viaggiare con un jet privato e andare in giro di notte travestito da Batman? Probabilmente per la risposta più banale e semplice del mondo. Perché noi siamo stereotipi. O meglio, perché la pulsione è, di fatto, un luogo comune. Appartiene a tutti. Il suo è un linguaggio biascicato da centinaia di bocche, tutte a credere di essere le uniche a parlarlo e invece tutte uguali. E non solo quando il desiderio è quello cerebrale dei frustini e delle scarpe col tacco dodici, ma anche quando l’amore è pulito come fiamma, quando è quello che fa fiorire le mani e trasfigura la povertà imprecisa dei corpi. Chiunque ami utilizza le stringhe più banali e misere che il linguaggio ha messo a sua disposizione credendo che siano sue e soltanto sue. Nella disperazione dell’abbandono anche il più intelligente degli uomini parla come una sartina in un romanzo per signore di fine Ottocento. In fondo, il doloroso riconoscersi della famiglia Stern nella storia di Jauffret, non è altro che questo. Non hanno tenuto conto che la pretesa di unicità della trasgressione, la “vita senza eguali” del banchiere Stern, potrebbe essere identica alla “vita senza eguali” di un qualsiasi suo dipendente, con meno soldi sicuramente, ma con gli stessi desideri e le stesse ossessioni notturne. Mistero della pulsione. Democrazia del fetish.

Régis Jauffret, Il banchiere (traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio), Barbès Editore, pp. 152, euro 14.
(pubblicato su il manifesto, 7/9/2011)

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32 Commenti

  1. Oh! Surprise: il dibattito, per fortuna, è passato da FB a NI. Una transizione che mi piace. Un saluto GgG

  2. Chiunque venisse coi(to)nvolto in una tale querelle si sentirebbe di adire le vie legali, non tanto, credo io, per i motivi addotti dall’autore del post, quanto perché ci sono cattive abitudini di lettura, e di visione, nel caso di film. Se la maggioranza dei lettori di storie si decidesse a considerare la lettura una realtà a sé rispetto a quello che essa informa, tanti cortocircuiti non avverrebbero. La storia di questo signore è stata manipolata da cronisti e mangianastri di mezza europa, in un valzer di dettagli sballati e di commenti impastati della peggiore facile psicologia, ora arriva uno scrittore che vende copie e copie per isolare dalla storia proprio quei punzoni che sa colpiranno meglio le immaginazioni dei lettori… tutto versato nella già cattiva memoria popolare in cui galleggia, a morto, un loro famigliare.
    Se coi gazzettieri non è praticamente possibile intervenire, mi sembra il minimo cercare di tamponare una falla narrativa da cui ognuno può succhiare tutto il sangue e il pulp che serve per vendere qualche romanzetto scemo e pettegolo su una questione completamente privata.
    Non è questione di stereotipia è questione di arginare le manipolazioni dall’esterno. I panni sporchi dove è che piace a tutti lavarli? non fosse per saggezza popolare, che spesso più che popolare è populista, evitare certi scivoloni “gutturali” è fatto di buon gusto e basta.

  3. Certamente, il colmo di queste azioni legali è che incontra l’isteria dei consumatori (perché questa è roba smerciata in paninoteca e discount mi pare), e il libro viene venduto tre volte tanto, assieme a barattoli di salsicce e preservativi in offerta.
    Un altro colmo è che la lega degli scrittori fighi si senta in dovere di difendere quest’arte… firmando papiri di niente. bello bello.

  4. Nella disperazione dell’abbandono, anche una sartina in un romanzo per signore di fine Ottocento parla come il più intelligente degli uomini.
    Cioè, per lo più si esprime a singhiozzi.
    Detto questo, il commercio è l’anima di ogni pubblicità e ogni limite ha una pazienza. E parlate come badate.

  5. sì, ma RJ non è Faletti, ecco… prima di calare le braghe (come sostengono alcuni) e di cedere alla voga del romanzetto ispirato al fatto di cronaca sanguinoso e morbide ha fatto tante altre cose… di valore. Alcune sono state commentate su nazione indiana (si trovano ancora degli estratti di Microfictions, qui, credo). Ma forse io non ho diritto di intervento, perché sono parte in causa (l’ho tradotto); ho letto con attenzione i due post di Dinamo Seligneri, e sono d’accordo su diverse cose. Del resto il bersaglio del critico (IM) è chiarissimo. Anche in Italia la voga dilaga. Con una differenza, rispetto al passato: adesso gli auctores se ne sono impossessati (alcuni); hanno strappato la materia sangue/sesso/denaro/delitto mediatizzato ecc (altri ingredienti: alta finanza, escort, ecc) alla dominio della lett. di genere e stanno cercando di riplasmarla entro nuove compagini, nella speranza di fare qualcosa di sperimentale (le coordinate sono quelle del non-fict.Novel). Non so bene con quali esiti. La critica in Italia comincia a parlare del fenomeno… alcuni critici con severità. Spero di non aver dato impressione di parzialità… un saluto Ggg

  6. Si, comunque la Mattazzi è stata brava, non ha preso le parti di nessuno, si è chiesta solamente perché la famiglia del defunto si sia esposta opponendosi all’uscita del libero, giacche il libero è un elogio ai cliché; facendo probabilmente il gioco dell’editore, che ci avrà guadagnato un bel po’.

    Comunque è proprio vero il mondo S/M è pieno di simbolismi triti e ritriti.
    Non sto qui a raccontarvi .. ehehhehehe.

  7. @Ares: pare che l’editore ci abbia guadagnato pas mal. Quello francese, ovviamente, ;) Una curiosità: il tuo doppio lapsus: libero per libro. Un riferimento inconscio al tema della libertà di espressione? La vexata quaestio, cacciata dalla porta, rientra per la finestra. E mi piace come la Mattazzi affronta anche questo punto, come a dire: il punto non è quello. Il punto, la natura ordinaire del fetish, del sadomaso, ma anche del sadismo e del masochismo intesi nell’accezione morale, o relazionale ecc, e non stricto sensu ritualizzata e tecnica (frustini, tute, copioni, ruoli, sputi ecc.)… il punto, dicevo, e cioè (secondo Mattazzi, e concordo) la natura banale e ordinaria e comune a tutti del pattern s/m e dell’eros fetic., o in generale della pulsione che conduce alla casella “sesso estremo”, è un tema interessante, uno spunto per una riflessione su molta letteratura recente. In alcuni autori quest’idea (che ciò che fino all’altro ieri era ancora percepito come eversivo e rivoluzionario adesso è finito nel paiolo degli avanzi riscaldati, nel calderone di ciò che è ordinario stereotipato comune)… in alcuni autori quest’idea è diventata un’idea narrativa, una miccia, un punto di partenza narrativo, un perno, per meglio dire: penso a Walter Siti, Un dolore normale (per limitarmi a un solo titolo). Un libro che dà espressione a questo concetto sin dal titolo. Mattazzi chiude con “democr. del fetish”. Ecco. Due ultime cose: il tema dell’esistenza banale incolore sciapa ordinaria ha una particolare sfumatura, direi al neon, in altri libri di Jauffret (penso soprattutto a Fragments de la vie des gens, a a Microfictions, a Giochi di spiaggia [trad. it. Napoli, Dante & Descartes]). In alcuni racconti che quasi illustrano questa atmosfera si sente quasi un’eco del neutre (Neutre)/Stereotipia/Cliché/Vide – tema che ossessionò l’ultimo Barthes (Chambre claire, Le Neutre, ecc.). Ma non si tratta di un effetto voluto. Gli autori che RJ cita nelle interviste sono altri (quasi tutti autori modernisti, eccezion fatta per Guibert, che lui dice di amare molto). Chiudo con un’obiezione: forse distinguerei fra pattern sadomaso ed estetica fetish (che peraltro ha varie declinazioni, alcune nobili, altre trash e molto bon marché/grand public). Ciao ciao GgG

  8. ..il mio doppio lapsus era appunto un doppio lapsus.. non indagherei.. oltre sull’origine … avrei potuto scrivere libido e qui ti sfido a trovarne l’origine ^__-

  9. …secondo me nel pattern per così dire ‘classico’ l’ironia non è contemplata. Se vuoi chiedo a un paio di esperti del genere (io non lo sono, non è proprio my cup of tea). A plus GgG

  10. @giuseppe girimonti greco

    fa bene a parlare di paioli e calderoni, la letteratura fine ottocento-novecento, non ha fatto altro che sfruttare queste storie. mi permetta di aggiungere che il lettore, dopo più d’un secolo di letteratura improntata sull’erotismo e bizzeffe di programmi televisivi concernenti, vede ancora del “nuovo” in questo tipo di letteratura di “rivelazione”, allora sarebbe bene invitarli proditoriamente in un grande cinema arancia meccanico e costringerli una volta entrati a prendere visione delle acquisizioni della psicoanalisi da freud in poi sottoforma di puntate cartoonesche di Siamo Fetish Così…
    tanto più che il feticismo fagocita, come penso volesse alludere anche la Mattazzi, aree sterminate dell’immaginario sessuale culturalizzato (oltre il semplicistico feticcio da sexy shop) e che ne culturalizzi esso stesso volta a volta in un processo di semplificazione incosciente e incanalamento determinato della pulsione sessuale irrazionale.
    e si potrebbe continuare.

  11. un’ultima cosa sempre a giuseppe girimonti greco (contro cui non ho nulla anzi m’è simpatico, davvero) che dice “sì, ma RJ non è Faletti, ecco”… io non conosco questo RJ, ma, limiti miei, uno che fa un romanzo su storie del genere raramente mi interessa e le dico perché. perché le cose sono tutte complicate, non solo quelle sessuali, tutte. gli scrittori dovrebbero essere degli escavatori. ecco perché si possono dire cose complicate in modo semplice e ci sta, anche se non è sempre possibile, ma dire cose semplici in luogo di dirne di difficili per spicciarsi le mani e la faccenda è da sempliciotti, o da corrotti. o da tutte e due le cose assieme, come probabilmente è questo RJ, che per tale motivo, per me, ha uno strettissimo grado parentale con Faletti e famiglia brutta…

  12. Certo, la trasgressione è diventata di massa, e la letteratura che oggi se ne occupa deve schivare un bel numero di stereotipi, costruiti magari sulla base della trasgressione diciamo belle époque.
    Però distinguerei tra stereotipi e rituali: i pattern s/m si basano sulla ripetizione di uno schema, come tutti i riti; la presenza di un copione sempre uguale, o meglio di una liturgia, fa parte del gioco, non può non esserci; se non ci fosse, non ci sarebbe più nemmeno il pattern.
    Allo stesso modo distinguerei tra cliché e dati di fatto. Che una stragrande maggioranza di escort sia composta da soggetti instabili, tecnicamente borderline, non è un cliché, ma un dato di fatto. Chi le frequenta lo sa.

    Quanto a Siti, ecco una sua interessante posizione recente sull’argomento (in linea con quanto dice giustamente GgG):
    http://www.leparoleelecose.it/?p=494#more-494

  13. …ho fatto il solito errore: ho cliccato su invia e non avevo compilato i campi obbligatori; il commento, che rispondeva a DS, principalmente, è svanito. Fra le altre cose gli dicevo che mi sta simpatico etc. Sconforto. Ecco perché le discussioni sui blog mi frustrano. Perché c’è sempre il rischio della caducità… allegavo anche una mini-biblio., e NON su RJ, bensì sul sadomaso come rito in lett. e sul feticismo ecc. Mi riprendo dal nervoso e ritento più tardi… ah, dimenticavo: ecco: evocavo anche gli estratti da Microfictions di RJ tradotti da Franc. Forlani, che ri-evoco. E alludevo a un altro auctor, più consono di Faletti, più appropriato come esempio, all’interno di questa discussione: Carrisi

  14. “Perché noi siamo stereotipi. O meglio, perché la pulsione è, di fatto, un luogo comune. Appartiene a tutti. Il suo è un linguaggio biascicato da centinaia di bocche, tutte a credere di essere le uniche a parlarlo e invece tutte uguali.” – Isabella Mattazzi

    Siamo stereotipi perché non possiamo costruire l’identità se non nella riflessione tra l’io e gli altri. Ma al contrario di ciò che sostiene il brano citato, le persone difficilmente vogliono sentirsi “uniche”, cioè diverse dagli altri. Infatti cercano lo stereotipo con convinzione, e paralellamente detestano la diversità in loro e negli altri. Dopodiché cercano di eccellere dentro le regole dello stereotipo. Insomma non vogliono essere ‘uniche’, ma ‘migliori’ (che è la logica dell’individualismo).
    Una persona che volesse essere unica, che ritenesse che l’individualità è parte della dignità umana, dovrebbe cercare di connettersi il più possibile a persone diverse da lui/lei, e sarebbe strenuo difensore del valore delle diversità. Quanti, quante possono dirsi tali?

  15. Avevo scritto un lungo commento, per mia goffaggine informatica si è cancellato (il che può anche non essere un male). A ogni modo non vedo perché tanto accanimento verso Jauffret e il suo libro, oltrettutto esteticamente godibile nella traduzione a nostra disposizione (barbés). Se tutto è stato sviscerato, detto, scritto, sesso e feticismo compreso, non significa che non se ne possa più dire o scrivere. Importa come. A essre banale non è lo scrittore, ma probabilmente la psiche umana nei suoi moventi fondamentali. E la cronaca è un serbatoio da cui attingere. Non vedo cosa ci sia di male. Si veda ad esempio questa ultima notizia: http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/11_settembre_11/20110911NAZ25_17-1901504662404.shtml. Credo che sia materiale da lavoro per uno scrittore.

  16. No, non è materiale da lavoro per uno “scrittore”. Su quella vicenda lavorerà un magistrato per accertare le responsabilità. Per capire cosa è accaduto basta chiedere a chi di dovere. E’ uscito anche un comunicato dell’associazione Certi Diritti sul punto, cercatelo su google e leggetelo.
    Sulla sessualità c’è una letteratura scientifica in continua evoluzione: leggetela.

  17. tutti che hanno problemi a commentare su NI e GGG ancora latita e noi aspettiamo le discografie complete del fetish: le aspetto davvero.

    Piera Lombardi, non avvicini così veementemente la parola “lavoro” e la parola “scrittore” perché potrebbe produrvisi un effetto stordente per qualcuno. per me per esempio. se poi ci pizza pure il link, mi fa deli(n)quere. lo dico perché delle volte m’è parso di capire da quello che leggevo che gli scrittori non vogliono che il loro lavorio sia chiamato “lavoro”. lo dico per lei. io ormai a forza di leggere leggere leggere e non capire altro niente, ho capito che quelli si potrebbero incazzare… allora non dico d’aver preso le loro parti, questo no, ma alcuni sono simpatici. allora delle volte ho fraternizzato e… via via.

    le scrivo alla fine che secondo me non è vero che tutto è stato detto. né tutto è stato detto bene, né è stato detto male. è solo che MOLTI hanno detto. tutto pi.

  18. Quella è una vicenda atroce; su quel punto sono d’accordo con Andrea Barbieri. Non mi viene da pensare “ecco, questo è materiale per un narratore”, se leggo una notizia del genere (l’avevo già vista, e mi ha raggelato – e ci ho anche visto delle affinità sinistre con gli argomenti di cui si discute qui, ma… ma non sottoscriverei quel che dice PL, che saluto). Ma qui entriamo in un altro tunnel. La letteratura non si è mai tirata indietro quando si è trattato di rappresentare il Male, anche nelle sue forme più banali, non so come dir meglio. Non voglio arrivare a sostenere che uno dei suoi compiti etici (c’è un ethos nel narrare, secondo me, ma temo che sia un’opinione isolata e sicuramente è la mia modestissina opinione)… non voglio arrivare a sostenere che uno dei suoi compiti sia la rappresentazione del MALE. Del male in tutte le sue accezioni, del Maligno, del Mysterium iniquitatis, del male assoluto, del male-banale, della banalità del male, ecc. Ma è sempre accaduto; c’è sempre stata questa confrontation, è sempre stato vivo e in opera questo défi atroce, questo mettersi di fronte al Male, opaco, inscalfibile come un uovo d’acciaio, per cercare di fare qualcosa con le parole. La sfida, si dice sempre, lo scrittore che accetta la sfida: dire il Male (, non so se alla maniera dei fenomenologi o di chi altro; cfr. il saggio di V. Lingiardi sull’argomento ne Il male, Raffaello Cortina, a c. di P.F. Pieri). Non mi metterò a fare la lista, da Bandello (che amava molto i faits divers) e Giraldi Cinzio giù giù fino a Sartre e Du:rrenmatt (La promessa). La sfida è stata tante volte accettata da cineasti di valore… e anche qui la lista sarebbe lunga… ma oziosa…

  19. Vorrei chiedere a Sortino che ne pensa. E soprattutto vorrei chiederlo a Tonon, che ha cercato, con la sua trilogia, di illustrare attraverso i dispositivi del romanzo (uso un’etichetta pratica – poco adatta forse) la teologia tetra e apocalittica di Quinzio. Autore di un Mysterium iniquitatis, per l’appunto.
    Per quanto riguarda la bibliografia, dev’essere primaria o secondaria?
    Bibl. secondaria recente: C. Dumoulié, Il desiderio, Einaudi, nuova ed.; Massimo Fusillo, L’estetica della letteratura, Il mulino, ultimo cap. Devo citare anche quelli in uscita? Un altro titolo di Fusillo e uno di Scotti, su feticismo e letteratura; ma il fetish non ha sempre un rilievo centrale in questi studi. Ciao a tutti; ah ! se latito è solo perché sono sotto consegna. Ma non si tratta di un Jauffret II, ritorno a Ginevra, sul luogo del delitto… :)

  20. (forse più interessante è la rappresentazione dell’erotomania in lett. e cinema). Un solo titolo: L’amore fatale

  21. Per me anche quella è, può essere materia da letteratura. Non c’entra nulla la realtà, la vicenda giudiziaria, che è altra cosa. tutto può essere materia letteraria, al di là delle questioni nominali. Che poi ci siano umani sempre pronti ad alterarsi, ce ne facciamo subito una ragione. Che tutto sia stato detto, non l’ho sostenuto io. Ho accostato i due casi, in quanto casi estremi, in entrambi i casi si tratta di giochi fatti con il consenso degli interessati. La letteratura spesso prende spunto dalla cronaca, registra l’universo di variazioni della psiche umana. Non c’entra il giudizio. Che attiene il diritto o la morale.

  22. Il giudizio attiene al diritto o / e alla morale, ma io contesto da anni la communis opinio che sostiene la totale alterità della letteratura rispetto alla sfera morale. Due mondi separati e distanti, si dice, da una vita. Da qualche tempo (vedi Nussbaum) si ricomincia a parlare delle implicazioni etiche della narrazione e della dimensione etica della letteratura tout court. Jauffret, nel Preambule del libro (Sévère è il titolo originale) riprende la tesi classica sull’amoralità dell’arte. E lo fa anche in modo accattivante. Ma quel manifesto (che lui ha aggiunto dopo che è scoppiato il caso giudiziario) è la cosa che mi piace meno, forse, in definitiva, del libro. Per migliaia di autori si ripete questa litania da secoli: la lett. è una cosa la morale un’altra ecc (varie le variationi). Non sto ovviamente auspicando un ritorno alla lett. edificante, gravida di messaggi, di fini, tesi da dimostrare, cause da supportare. Sto parlando (ma forse con scarca efficacia) delle implicazioni etiche della narrazione, là dove per implicazione etica si intenda ricaduta etica di una récit, in un contesto politico, per es., o su di un terreno limititrofo. Un solo nome: Coetzee. La sua è letteratura, e al tempo stesso ha delle implicazioni etiche, politiche immediate. Immediate, questo è il punto. Ci sarebbero molti altri esempi. Altro punto di intersezione: quando l’etica viene mise en récit, il che dà spesso luogo a un cortocircuito, ad esiti problematici. E allora le implicazioni etiche del letterario non sono più fini, bensì punti critici, non sono affatto messaggi, bensì cicatrici, cesure, confini inquieti. Non penso tanto all’ossessione dell’eco-criticism o alla lett. eco-oriented. Penso piuttosto alla lett. che mette la coscienza del soggetto di fronte al mysterium iniquitatis usando come pietra di paragone la souffrance animal. Come dicono i fenomenologi, i merleaupontiani (si dirà così?): la conscience à l’épreuve de la souffrance animale. Lunga e stucchevole digressione su lett. ed ethos. Declinato alla moderna… Ma partivo da tutt’altro…

  23. (non ho sviluppato come si deve; per stanotte mi arrendo; comunque rispondevo a PL: @PL, ecco, così le regole sono salve: mi spaventa un po’ questo ritorno a un immoralismo di marca neo-decadente, ma – d’altro canto – un po’ mi seduce l’explicit del preambolo: “se insegnate a leggere al vostro gatto, la letteratura ve lo ucciderà”. Dice così? Non ho il libro sottomano (e dire che dovrei conoscerlo a memoria). Mi dà i brividi, ma il tocco visionario mi piace… ora mi allargo, però… pure gli estratti…

  24. forse un estratto del preambolo potrei riprenderlo. Lo ha pubblicato Il fatto quotidiano. Ora cerco sul sito in rassegna stampa

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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