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NON VACCINATI. Viaggio in Calabria fra i migranti delle grandi opere

[ Foto di Simona Baldanzi ]

di ⇨ Simona Baldanzi

E sognavo di partire
di trovarmi in un bel posto
per poter riaprire
quel cassetto ormai nascosto
Ma non ho più la mia città,
Gerardina Trovato

Questo è un racconto sulla festa dei minatori di Pagliarelle, in provincia di Crotone. Natalia, Marzia e Stefano sono miei compagni di università che hanno seguito le vicende dei lavoratori dei cantieri in Mugello e che vennero con me in Calabria nell’agosto 2006. ⇨ Pietro Mirabelli a quel tempo era minatore lancista per Cavet, Rls e Rsu del cantiere il Carlone in Mugello.

   Appena passato il cartello di Nola, vedo una bandiera dell’Italia ormai lisa sopra un tetto, che sta per perdere un lembo, quello rosso. La serie di cartelli gialli dei lavori in corso ci riempie gli occhi. Guardiamo le gru che sono braccia nude e attaccati al filo i macchinari che ciondolano nel vuoto come enormi orecchini.
   «Chissà perché sono sospesi» chiede Natalia.
   «Perché sennò li rubano» risponde Marzia.
   Siamo sulla Salerno-Reggio Calabria, chilometri a una sola corsia con continue curve. Un cantiere serpente. Fa impressione leggere le innumerevoli targhe che indicano che i finanziamenti vengono dall’Unione europea.
   Sulla sinistra a un certo punto vedo Sarno e le ferite della sua montagna. Mi vengono in mente quelle morti e quel fango, che sembrava sbavare sullo schermo della televisione. La cappa del caldo mi preme sulla testa. Nell’auto non abbiamo l’aria condizionata. Marzia e io sediamo dietro. Stefano guida e non vuole cambio. Natalia sta davanti e fra le gambe tiene Divo, il suo cane, che ogni tanto si affaccia al finestrino per prendere aria.
   Usciamo a Cosenza. Girovaghiamo intorno all’università sbagliando strada. Alle rotonde vendono cappelli di paglia e tappetini e cerchioni per auto e mi domando chi è che si ferma in una strada che curva continuamente.Come può succedere senza incidenti? Come è che nessuno interviene?
   Mi appunto i cartelli che leggiamo. «Alt! Menù del giorno. Ristorante Ciccio Mele. Sierra del Fiego. Elettrosud costruzioni elettriche. Maccarrone arreda. Casa protetta Carusa (casa di riposo)».
   La Sila è bella, con dei boschi fittissimi, il fresco e un’aria profumata che è tanto che non ne senti di odori così. Però poi avverti la prepotenza dell’uomo, i tanti obbrobri che ha costruito. Strade torte, senza tante insegne, ulivi, terra, vecchio asfalto, buche. Vediamo un uomo lungo il bordo della strada.
   Marzia chiede: «Questo che fa, piange?»
   Natalia: «O piscia?»
   Stefano: «O tutte e due contemporaneamente?»
   La macchina è invasa da risate fragorose che poi vengono inghiottite da silenzi pensierosi.
   Arriviamo a Pagliarelle che è sera. Marzia, che non c’è mai stata, è attaccata ai finestrini a guardare il degrado delle case. Vede dove sono costruite, come rimangono non finite, con quelle colonne di ferro e cemento che paiono braccia a chiedere aiuto.
   Il paese è fatto di sali e scendi, di strade contorte senza seguire un disegno, una pianta. Stiamo per fare una piccola salita, ma sentiamo rumori di trombe e tutti uomini da un bar che si sbracciano, che ci fanno segno di fermarsi e aspettare. Arriva un tir senza rimorchio che non si sa come faccia a passare da quella stradina stretta. È un tir rosso fuoco con attaccati nastri bianchi. La sposa si affaccia salutando con la mano come fosse in carrozza.
   Riproviamo a fare la salita. Sfrecciano macchine e motorini, con sopra ragazzi senza casco. Passa un’altra auto. Noi ci fermiamo, ma loro vanno troppo spediti. E le due auto si sfregano.
   Ci fermiamo. Guardiamo i danni, ma fortunatamente solo pochi graffi. Sono due ragazzi giovani. Stefano prova a dire ai due dell’auto che noi avevamo la precedenza, ma uno dei due ci guarda duro e ci dice: «È 24 anni che sto qua».
   Qua vale la legge di chi da più tempo ci sta. Qua vale la loro legge. Qua noi non valiamo nulla.
   Una piccola folla del paese si è adunata. Ci girano intorno con i motorini e le sgassate sono puzzolenti ruggiti. Qualcuno ci guarda masticando insistentemente un chewingum. Arriva Pietro. Vocia qualcosa in dialetto. Le espressioni di tutti cambiano. Pacche sulle spalle. Siamo diventati ospiti, non più estranei.
   L’auto la mettiamo nel garage a casa di Pietro. Salutiamo Mena, la moglie di Pietro, Walter e Gabriele, i due figli.
   Ceniamo. Sapori che ricordavo: queste cipolle e questi pomodori così dolci, i supplì col riso, la carne, il vino della loro vigna, le olive. Mangio talmente tanto che qualcosa mi rimane sullo stomaco e la notte sogno di avere dei chiodi nella pancia e che togliendoli mi rimanevano i buchi.
   La mattina andiamo in piazza Caduti sul lavoro. C’è fermento. Anche il monumento ai caduti sul lavoro è addobbato a festa: intorno ai pioli delle scalette ci sono attaccati tanti caschi da lavoro colorati. Sembra che lo sguardo del minatore di bronzo, mentre esce dalla galleria, sia più sollevato. La mano che usa per proteggersi dalla luce del sole pare una carezza al cielo e un saluto.

[ Monumento ai caduti sul lavoro in miniera. Foto di Simona Baldanzi ]

   Alcuni uomini stanno montando una galleria di grate per entrare nella piazza. Qualcuno ci riconosce e ci saluta.

[ Preparazione della festa del minatore. Foto di Stefano Pighini ]

   Un lavoratore stappa una birra col metro da muratore, quello che usava mio nonno e che da piccola mi piaceva aprire per disegnare forme geometriche con quelle stanghette di legno bianche, gialle e rosse. Parcheggiato in piazza c’è un Fiat Lupetto verde del Comune di Petilia Policastro con un ferro di cavallo sulla grata, come un anello nel muso. Altri lavoratori arrivano con le canne di bambù, che servono da pali. Si muovono tutti velocemente, scherzano, vociano, ci stringono la mano. Non hanno bisogno delle nostre deboli braccia.
   Pietro sta sistemando le bandiere. C’è l’arcobaleno della Pace, le bandiere della Cgil Fillea, quella dell’Italia, e quella blu dell’Europa che è un pugno allo stomaco su quel grigio.

[ Pietro Mirabelli in piazza Caduti sul lavoro. Foto di Stefano Pighini ]

   I bambini fermano continuamente Natalia che ha Divo al guinzaglio. Le chiedono di che razza è e poi se è vaccinato. Solo dopo accarezzano il cane. Capiamo dopo il motivo della reticenza e delle domande: qua ci sono tanti cani randagi e hanno paura.
   Facciamo un giro nel paese. Facciamo vedere a Marzia la scuola media e poi il campo da calcio scavato ai piedi di una collina, il Galaxi Stadium fatto di fango. Intorno al perimetro del campo hanno tirato su un muro basso di blocchi di cemento. Non serve a niente se non a giustificare un minimo i soldi che hanno preso per sistemarlo.

[ Scuola media di Pagliarelle. Foto di Simona Baldanzi ]

   Pietro oggi è contento. È soddisfatto che arriverà un po’ di gente importante, amministratori e sindacati anche qua, in un paese lontano dalle decisioni. Ci mostra il manifesto della festa dei minatori. Ci mostra le spille che daranno a tutti. Pala e piccone incrociati: è il simbolo internazionale dei minatori. Ne metto una sulla maglia e mi chiedo perché non è mai diventato un simbolo di lotta come il martello, la falce, il pugno, le sagome delle fabbriche e delle ciminiere.
   Nel cortile, assonnati e appesantiti dal pranzo, Stefano, Natalia, Marzia e io ci mettiamo a giocare scrivendo dei versi che Pietro vuole per la festa.
   

Minatori di Paglierelle
   
Di Paglia un tempo
era il tuo giaciglio
partisti al Nord
senza crescere tuo figlio.
   
Tu minatore
di roccia e di sudore
scavi la terra
per tornare al sole.
   
Tra piccone e martello
la schiena pieghiamo
ma la dignità del lavoro
non la sacrifichiamo.

   
   Pietro non pare entusiasta e neanche noi. Appallottoliamo il foglio. Non riusciamo a trovare altri versi. Marzia e Stefano vanno a fare un giro a Pagliarelle vecchia. Natalia e io abbiamo altri programmi, vogliamo farci i capelli. Appena sopra casa di Pietro c’è la parrucchiera. È in un garage. Ha un arredamento un po’ anni sessanta. Ha una bimba biondissima che sembra Riccioli d’oro e si chiama Naomi, come Naomi Campbell ci dice. La parrucchiera, ci spiega Mena, è di origine francese e qua ha imparato solo il dialetto. Aspettiamo un po’ sulle poltrone perché domani c’è un altro matrimonio e quindi i clienti abbondano. Il mese dei matrimoni qua non è maggio, ma agosto, quando tutti rientrano per le ferie e possono festeggiare. Agosto è da sempre un mese vivo, di ritrovo, di famiglia e di allegria.
   La parrucchiera mi fa accomodare. Mi lava i capelli velocemente. Mi chiede come li voglio. Sì, li vorrei tagliare. Lei fa una strana smorfia. Tagliare sì, ma non troppo. Le donne devono avere i capelli lunghi, corti non sono a modo. Me ne taglia un pezzettino e mi fa vedere se va bene. Scuoto la testa in un sì.
   Alle pareti non ci sono le foto delle acconciature moderne, ma volti di donna disegnati, come andavano un tempo. L’aiutante, vicina di casa, spazza e commenta: «Adesso abbiamo anche i capelli di Firenze».
   Natalia, che mi guarda dallo specchio, sorride.
   C’è anche Mena a vegliare sul nostro taglio di capelli. Ogni tanto riprende il dialetto della parrucchiera che sembra un po’ scocciata. «Perché chisto non si dice?».
   E Mena: «Questo, si dice questo!».
   I capelli vengono bene e quando paghiamo con dieci euro a testa sembra proprio che tutti qua stiano recitando su un set cinematografico di minimo quarant’anni fa.
   La sera c’è la festa, prima di quella ufficiale. Mangiamo la porchetta che si scioglie in bocca, tagliata direttamente dalle mani di tutti questi minatori emigranti al Nord, che hanno tirato su l’iniziativa insieme a Pietro.

[ Volontari per la Festa del minatore di Pagliarelle. Foto di Stefano Pighini ]

   Sul palco si alternano cantanti e cabarettisti. Sembra che qua sappiano tutti cantare. Sembra di vedere quello che si vede negli spettacoli in tv. E proprio le bambine sono le più accanite. Natalia, Marzia e io siamo in gonna, ampia, che magari ci scappa una vecchia tarantella calabrese, ma invece niente. Tutti ci chiedono se siamo sposate e se abbiamo figli. Alla nostra età tutto il resto del paese è «sistemato». Non siamo né sposate né abbiamo figli. Non ci fanno altre domande, il resto non ha importanza. Solo, di nuovo, ci chiedono se il cane è vaccinato.
   Una ragazza dal palco dedica una canzone a tutte le adolescenti del paese, quella di Gerardina Trovato, La mia città, che parla di una ragazza del Sud che emigra, ma le ragazzine vogliono tornare a ballare e non stanno attente. Poi ci dicono che vogliono andare a Roma, a Milano, su a Nord.
   «E Firenze come è?» ci chiedono tutte eccitate.
   Inaspettatamente canta anche Pietro e ci fa emozionare: ti baciavo le labbra e io di rabbia morivo già, e poi, mi dispiace devo andare. Due ragazzi cantano qualche canzone biascicata in inglese e anche Bella Ciao. Le donne sedute con noi sui gradini del monumento ci fanno un po’ da cordone, ci tengono «dentro» alla loro cerchia, mentre gli uomini stanno agli stand delle cibarie.
   Andiamo a letto e il grillo che sento cantare nel corridoio rimbomba. Capisco tutto l’odio di Pinocchio.
   La mattina ci svegliamo presto. La meta è il mare, verso Steccato di Cutro. Gabriele e il suo amico Pasquale ci indicano la strada, poi proseguono per andare a prendere un giornalista della Rai che viene alla festa. Pietro è rimasto a organizzare tutto, ad accogliere le autorità e la gente che conta per la serata.
   Ci fermiamo a comprare della frutta e il giornale perché a Pagliarelle non c’è edicola, non ci sono negozi. Mena ci ha detto che va a Crotone al centro commerciale a fare la spesa, a 40 minuti da casa.
   Parcheggiamo in una pineta a ridosso della sabbia. Chilometri di spiaggia libera. Il mare è una tavola verde-azzurra bellissima. Non si muove neanche una piccola onda. Una cartolina immacolata. Mi va di nuotare e muovermi, ora che c’è un orizzonte vasto, ora che qua niente soffoca e niente si nasconde. Il sole batte, ma anche la spiaggia è un piacere, fatta di piccolissima ghiaia. Sentiamo intorno a noi solo accento calabrese. Sembra non esserci nessun turista tranne noi. L’acqua è un continuo richiamo, ma notiamo che alcuni si avvicinano fin troppo alla riva con moto d’acqua e motoscafi senza alcun controllo, così decidiamo di uscire dall’acqua e non tuffarsi più. Ci dicono che vanno così le cose, che non c’è molto rispetto su questa spiaggia. Per ferragosto hanno buttato giù qualche pino per fare il falò.
   Andiamo verso la punta, a Le Castellana. Fa molto caldo. Stefano guidando passa da alcuni muretti semicrollati e commenta che a tratti gli sembrano strade di Bagdad. Arriviamo al paesino. Il castello è bello, qua è riserva marina e un po’ di turisti ci sono. Guardiamo nei negozi, prendiamo un gelato, ma la cappa continua a schiacciarci. Compriamo una pianta per Mena. Trovo le maschere che scacciano gli spiriti maligni e un anello con tanti peperoncini di vetro attaccati.
   Torniamo a Pagliarelle. Facciamo la doccia e siamo di nuovo in piazza. È irriconoscibile. Ci sono più bandiere del giorno prima, un nuovo palco per la Tavola rotonda sotto la statua dei minatori, un palco incredibilmente grande per il concerto, un tavolone dove porteranno da mangiare. Sarà infatti sommerso da quello che porta la gente; come ha esortato ieri sera dal palco Pietro: «Vengono tanti da fuori. Pagliarelle non deve scomparire, facciamogli vedere!». Riconosco l’orgoglio dei minatori calabresi. Sui pannelli in piazza c’è una mostra di foto e documenti, sia dei lavori dell’alta velocità nel Mugello, sia dei lavoratori del passato. A confronto vecchi e nuovi migranti dalla Calabria. In giro si continua a bere la Brasilena, la bevanda al caffè tipica calabrese. Arrivano sindacati e amministratori. Un parlamentare dal palco usa parole che non sentivo dagli anni cinquanta: «Grazie ai vostri suffragi mi capita a Roma di fare cene con imprenditori…». I sindacalisti promettono lavoro, indicando la salvezza nelle grandi opere: «Più buchi, più gallerie per tutti».
   Tutti hanno la spilla con il piccone e la pala e sento che si parla di modernità come di uno straccio magico che toglie la polvere. Vedo gente immobile che ascolta. Una corona poggiata al monumento e poi l’inno d’Italia. Suona la banda, composta tutta da donne perché gli uomini per provare non ci sono mai. Lavorano tutti lontano dalla Calabria.
   La festa è un subbuglio. Si mangiano cose buonissime e piccantissime. Adoro il prosciutto col peperoncino. Vino e ancora vino. Un minatore mi riconosce e mi dice che me ne sto sempre seduta in terra, come quando andavo da loro a mensa, e mi fermavo fuori sui marciapiedi a intervistarli per la mia tesi. Gli sorrido. Una donna mi chiede se sono straniera. Secondo lei parlo italiano con uno strano accento.
   Il concerto inizia e poi anche i fuochi d’artificio, fatti partire proprio appena sotto la piazza, da dietro il nastro adesivo a pochi metri dalla folla.
   La mattina seguente lasciamo Pagliarelle. Salutiamo Pietro. Lui partirà la notte successiva, per tornare a lavorare dalle nostre parti. Fa impressione pensare che fa quella strada una volta ogni tre settimane, quando ha tre giorni liberi per scendere dalla Toscana alla Calabria. A noi invece ci basterà come esperienza per parecchio tempo. Il nostro viaggio infatti sarà un incubo di 14 ore di caldo, sete, code, sudore, attesa, stanchezza. Ripensiamo alla Calabria che continua a emigrare, alla Salerno-Reggio Calabria come un gigantesco tapis roulant rotto che li vede passare.
   Divo ansima, ma pare resistere. Noi non siamo vaccinati a tutto questo. Ci verrebbe da mordere.
   

   
   
   
Simona Baldanzi
MUGELLO SOTTOSOPRA
Tute arancioni nei cantieri delle grandi opere
[ pag. 112-124 ]
EDIESSE [ 2011 ]
   
   
   
   
   

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1 commento

  1. Ho provato a spostarmi a Nord Italia Torino cercando un qualsiasi lavoro per ricominciare dopo essere stato licenziato senza giusta causa ma per crisi aziendale e soppressione del posto di lavoro.

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