Ricordo di Ghérasim Luca

di Claire Trean

trad. di Carlo Carlucci

Gherasim Luca apparteneva alla piccola schiera degli amici di Anne Zamire. È grazie a lei che Jacques (Bertoin n.d.t.) lo ha conosciuto agli inizi degli anni settanta. Luca strinse subito amicizia con lui. Ed è proprio Luca che è citato in Moins Cinq (pag. 49) là dove Jacques narra del suo apprendistato come scrittore e del suo imbarazzo quando gli si chiedeva di che cosa scrivesse: «Sai, Jacques, uno scrittore di quelli veri, un giorno seppe porre fine al mio stato di incertezza, concludendo per me: “Allora stai scrivendo dei tuoi drammi?”»….
(Ecco mi pare di risentire ancora oggi quella bella voce dai toni gravi di Luca che ritma questa frase corta sulle tre ‘r’ che contiene, mentre il suo sguardo intenso, sorridente e benevolo, avvolge il suo interlocutore. Ti ricordi, Carlo, la maniera assai particolare che aveva di rivolgersi a voi? Ci metteva tutto il suo essere, dava l’impressione di essere fisicamente coinvolto nel dialogo, fosse anche il più insignificante, di essere totalmente preso, totalmente offerto nella relazione con il suo interlocutore non fosse anche che per poche parole scambiate.)
Gherasim Luca viveva in un minuscolo appartamento in un piccolo e antico edificio, assai modesto, in via Joseph de Maistre, a Montmartre. Pagava poco di affitto e ci viveva assieme alla compagna della sua vita, Micheline Catty, che faceva la pittrice. Sembrava una piccola grotta di Alì Babà, dove si ammucchiavano libri e quadri e dove il visitatore doveva muoversi con molta precauzione, dato che i passaggi erano stretti e ingombri, ma dove, miracolo dell’amore e dell’intelligenza per lo spazio, i due si erano ricavati un reciproca dimensione di grande libertà, quella di creare. Questa specie di antro era a tutti gli effetti un prolungamento del suo essere, rigurgitante di ricchezze spirituali e di cose belle, dove ogni centimetro quadrato gli era familiare, amichevole, consustanziale.
Un giorno, all’inizio degli anni novanta, sono arrivati i cosiddetti speculatori immobiliari: la casa si trovava proprio sulla Butte Montmartre, a due passi dalla pittoresca rue Lepic, il luogo prometteva lauti guadagni e il piccolo, desueto edificio a tre piani era anacronistico. Dunque fu acquistato dalla macchina immobiliare e destinato alla demolizione. Gli inquilini naturalmente sarebbero stati sistemati altrove in appartamenti più spaziosi, più confortevoli, senz’anima. La cosa andò avanti per mesi: minaccia di sfratto, speranze di farcela e infine la sconfitta. Nella lettera d’addio per Micheline prima del suo suicidio, Luca scrisse «non c’è più posto per i poeti in questo mondo».
Questo mondo lui lo percepiva con molta intensità. Questo mondo si estendeva infinitamente più in là di via Joseph de Maistre per questo apolide per principio, per natura, che ancora viveva senza documenti in Francia da più di quarant’anni. Ma nel momento in cui, dalla sua tana-osservatorio nella via Joseph de Maistre, registrò con terrore il risveglio della cosa immonda, dell’antisemitismo, del razzismo, ecco che nello stesso tempo viene sfrattato, strappato dal suo mondo, e aveva ottant’anni.
Ricordo uno dei suoi recitals al Beaubourg, la sua voce affannata, a scatti, quasi balbuziente, che disarticolava le parole facendone nascere altre e con ben altri significati, una voce ora sussurrante ora tonante, rattenuta e spiegata, ammaliatrice, il suo corpo immobile, teso all’estremo, quel suo corpo che si faceva voce, la sua voce che disfaceva le parole per tentare di rifarne altre. Il suo fare tragico, quell’energia sovrumana che improvvisamente dispiegava per cercare di uscirne.
Nell’avventura di questa sua poesia (scritta) chiedeva l’aiuto di amici artisti, Jacques Herold, Wilfredo Lam, Piotr Koswalski, per illustrare i suoi libri o farne dei libri-oggetti, assemblati con minuzia di orefice e pubblicati da Josè Corti o da Le Soleil Noir. Era invitato a tenere le sue letture a Amsterdam, Copenaghen, New York, aveva un suo pubblico fedele e appassionato, giovani per lo più, ma vendeva poco.
Luca proveniva da quella Romania prebellica che aveva prodotto gli Tzara, i Brancusi, gli Ionesco, tanto per citarne qualcuno, assieme al pittore Victor Brauner e al poeta Paul Celan, questi ultimi due tra i suoi amici più intimi. Nel suo status di apolide viveva a Parigi in dignitosa povertà.
Assieme alla sua arte, assieme alla bellezza dei suoi canti letteralmente scolpiti, mi colpiva la stessa presenza fisica di quest’uomo, ormai avanti negli anni quando lo conobbi, piccolo e un po’ curvo, dal volto ossuto e dallo sguardo radioso. Ero altresì colpita dall’intransigenza con la quale difendeva l’indipendenza del suo pensiero, della sua poesia, della sua vita. Tanto per fare un esempio, aveva rifiutato non so che elargizione o premio che fosse, decretatogli dal ministero francese della cultura, in quanto non accettava nessuna forma di dipendenza. Ha vissuto i suoi ultimi anni sotto una vera e propria persecuzione, attentato alla sua dignità di uomo, dato che uno speculatore qualsiasi aveva potuto privarlo della sua povera abitazione. E come vera e propria tragedia, da cui non si sarebbe ripreso, visse il risorgere, nella sua Francia, dell’estrema destra, antisemita e razzista. Una vera e propria ossessione che «potesse ricominciare», un’ossessione che ha pesato, come aveva pesato per Paul Celan, sulla sua decisione di finire in suoi giorni nella Senna.
La cerchia degli amici di Anne Zamire era quindi composta da Luca e dalla sua compagna Micheline, da Giséle Celan, che era stata la moglie di Paul Celan, dalla pittrice Irene Dominguez, tornata a vivere a Parigi dopo il golpe in Cile nel 1973. Spesso a pranzo c’era Boris, padre di Anne. Boris Bovine Frenkel era anche lui una figura anomala: un vecchio signore un po’ truculento, dai folti baffi bianchi, di spirito bundiste (movimento operaio ebraico che non si identificava né con il marxismo né col sionismo, e che interessò Russia, Polonia e paesi baltici n.d.t.), di orientamento decisamente anarchico. Boris era un pittore il cui universo ricorda quello di Chagall e che fu a suo tempo critico d’arte nella rivista in Yiddish UnzerStimme. Boris e Luca si volevano bene, volevano bene a Jacques che li ricambiava. Questo è tutto.


Claire Trean

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Renée Vivien – “Saffo ‘900”

L’ardente agonia delle rose. Antologia poetica – nella traduzione di Raffaela Fazio (Marco Saya Edizioni, 2023) Dalla nota introduttiva della traduttrice: La...

La circolarità del tempo in Eos di Bruno di Pietro

di Daniele Ventre Un immagine degna del Virgilio delle Georgiche, evocatore dell’ossessivo canto delle cicale, apre il quadro meridiano di...

Ovidio – Metamorfosi – Libro I

traduzione isometra di Daniele Ventre LIBRO I L’animo spinge a narrare di forme che in corpi diversi mutano; questa mia impresa,...

Esiodo – Erga – Le età dell’uomo (vv. 109-201)

trad. di Daniele Ventre Aurea prima una stirpe di uomini nati a morire fecero i numi immortali che hanno dimore in...

Teognide – Elegie – Libro I, vv. 1-52

trad. di Daniele Ventre
Figlio di Leto, signore, rampollo di Zeus, di te mai,/sia che cominci o finisca, io mi dimenticherò,/ma di continuo, al principio e da ultimo e anche nel mezzo/ti canterò: però ascolta, offrimi prosperità.

“L’Arbulu nostru” di Giuseppe Cinà

di Daniele Ventre
L’àrbulu nostru (La Vita Felice ed., gennaio 2022) non è la prima prova poetica di Giuseppe Cinà, che per i tipi di Manni aveva dato alla luce,...
daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: