Ultima rumba en la Habana

di Fernando Velásquez Medina

(un passo del caliente “Ultima rumba all’Avana”, di Fernando Velásquez Medina, Il Canneto Editore, 2014, 15 Є, nella bellissima traduzione di Marino Magliani)

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Il mare scintillava qua e là catturando le luci imprudenti della costa e lo stanco raggio del Morro. Lui camminava al mio fianco, il primo cliente conquistato da quando ero uscita di galera. Ero così nervosa che mi tornò in mente la “prima volta” vera, che fu anni fa, quando il Fato mi sorrise con le labbra di un marinaio greco e io, ingenua come sono, mi sentii una Circe. Oggi ho lo stesso brivido fra le cosce, più voglia di orinare che pulsione sessuale, mentre la sensazione di avere accalappiato un maschio mi fa gonfiare i piedi, vittoria di poco conto sulla concorrenza di ninfette setose, ragazze di scuola media alle quali il clima regala troppo presto forme tropicalmente oscene; mi guardano con ironia dai loro troni di regine della notte cubana, mentre fanno coro intorno ai turisti. Vedo una faccia amica: Yahama, cinesina figlia di una mia amica, quattordici anni spesi male, accarezza l’interno coscia di un signore, gli chiede dollari e chewing-gum. Davanti a noi, nel parco Maceo, un cartello proclama:

I giovani sono in marcia verso il 2000

Ci daranno il cambio: è una certezza

Entrare nell’hotel, in quell’enorme salone che fa le veci di reception e ha quell’aria di lusso anteguerra – la loro guerra, quella degli europei padroni del mondo, e non quella dei nostri scipioni africani, e nemmeno la triste guerriglia pompata che imbibisce i nostri calendari – mi dà un’euforia da alcool mischiato con funghi allucinogeni, un esplosivo che bevvi insieme a un messicano amico – di chi? – pochi mesi prima che mi spedissero in prigione. L’ascensore ci sbarca su un piano di quelli uguali a tutti gli altri, fatti in serie, e percorriamo un corridoio. Me lo ricordo – memoria fotografica – identico a quelli del Palazzo d’Inverno russo. La camera fa calare il mio nervosismo: letto comodo, bevande passabili, un Dom Pérignon che ispira qualche sospetto al Vassari che, immerso nella luce tenue che la luna ci mette a disposizione, si domanda come mai questa facile donna caraibica non beva rum ma preferisca bevande costose e civilizzate.

Ma la nerchia di Giovanni già si rizza, libera dal pur minimo impaccio delle mutande, e mi schiaccia con le chiappe contro il materasso, mica poi tanto morbido, chi l’avrebbe detto. Apro le gambe e afferro la chiave per confrontarla correttamente con la mia toppa, mentre lo sfregamento del vello pubico mi porta alla memoria la lingua della China (non il mandarino, ma proprio la lingua della mia mandarina: la mia sorvegliante in prigione). I movimenti spastici mi sfiorano la coscienza, il ricordo della sergente con i seni penzolanti sulla mia faccia, i capezzoli scuri nella mia bocca, i lievi morsi sul collo e la voce rauca che ordina: «Ficcami dentro un dito, buona a niente!», tutto questo porta la mia mano incosciente alla fossa dell’uomo, e il dito che finora gli aveva solo accarezzato l’ano sprofonda di colpo nella sua intimità. Un odore acre e un grido mi trattengono in allerta: per qualche secondo ogni movimento resta sospeso, guardo il volto alterato dell’italiano, e proprio allora lui comincia a pompare con inaudita forza e sento una gran gioia che percorre tutto il mio corpo per andargli incontro. Adesso sono due le dita che gli ho infilato in profondità; lo faccio stendere, gli mordo il petto, lo accarezzo dentro mentre lui quasi sviene e le dita sono come serpenti allacciati in fondo a una buca stretta che si con trae più volte quando lui viene: «Aaaah!», e resta lì, disarticolato come una bambolina sul letto.

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2 Commenti

  1. Grazie Giacomo. Poi un altro paio di grazie. Coi cubanismi mi hanno aiutato una mano Gordiano Lupi e Riccardo Ferrazzi. Anzi, se lo ritieni davvero ben tradotto, diciamo pure che quanto a soluzioni, senza esagerare, Riccardo è stato un vero e proprio Our man in Havana.
    Fernando Velázquez Medina è un dissidente cubano, vive in America, Ultima rumba en La Habana è considerato un capolavoro del realismo sucio cubano.

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giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016) e Baco (Exorma, 2019). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese.
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