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Dialogo di un poeta e di un narratore sull’ineluttabile

di Fabio Donalisio e Paolo Morelli

Poeta: Dopo la visione, qualche mese fa, di Foglie al vento di Aki Kaurismaki sono stato colto da una sorta di epifania. Una di quelle cose, se vuoi lapalissiane, ma che la pratica del mondo, specie oggi, piega a un precoce arrugginire, incrosta di malumore e di quello che potrei definire una sorta di sfinimento preventivo (prodromo della Disperazione Diffusa, ne parleremo): la possibilità di non essere una merda nonostante il male (e il lavoro, e il potere, etc.). Una possibilità di kalokagathia, di “approssimazione del bello al bene” che, ovviamente, è ben più di un’estetica (anche se già solo come estetica porterebbe notevoli miglioramenti). Che, peraltro, mi ha ricordato nel tuo libro Sragionamenti sull’anarchia il refrain della “interminata” definizione del Guasto anarchico: “se non il tentativo più nobile che ha tentato la forma umana, almeno di gran lunga il più sincero”…

Narratore: Secondo me Kaurismaki in questo momento si porta sulle spalle un duro destino, quello di chi intravede un pertugio di scampo, per l’arte in generale ma ovviamente non solo, visto che la possibilità che propone e mette in pratica è una riconsiderazione del gesto artistico come capacità di fare mondo, così si diceva una volta. È un destino di solitudine spirituale, lo intravede pur sapendo benissimo che in giro invece vige e impera l’aria impellente di farla finita, e il più presto possibile. È una visione che abbisogna di una smisurata passione per il mondo e, proprio al medesimo tempo, la capacità di un distacco dell’orizzonte, e qui siamo già a quello che ho cercato di individuare nel mio libro. Ci viene tutto più chiaro se confrontiamo il film di Kaurismaki con quello di Wenders uscito più o meno in contemporanea: Perfect days è un bel film, senza dubbio, forse più “bello” addirittura, ma non va altrettanto a fondo, non ci riesce perché resta invischiato nelle migliaia di stratificazioni estetiche e intellettuali. Quello che ci regala Kaurismaki è la considerazione, rischiosissima, che l’arte per secoli, forse dal Rinascimento in poi, ha percorso ed esacerbato e rivendicato il distacco della coscienza umana dalla natura, con l’invenzione della figura dell’autore per esempio, sconosciuta fino al Medioevo in questa forma e che ha condotto man mano alla possibilità di una divergenza morale tra l’opera e il suo autore, soprattutto da Goethe in poi. O con la libertà del “non è bello quel che è bello ma quel che piace”, che per lungo tempo è stata assai efficace nel creare la coscienza individuale come luogo dell’emancipazione e quindi ci pare l’unico modo possibile, ma ora, in questi tempi esiziali, si sta rivelando una falsa libertà. Aki può farlo grazie al fatto di essersi coltivato come amante delle cause perse.

P.: “Capacità di fare mondo”: credo che sia davvero questo uno dei punti fondamentali dell’esilio imposto da quella che potremmo chiamare Nuova Atrofia; per i profeti dell’atrofico, anzi, anche solo la possibilità non dico di una sintonia, ma di una prossimità con il mondo – e quindi con la capacità, la “potenza” (in senso aristotelico) fantastica – è considerata catastrofica. Da qui la neolingua della Disperazione Diffusa (perdonami il gioco degli acronimi, ma il tempo, anzi l’Era, lo favorisce, quasi pretende) che è sempre e comunque una lingua di allontanamento dalle proprie possibilità di esistenza; di vita, in ultima analisi. Non ho visto il film di Wenders, ma ne (ri)conosco la perfezione: una condizione, oggi, di patente sterilità. Ebbe un senso – estetico, etico – come recherche, in altri contesti. Oggi è anche lei, e senza esserne consapevole, uno dei Linguaggi della Lontananza. Odio citarmi, ma mi sale in mente un mio vecchio verso del libro delle cose: quando l’odio giunge a perfezione/resta perfetto. E qui è quasi scintillante l’evidenza dell’aria impellente di farla finita. Stavo rileggendo, per quelle forme di perversione che ogni tanto mi colgono, quel libro che tanto voleva essere maledetto, ma che di fatto fu chiacchierato solo dai funzionari editoriali, che si chiamava La distruzione. Di tal Dante Virgili, così all’anagrafe. Il Saggiatore l’ha ripescato qualche anno fa (appiccicandogli una prefazione di Saviano, così per non farsi mancare nulla). Dichiaratamente nazista e sadico. Di un nichilismo intemperante quanto frigido. Non so se ti ricordi quella storia. Al di là di tutto il discorso (che mi annoia alquanto anche solo pensare) sul quid (e al di là del fatto che oggi un libro dichiaratamente nazista sarebbe democraticamente normale), mi ha angosciato il fatto che, pur parlando di bombe atomiche e crisi di Suez, i proclami di quel massimalista della volontà di potenza fossero di fatto assai simili agli stitici singulti dell’Atrofico contemporaneo. Anzi, nelle sue forme liquide e ibride, il cupio dissolvi è oggi più efficiente che mai.

N.: Fare mondo era l’ambizione a organizzare modelli di esperienza, quindi ambire a non avere nel proprio lavoro dell’arte nulla di arbitrario. Se poi si trattava di un racconto letterario significava assumere i crismi del rituale per sentirsi parte di una socialità, in quella specie di conversazione universale come si poteva sognare la letteratura. Il Mondo Nuovo invece che ci si impone ha due nemici giurati: l’esperienza diretta, quella di prima mano e la fantasia se ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della vita come nell’arte. Per me la voglia irrefrenabile di morte è abbastanza sotto gli occhi di tutti ormai, solo che si nasconde subdolamente, per esempio nella continua promessa irrazionale di palingenesi che Horkheimer e Adorno già avevano visto ai loro tempi. L’illuminismo ha trovato finalmente la strutturazione mistica che gli serviva nella teologia e teocrazia tecnologica. Nel mio libro propongo un gioco macabro, sostituire la parola Nuovo nella pubblicità o Futuro dei politici con la parola Morte. Forse si dovrebbe partire dalla parola ineluttabile invece, che nell’etimo si porta appresso la inanità nel lottare che ci ha preso, perfino per sottrarci al destino gramo che ormai tutti intuiscono sebbene ognuno si impegni a far finta di no, politici e intellettuali in primis perché la fede è ineluttabile. L’anno scorso è uscito un libro di Jonathan Franzen intitolato E se smettessimo di fingere? Si riferiva all’apocalisse climatica, ma il discorso si può estendere. Si può partire solo da lì, tutti i distinguo ulteriori sono fetenti. Ma a quel punto che fare? Nessuno può reggere la pressoché totale solitudine. Per almeno provarci secondo me bisogna addestrarsi, e senza nemmeno sapere tanto bene perché, io lo chiamo addestramento etico e certo non importa dove si vanno a trovare gli esempi e gli esercizi. Eravamo al cinema e possiamo tornarci: in quei film sia Kaurismaki che Wenders, con sincerità diverse come abbiamo visto, fanno dichiaratamente riferimento al regista giapponese Yasujiro Ozu, vale a dire a quel procedimento di pensiero che ha utilizzato in tutto il suo lavoro. Lo stesso ha fatto Jim Jarmush più volte, in Paterson ad esempio. Per me è quella la via da seguire, quella che può esserci utile magari per reagire, perfino per porci qualche obiettivo smisurato al di là di ogni speranza di conseguimento, come diceva Calvino nelle Lezioni Americane, altrimenti l’arte diventa stretta alleata della morte com’è oggi e senza nemmeno saperlo, tanto è priva di senso. E invece, nonostante la sbandierata globalità, la spocchia di umanesimo residuale si rifiuta di prenderla in considerazione siccome orientale. Trovo parecchio idiota che uno a cui vanno a fuoco i capelli non si butti nel lago solo perché è oltre confine. La nostra amica filosofa Brunella Antomarini ha scritto qualche anno fa un libro importante sulla attuale deriva umana, Le macchine nubili, prendendo però in esame il pensiero occidentale e basta. Come se il cervello avesse solo l’emisfero sinistro!

P.: Facciamo qualche prova del gioco macabro: comincerei dal classicissimo Berlusconi (del ‘98, mi pare, o giù di lì): per un morto miracolo italiano; decisamente profetico. D’altronde il Vetusto (che la sua, di morte, proprio non riusciva ad ammetterla) sì è rivelato come il vero grande precursore del dissolvimento, il vero innovatore – pardon: immortatore, sarebbe quasi da coniare, il verbo immortare, come dire rendere parte della morte, esserci per la morte, come quell’altro vecchio Martino pescatore, anche lui bello mortifero. E se si parla del futuro, quello grammaticale che poi però diventa una specie di tic ontologico, che ne pensi di: – ci va il maiuscolone – MORIRE! E MORIREMO! Non so perché ma mi sembra doppiamente adatto allo Zeitgeist dove “spirito” è proprio nella sua accezione di “fantasma” e che sembra proprio rendere evidente quella doppia fine dell’esperienza e della fantasia cui alludevi poco fa. Governare la morte in nome del popolo dei morti. Eppur si muore! Parafrasando il sommo eliocentrico. E però alla fine tocca pure ridere perché mai come nel mondo dei morti c’è stata la rimozione della morte dall’esperienza. E mai come oggi si rende nudo il fine ultimo della mistica dei morti (illuminata, sì! Dispotica, pure!), il fine teleologico supremo dell’immortalità nell’era della sua plausibilità tecnica. Florilegio di apocalissi narrative (solo nell’ultima settimana ho visto un film, una serie animata su Netflix e ho letto un fumetto in cui qualche oggetto spaziale sta per schiantarsi sulla terra e viene analizzato il deboscio dell’umanità nell’attimo prima della scomparsa) nel mondo moribondo. Non ci bastavano i clamori di Battiato nell’82? Ma proprio grazie alla sua ugola, mi accorgo di un’imprecisione da emendare subitamente: magari fosse il mondo dei morti, che avrebbe una sua dignità definitiva. Questa è l’era del moribondo ad libitum. Tempo fa in classe con la quinta in cui insegno stavamo guardando un montaggio di immagini del processo Eichmann e mi è salito questo pensiero: un rituale in cui, più che i fatti in sé, si confrontavano – con astio – due lingue: quella della morte burocratica e quella della morte retorica. Come se si fossero, oggi, finalmente fuse – liquefatte – in una neolingua davvero inespugnabile, violenta e inerte, renitente al senso come all’esperienza, sedicente serva degli scarti seriali dell’emozione (ma non quella di Céline, PERDIO). Divago, ma, mi sembra, nell’orbita ristretta della mosca sul cadavere.

N.: Hai ragione, è il ritornello lugubre di T. S. Eliot, tutto sta finendo con un interminabile “piagnisteo” o forse meglio una lagna, magari fosse il subitaneo crash. L’estasi mistica della modernità ci promette l’oblio durante il martirio con sacerdoti sempre più psicotici e ridicoli. Nelle formule della loro recita c’è la vera lotta sotterranea odierna che pare essere quella degli psicotici per l’eliminazione dei nevrotici, vale a dire di chi ancora vive sulla pelle una qualche urgenza per tentare qualcosa. In un libro appena uscito una celebrata filosofa revisiona perfino Antigone come nevrotica per la sua “pretesa superiorità morale” (e non dimentichiamoci che il termine anarchia è comparso proprio con lei, almeno in occidente, con la sua ribellione alle leggi e ai governanti, nel significato appunto di “atto di disobbedienza”). Ma se invece partiamo dall’ineluttabile per forza dobbiamo cominciare dal piccolo, dal vicino, dallo sperimentabile, dal mio, e senza nessuna vergogna a corteggiare il banale. Per esempio, che c’è di più fatalmente e sacrosantamente fallimentare di ogni vicenda umana, anzi di ogni singolo nostro arco vitale, perfino quando appare fortunato e forse in quel caso più ancora? Nasci, vieni a sapere un po’ e a fatica come funzionano le cose, ti adegui per quanto è possibile, ti arrabatti, ti fai un mazzo così e poi tutta l’esperienza che hai raggranellato ti sfugge nella decadenza, eppure ti tocca bene o male imparare il mestiere di vecchio come lo chiama Goethe ma alla fine vieni comunque licenziato e sparisci. E non parliamo nemmeno dell’odierno passo dell’oca del più o meno inconsapevole: produci, consuma, muori! Quindi da dove viene tutta ’sta sicumera da scimuniti? La gente vive alla meno peggio, da sempre. Ogni singola vita è un’occasione persa, ma c’è pure un umano splendore in ogni sconfitta, questa è la verità ineluttabile e pure l’unico modo per cominciare ad addestrarsi oggi per vedere le cose con un punto di vista di minima autonomia. Lavorare a partire dalla nostra fragilità basilare in quanto esseri viventi, scoprirla passo per passo, scoprire la carenza come la nostra parte più prolifica ma pure la più salda, come per esempio nel pensiero che sta alla base delle arti marziali orientali in cui l’assunto combattivo è la ricezione, l’assecondare, la debolezza che sa sovvertire il pronostico. Le arti marziali in cinese si dicono Rou Dao, cioè metodo della debolezza. E con nessuna apparizione della parola umiltà. Perché l’educazione giovanile non comincia da lì come vero e ineluttabile punto di forza? Così forse si smetterebbe di lasciarsi affascinare dai milioni di imbonitori di tattiche, perché come dice l’Arte della Guerra se un tattico incontra uno stratega il tattico ha perso. Perché si continua a decervellare i giovani di onnipotenza, umanistica o tecnica che sia per poi lamentarsi se non hanno i benedetti “valori”? Ad esempio, e sempre corteggiando il banale, chi è che ci insegna da quando siamo nati, anzi ci impone in ogni secondo di vita di pensare che c’è sollievo solo nella distrazione e l’attenzione è invece la parte faticosa, da evitare di acciaccare come la merda? È l’esatto contrario. Per una mente che funziona bene l’attenzione è un rinfresco continuo, appagante e perfino gaudente, mentre una mente distratta è, sempre, una mente infelice. Ma l’altro punto essenziale da cui partire per me è ammettere la portata peculiare del fallimento odierno e cioè, come diceva l’Orwell di 1984 che “in questo gioco che stiamo giocando, non possiamo vincere. Un certo tipo di insuccesso è preferibile a un certo altro tipo”, solo questo ci possiamo permettere oggi e senza nemmeno sapere tanto bene perché.

P.: Due dei punti che hai centrato mi toccano particolarmente in quanto operaio di quella “fabbrica educativa” (anzi, “azienda”, che fabbrica è diventato un concetto obsoleto, sa di feccia delocalizzata… della triade classica del produci-consuma-crepa la parte della produzione è come se dovesse essere nascosta, troppo triviale ormai per chi vive on-demand – guarda come sembrano obsoleti i Cccp della reunion mentre ri-urlano con voce spezzata il loro slogan più famoso, più obsoleti degli altri vecchi che riprovano a essere giovani: un insuccesso molto di moda nel mondo che non sa più il mestiere di vecchio; più obsoleti perché più esteticamente legati all’industria) che è diventata la scuola – e forse, in certi termini, lo è sempre stata. La mente distratta e infelice di chi è stato programmato (da un sistema famigliare/istituzionale orwelliano) a fuggire dall’attenzione e a plasmarsi nella pura superficie, privato della categoria del tempo profondo e della fiducia in una minima possibilità comunicativa del linguaggio (in una “società delle comunicazioni!” sic!) la vedo in molti dei ragazzi che mi stanno davanti. Senza la capacità – dovuta precipuamente a una consapevolezza “forte” della propria debolezza – di proiettarsi nel tempo viene meno ogni possibilità strategica – l’unica davvero sovversiva, capace di fallire in modo deflagrante per i tutori dell’ordine dei ricchi. Dici bene, si prendono le giovani menti e le si abitua a una pletora di tattiche irrelate per obiettivi incomunicanti e con moventi blandamente egoistici. Risultato: paralisi e apatia dell’immaginario, prima ancora che nell’azione che viene nei fatti delegata in una perenne (e sordamente dolorosa) richiesta di aiuto che riceverà risposte parziali, paternalistiche e pelosamente caritatevoli. La volontà di potenza che si realizza nella creazione dell’impotenza diffusa. Sembra davvero la forma perfetta di fascismo. Con una spruzzata di violenza qua e là, l’automatismo dell’intimidazione e un po’ di fallocrazia ruspante per non perdere le vecchie abitudini. Se lo sposti a livello geopolitico, questo meccanismo si risolve nella guerra che c’è e che verrà. Ma è ancora possibile praticare l’attenzione come atto politico di sovversione esplicita. Sarà ridicolizzato se non perseguitato. E non c’è dubbio che sarebbe stata preferibile – almeno per me – un’altra forma di insuccesso. Ma ognuno fallisce secondo i tempi e i modi del contesto che gli è toccato in sorte.

N.: Si, il guaio sta proprio nel fatto che il terreno del conoscere è arido a dir poco, duro, assodato, essiccato, “tutto è irrimediabilmente trascorso” come scrive un premio Strega, siamo al tempo di Oramai. Pare che nessun valore possa più esser messo in forse. L’altro giorno ho visto sul giornale la foto di un Ait, un paesino nel sud del Marocco dove ho dormito una notte molti anni fa. Era quasi un’oasi, ora c’era un contadino seduto su zolle siccitose grandi come tavolini, e mi ha ricordato il terreno di conoscenza a nostra disposizione: tutto è già strafatto, e da lì poi viene la frustrazione, l’annichilimento, il disfattismo, il diktat da stato preagonico. Per esempio, quelli che dovrebbero essere lo stimolo, parte della soluzione e invece sono il problema vero e proprio. Tipo gli intellettuali o le accademie, le università dove si insegnano un sacco di cose ma solo una essenziale e si chiama servilismo. Quando si generalizza si è sempre scortesi con la verità ma gli accademici hanno tutta la rubinetteria del sapere, a volte pacchiana tipo clan Casamonica altre avvenieristica, ma dentro l’acqua non ci passa e se c’è è insipida, quindi ci tocca cercare alle sorgenti, quando possibile. Metti a caso l’idea vigente di intelligenza che ci siamo fatti. A me personalmente salgono le transaminasi quando sento dire di certa gente che sì, è un pezzo di merda, però è intelligente… Trump solo per fare un esempio. Da lì in poi è facile che la mancanza di scrupoli venga presa per forza di carattere, il predominio ad ogni costo etc. etc. Si è imposta l’idea che l’intelligenza abbia a che fare col tipo di furbizia flaccida e bieca che mira al potere, è un’idea degradata e servile dell’intelligenza che invece nel suo fulgore è e resta una qualità morale. Leonardo è un esempio di magnifica possibilità intelligente, non Berlusconi. Quello che ci impongono è un’idea becera e riduttiva della vita in generale. Oppure, che so, qualsiasi comportamento senza dignità viene giustificato con la Legge del Mercato, come fosse impressa sulle rocce dagli albori del mondo. Sono solo alcuni esempi di idee scontate, contro le quali ognuno dovrebbe prepararsi un addestramento in grado di smuovere il terreno, rimestarlo. L’unico terreno di lotta rimasto alla nostra portata possibile è la nostra mente, sottoposta a ogni secondo a intrusioni invasive come mai da quando c’è aria, una massa di processi di organizzazione del pensiero e ubi solitudinem faciunt pacem appellant. È una mente servile che deve rispondere come la rana di Pavlov. In quel campo si potrebbe fare ancora molto, solo che siamo straconvinti di avere ancora il pieno controllo, da lì la paralisi logica. Ci serve un pensiero ricorsivo tipo quello nei disegni di Escher. Quello è ancora imprendibile.

L’immagine: Marco Berlanda, Figura con occhiali

 

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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